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Regimi di confine alla frontiera sud-orientale d’Europa

di Serhat Karakayali & Vassilis Tsianos

Traduzione dall’inglese a cura di Silvia Spampinato

A Sibel

Il rompicato dell’arrivo

Qualche tempo fa “Le Monde Diplomatique” pubblicò un atlante della globalizzazione. Cerchi piccoli e grandi, punti e altri simboli grafici illustravano i dati di base dell’interdipendenza globale.L’organo centrale della critica europea alla globalizzazione mappava anche il tema delle migrazioni, derivandone una mappa dell’Europa su cui erano evidenziati assieme ai casi di morte e di maltrattamento ai confini esterni dell’Europa, i nuovi campi (1). Quello che spiccava maggiormente in questa geografia non erano le capitali, ma i “centri di detenzione”, indicati da grossi punti neri. Sul confine sud-orientale dell’Unione Europea, sul Mar Egeo, essi formano quasi una linea continua. La regione egea infatti presenta la più grande concentrazione di campi in Europa.
Ma cos’è un campo? L’idea del campo, che Giorgio Agamben ha chiamato il simbolo fondamentale del potere assoluto sulla vita, non può essere separata dalle associazioni storiche che suscita. Le quali, a loro volta, forniscono le prove su cui poggia la teoria di Agamben. Non è una coincidenza che i campi in paesi come l’Italia e la Grecia siano chiamati “Centri di accoglienza” o “caserme”, in quanto, specialmente in Grecia, l’associazione con i campi di concentramento non può essere evitata. Solo trent’anni fa esistevano campi di questo genere per comunisti e repubblicani sotto il regime fascista. Queste associazioni storiche comunque sono importanti soprattutto ai fini di un esame ideologico e politico critico. Sia i migranti all’interno dei campi sia chi critica il fenomeno nelle città fanno leva su un’argomentazione basata sui diritti umani che apparentemente è l’unico veicolo in grado di esprimere chiaramente gli interessi dei migranti. Quando abbiamo visitato un “centro di detenzione” su un’ isola greca, i migranti non solo hanno voluto mostrarci immediatamente le condizioni di vita scandalose e inumane in cui si trovavano, ma ci hanno anche chiesto per esempio di fotografare i servizi igienici. Non tutti i migranti conoscono i dettagli delle leggi europee su asilo e immigrazione, che comunque sono in continuo mutamento, ma esiste un deposito di conoscenze su un tema di discussione così critico in Europa a cui loro fanno riferimento. Mentre il “carcere di deportazione” (Abschiebeknast), diventato un’invettiva comune negli ambienti antirazzisti di sinistra, costituisce solo una piccola parte della realtà quotidiana dei migranti in Germania, dall’altro lato i campi nell’Europa sud-orientale, in particolare in Italia e Grecia, sono vere e proprie istituzioni onnifunzionali delle politiche migratorie. I campi non sono in nessun modo luoghi di immobilizzazione totalitaria. La loro relativa permeabilità e la temporaneità della permanenza in essi, li rendono soste intermedie. I campi sono luoghi in cui si cristallizzano le contraddizioni che pervadono le politiche migratorie dei paesi europei su diversi assi. A prima vista, i migranti sono soggetti ad un rigido sistema di controllo della mobilità. Ma dovunque sia possibile, essi tentano di aggirare questo sistema con “microscopici” stratagemmi. Per esempio, i migranti che si dirigono verso la Grecia dalle città turistiche della parte egea della Turchia, come Bodrum, sanno che non saranno rispediti indietro dalla guardia costiera greca se si gettano in acqua: un rischio che molti sono disposti a correre.

I “mujaeddin” transnazionali di Rastanski Lojial

Il film di Michael Winterbottom “In this world” spicca tra quei film e documentari che affrontano il tema dei percorsi transnazionali dei migranti privi di documenti nel mondo. La sua nota di chiusura riporta un lieto fine che di lieto ha poco: “Il 9 agosto 2002, la richiesta di asilo di Jamal Udin Tobari viene rifiutata. Ma gli è concesso di restare in Inghilterra con un permesso speciale e ora vive a Londra. Deve lasciare il paese un giorno prima del suo diciottesimo compleanno. (2)” Jamal è il protagonista di una storia vera di transito, dal campo Shamshatoo in Pakistan attraverso la Turchia fino a Londra.
Con Jamal, Winterbottom ricostruisce una biografia on-the-road lungo le tappe di un complicato percorso verso l’Europa. Il giornalista Christopher Cooper del “Wall Street Journal” fa qualcosa di diverso. Ricostruisce una ‘tanatografia’, un delitto. Cooper si rende testimone di una mobilità fatale, quella di attraversamento dei confini. Ne cambia solo la direzione. Con l’aiuto di Ntabir Kasmi, il fratello – ucciso – di Bilal Kasmi, Cooper segue le tappe dell’ultimo viaggio di Bilal. Prima che il viaggio cominciasse, Ntabir, che viveva ad Atene, pagò ad un intermediario 1’400 dollari in anticipo. Questo permise a Bilal di raggiungere l’aeroporto di Ankara via Tehran. Ma l’isteria da sicurezza che seguì l’11 settembre 2001 portò i suoi frutti: le forze dell’ordine turche scoprirono il suo passaporto falso e lo riportarono a Tehran.
Varie settimane più tardi, Bilal fece un altro tentativo di arrivare ad Istanbul, questa volta in auto. Di nuovo fu arrestato sul confine turco-iraniano e rispedito indietro.
Non riuscì a raggiungere la capitale turca fino a dicembre, quando lo fece nascosto in un camion. Riuscì ad attraversare il confine della Grecia insieme ad altri 45 migranti in transito, sotto la regia di trafficanti di persone. I loro “accompagnatori” scomparvero immediatamente, mentre, nello stesso istante, compariva la polizia di frontiera greca che li arrestò. Dopo qualche giorno in una prigione di confine, fu “rimpatriato” in Turchia. L’ultima soluzione per lui ed altri fu la pericolosa rotta attraverso la Bulgaria, dove gli spararono addosso mentre attraversavano il confine. Solo Bilal e un’altra persona riuscirono a raggiungere Sofia, mentre gli altri furono costretti a tornare e ad attendere un momento più propizio. A Sofia, Bilal si unì con altri sei migranti. Insieme raggiunsero la Macedonia. Era la via più economica verso la Grecia, ma non la più sicura. Il 2 marzo, mentre le loro famiglie come concordato li attendevano ad Atene, tutti sette furono assassinati in un luogo chiamato Rastanski Lojia, in quanto mujaeddin di Al Quaeda.
Due anni più tardi – dopo che la comunità pachistana ad Atene aveva ostinatamente insistito per la restituzione dei corpi – l’immunità dell’allora Ministro dell’Interno della Repubblica Macedone venne sollevata. Egli è oggi considerato il mandante di questo crimine oltre ad essere stato accusato di altri crimini di guerra contro rifugiati albanesi. La portavoce della polizia spiegò che le vittime erano state arrestate come migranti illegali e uccisi da poliziotti. In seguito erano stati fotografati con delle armi in modo da metterli in connessione con un possibile attacco di Al Quaeda all’ambasciata americana a Skopije. (3)
Badando alle pecore selvatiche all’Hotel Almanya
In Turchia, sul lato opposto al cordone di campi, la mappa non mostra nulla. Da anni ormai la Turchia è diventata l’obiettivo di politiche migratorie imperiali che vedono in essa uno spazio di transizione sotto-controllato nel tragitto verso l’Europa. Per questa ragione non c’è traccia di campi nel senso convenzionale. Il governo sta lavorando ad una riforma della strategia di sorveglianza delle frontiere, in modo da adeguarsi ai requisiti del famoso Trattato di Schengen, tuttavia le micro-politiche o le pratiche di mobilità e del suo controllo hanno ancora carattere d’improvvisazione. Poiché non esiste un sistema funzionale di deportazione, spesso i migranti sono rilasciati. La polizia si impadronisce di scuole e hotel per tenere in custodia i migranti.

Gli hotel sulla costa egea sono diventati un luogo di transito in cui le varie forze dinamiche di questo spazio sociale transnazionale collidono l’una con l’altra in modo esemplare. L’“Hotel Almanya” è una delle tante piccole o medie pensioni sulla Riviera turca che sono utilizzate in parte dalle autorità turche. L’”Almanya” è una pensioncina che non solo offre ospitalità a turisti tedeschi e russi, ma affitta anche qualche stanza alla polizia, che vi trattiene i migranti fino a che il loro status sia stabilito e sia deciso se debbano essere liberati o deportati. Immigrati da Iraq Afghanistan, Siria, Liberia e Sudan, soli o con le loro famiglie fanno “check-in” qui in una situazione di sostanziale confino. Molti di loro sanno tutto su come andare oltre, su dove valga la pena di fare domanda di asilo politico e a cosa devono prestare attenzione in questo processo.
Esistono molti “Hotel Almanya” in Turchia: campi di deportazione improvvisati dentro scuole, fabbriche o stazioni di polizia. Ma questo sistema inadeguato fornisce ai migranti anche spazi d’azione e opportunità. Molti portano con sé vari passaporti in modo da poter essere “una persona diversa” ad ogni controllo; altri fingono gravi malattie infettive di cui i poliziotti hanno paura. Gli hotel non sono solo carceri temporanee e improvvisate, sono anche usati dalle reti del business dell’emigrazione. “Koyun ticareti”, un termine che è entrato nell’uso nella regione costiera, significa qualcosa come “commercio delle pecore”, ed indica i network informali che molti abitanti usano per arrotondare il loro magro reddito. Nella regione di confine tra USA e Messico, “guide” commerciali che sono in grado di attraversare il confine del paese grazie all’organizzazione di una mobilità alternativa, sono chiamati “coyote”. I marinai inglesi chiamavano chi organizzava passaggi clandestini “squalo”. Sul confine greco-albanese invece sono chiamati “korakia”, corvi, e in cinese c’è lo “shetou”, in inglese “snakehead” (testa di serpente): “Significa una persona che sa essere astuta come un serpente e sa usare la sua agile testa per trovare una via attraverso ardui ostacoli”.(4)
Questo era anche il nome dell’organizzazione cinese imputata per la tragedia di Dover. Anche i network del business dell’emigrazione usano nomi di animali. Comunque ”koyun ticareti“ non ha molto in comune con il fantasma di una mafia del contrabbando attiva a livello globale, ma include molti attori coinvolti per proprio conto e che conoscono solamente l’anello seguente nella catena del trasporto.Tra questi ci sono chi compra navi dismesse e le introduce nel giro, i pescatori, poliziotti corrotti e proprietari di hotel che fanno lavorare nelle loro cucine i migranti di passaggio. Cosa che non solo è una buona copertura, ma anche un modo per pagare gli alti costi del viaggio.

In molti ‘laboratori del sudore’ a Izmir e Istanbul e dintorni, ci sono interi gruppi di viaggio che pagano il proprio biglietto per l’Occidente.
Venerdì senza documenti o nel ventre dell’Egeo.

Mentre la storia di Robinson Crusoe, con la sua idealizzazione di un individualismo metodologico, appare oggi screditata dalla teoria delle migrazioni, un nomade di nome Venerdì vaga ancora a lungo nel bisbiglìo sotterraneo delle metafore della mobilità. Nel suo romanzo d’esordio “Venerdì, o nel ventre del pacifico”, Michel Tournier descrive Robinson Crusoe come un topocrate maniacale della sua isola, il quale, comunque, collassa allo spuntare di Venerdì. Venerdì senza volerlo porta il mondo di Robinson ad un crollo produttivo: Robinson entra in una relazione fisica con il mondo geologico sotterraneo dell’isola diventandone, nel suo ventre, materiale e addirittura dà avvio ad un cambiamento che conduce alla trasformazione dello spazio dell’isola per entrambi. Un nomade meno famoso, ma che compensa la minor fama con l’essere una delle prime figure di Robinson post-coloniale nella storia della letteratura, è Susan Barton, nel romanzo di J.M. Coetzee “Foe”. Susan “contrabbanda” un Venerdì nella metropoli di Londra, dove egli è reso impercettibile dalla sua “tormentosa lentezza”. Mentre Susan, con Da Foe, il creatore della saga di Robinson, collassa perché la storia della sua vita è resa fiction e diventa un elemento marino di un Venerdì che è stato trasformato in correnti oceaniche.
Spazi di transito abitati cambiano la direzione delle loro regole. Si potrebbe parlare dei campi sul lato greco dell’Egeo come di istituzioni con competenza limitata. In quanto luoghi di internamento temporaneo, dopo tre mesi garantiscono un biglietto per Atene (è lì che esiste un centro di raccolta delle richieste di asilo) oltre ad una richiesta di lasciare il paese “volontariamente” entro due settimane.
Ma, la frase seguente del “documento di rilascio” è interessante, si dice: “nella direzione da lei scelta”. Per chi è chiaramente identificato come Iraniano o Iracheno però, questo significa l’immediato, quasi clandestino, perlopiù notturno, “rimpatrio” attraverso acque del fiume di confine con la Turchia, l’Evros. Perlopiù sotto la minaccia della violenza. Per quelli che riescono a lasciare il campo con il “documento di rilascio”, ciò normalmente significa scomparire nei centri di produzione dell’economia sommersa per finanziare i costi del prossimo viaggio, lavorare per ripagare i debiti ai trafficanti di persone e alle loro società in espansione transnazionale, o semplicemente integrarsi gradualmente nella vita sociale e lavorativa della propria comunità, ad Atene per esempio, come “lavoratori del mondo privi di documenti”. Spesso significa una combinazione di tutte queste possibilità.
Durante un raid condotto dalla polizia di frontiera in due appartamenti nei pressi di Mitilene, emerse quanto segue: quattro “contrabbandieri di persone” tenevano in prigionia 40 migranti come garanzia finchè le loro famiglie ad Atene avessero pagato i loro costi di viaggio. Secondo il rapporto di un rappresentante dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, poteva essere provato che vari detenuti erano già stati rimandati in Turchia almeno due volte.
Rimanevano nella città turca di Marmaris, sul lato opposto di Mitilene, finché le loro famiglie o network potevano finanziare un nuovo viaggio verso la Grecia in direzione dell’Italia. Mentre questa storia sembra prestarsi a stilizzare questo caso come una prova del volto infame del “traffico”, essa può anche essere letta come un documento sulle pratiche in atto nello spazio sociale transnazionale delle regioni di confine intorno all’Egeo.
Considerato il massiccio volume di transito, può essere definito un paradosso il fatto che il Ministero dell’Interno greco abbia respinto la costruzione di un ampio campo di internamento con posto per più di 2000 migranti nel luogo dove si incontrano i confini dei tre paesi: Grecia, Turkia e Bulgaria – un progetto deciso dal Consiglio della Commissione Europea a Tessalonica nel 2003. Secondo il prefetto di Alessanropoli, un campo così grande renderebbe questa regione di confine la tappa più popolare dei “flussi migratori” transnazionali e annienterebbe l’equilibrio di controllo sui “passaggi” esistenti. Il predecessore del campo in questione, il campo di Vena, possiede perfino l’incredibile capacità di scomparire e riapparire a seconda della situazione politica o di “occupazione”. Quando l’anno scorso fu pianificata una protesta anti-razzista su larga scala contro questo campo, i suoi operatori ebbero la rara idea di annunciare che era stato dismesso – in quanto era vuoto in quel momento. Dopo che si seppe che i dimostranti avevano smobilitato, ovviamente esso fu rimesso in funzione.
Comunque, questo caso non rappresenta in nessun modo un paradosso ma l’inizio di una produttiva trasformazione del controllo (europeo) sulle migrazioni, che è accompagnata, tra il resto, dalla mutata funzione dei campi nell’Europa sud-orientale qui descritta. Mentre nei tradizionali paesi europei di immigrazione la nuova migrazione transnazionale è costretta al letto di Procuste delle istituzioni fordiste, l’Europa sud-orientale è un po’ come un laboratorio per lo sviluppo di un regime di migrazione post-fordista. Il regime migratorio e di confine che ne risulta, in questo caso in Grecia, non dovrebbe in nessun modo essere inteso come un semplice prodotto dei burocrati delle migrazioni dell’Unione Europea e delle loro fantasie di controllo. Al contrario: i centri di internamento da un lato segnano una topografia temporanea delle rispettive rotte migratorie, dall’altro il loro carattere provvisorio o il processo che incarnano, che per ora può essere chiamato un regime di improvvisazione, documentano la particolare istituzionalizzazione della migrazione di transito all’interno dei modi di regolamentazione delle politiche migratorie greche e la massima su cui queste si basano: la Grecia è un paese di “immigrazione di transito”.
Questa permeabilità istituzionalizzata perciò non è un sintomo della mentalità meridionale, ma un’espressione dei gap che sorgono quando esistono rapporti di forza.
Sono questi rapporti di forza che descriviamo come pratiche del regime migratorio e del regime di frontiera, in cui le azioni dei migranti e dei trafficanti giocano un ruolo paragonabile a quello della relativa autonomia delle ONG verso i loro clienti governativi e “intergovernativi”, ma anche gli interessi economici diretti della deregulation, come ha chiaramente dimostrato la scelta della sede dei Giochi Olimpici. Noi ritroviamo queste pratiche lungo il confine della Grecia con paesi extra-europei come Albania, Macedonia, Bulgaria e Turchia e in particolare nella geografia delle rotte migratorie, la quale ha già stabilito un considerevole potere sul modo in cui è definito ciò che accade al confine, nonostante le politiche di armonizzazione della Commissione Europea messe in atto.
La regolamentazione cambia addirittura direzione: cioè è la regolamentazione e non tanto il controllo del transito dell’intera regione sud-orientale d’Europa – e delle sue economie informali e transfrontaliere – quello che viene implementato nelle politiche migratorie e di confine Europee. Provincializzare il cuore dell’Europa! In questo senso, il regime di frontiera regionale va inteso come una reazione socio-tecnologica (o un attacco) alle pratiche di migrazione transnazionale. Il modo specifico in cui i campi sono attrezzati come spazi di transito rende questo nuovo cambio di direzione della regolamentazione estremamente chiaro.

Questo testo è basato su conversazioni e ricerca che hanno avuto luogo nell’ambito del progetto “TRANSIT MIGRATION” con Sabine Hess, Efthimia Panagiotidis e Manuela Bodjadzijev.


(1) Documentario breve su un ”crimine balcanico“, Haris
Raforgiannis/Christoforos Doulgeris/Samy Alexandridis


(2) Michael Winterbottom, In this World, Great Britain 2002, 89 min.

(3) Institute for War & Peace Reporting, BCRv.389, 9/12/02

(4) Vedi Florian Schneider, ”Der Fluchthelfer“, in Eva Horn, Stefan Kaufmann and Ulrich Bröckling (ed.), Grenzverletzer. Berlin 2002, p. 41-57.