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Regolarizzazione: l’andamento delle procedure e le domande respinte

Si ravvisa l’opportunità di fornire alcune informazioni relative all’andamento delle procedure di regolarizzazione perché, come è noto, nella fase attuale stanno emergendo i casi più “sofferenti” di regolarizzazioni richieste che non hanno ancora trovato risposta o che stanno ottenenendo risposta negativa.
In altre parole, le amministrazioni locali (questure e prefetture) hanno riservato alle casistiche considerate non ammissibili alla regolarizzazione un trattamento dulcis in fundo cosicché solo all’ultimo i diretti interessati stanno ottenendo una risposta.
Nella casistica dei dinieghi ci sono le più varie situazioni, ma qui prenderemo in esame solo quelle più ricorrenti, ed, in particolare, quelle che possono trovare una valida difesa, sia pure proponendo necessariamente un ricorso.
Si precisa che le amministrazioni si attengono essenzialmente alle disposizioni del Ministero dell’interno e, di conseguenza, adottano l’interpretazione dal medesimo fornita con le apposite circolari.

Tuttavia, l’interpretazione proposta dal Ministero dell’Interno non necessariamente corrisponde sempre alla corretta interpretazione della legge, che, in un paese in cui vige ancora una Costituzione democratica, è riservata ad un organo indipendente come la Magistratura. In questo periodo, a seguito dell’affluire di dinieghi alla regolarizzazione recentemente adottati dalle amministrazioni competenti, quest’ultima sta delineando una interpretazione, nelle diverse sedi giudiziarie, in senso decisamente opposto a quella adottata dal Ministero dell’Interno. Ciò fornisce un’ennesima riprova che, per quanto riguarda il diritto degli stranieri, le interpretazioni adottate mediante le famose circolari non sono “Vangelo”, ma, al contrario, spesso sono piuttosto discutibili, cosicché, come è giusto che sia in un paese civile, la loro interpretazione è sottoposta al vaglio della Magistratura.

La casistica dei dinieghi
La casistica più ricorrente di rifiuto della regolarizzazione è riferita sostanzialmente a tre filoni principali che si possono così schematizzare:

1) i “tre mesi precedenti”;
2) le pendenze penali ;
3) espulsione con accompagnamento alla frontiera e rientro illegale.

1) Si tratta della verifica circa l’avvenuto svolgimento di un rapporto di lavoro irregolare nell’ambito del trimestre precedente (10 settembre 2002 – 10 giugno 2002) l’entrata in vigore della legge di regolarizzazione (d.l. 9 settembre 2002, n. 195 conv. dalla L. 9 ottobre 2002, n. 222).
Secondo l’amministrazione del Ministero dell’Interno è necessario che come minimo il rapporto di lavoro abbia avuto continuo svolgimento in questo periodo di tempo e che poi sia stato oggetto di dichiarazione di emersione da parte del datore di lavoro. Diversamente, nel caso in cui il rapporto di lavoro non si fosse svolto per tutta la durata del trimestre precedente l’entrata in vigore della legge, ma soltanto per una parte di esso, non sarebbe ammissibile la regolarizzazione.
Ecco che nel caso di rapporti di lavoro iniziati successivamente, oppure iniziati anche prima, ma magari interrotti a cavallo tra il 10 giugno e il trimestre successivo, l’amministrazione risponde negativamente rifiutando la regolarizzazione.
Com’è noto, a seguito del diniego di regolarizzazione, può scattare il provvedimento di espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera nei confronti del lavoratore interessato alla regolarizzazione. Avevamo già affrontato tale argomento, quando non vi era ancora un orientamento in tal senso della Magistratura perché all’epoca i ricorsi erano ancora pendenti e la maggior parte dei provvedimenti di diniego non era ancora stata adottata e comunicata formalmente agli interessati, sebbene si sapesse già che l’interpretazione adottata dal Ministero dell’Interno era in senso restrittivo.

Ciò nonostante le prime dichiarazioni rilasciate dal Prefetto D’Ascenzio, incaricato presso il Ministero dell’Interno di seguire le operazioni di regolarizzazione, e nonostante l’interpretazione letterale della norma sopra citata. Infatti, ricordo che la norma di regolarizzazione prevedeva la possibilità di presentare la dichiarazione di emersione da parte dei datori di lavoro che avessero occupato nei tre mesi antecedenti l’entrata in vigore della norma (d.l. 9 settembre 2002, n. 195 conv. dalla L. 9 ottobre 2002, n. 222) un lavoratore in condizioni irregolari. Ebbene, avere occupato il lavoratore “nei tre mesi precedenti”, vuol dire avere fatto lavorare una persona durante quel periodo, ciò a dire non necessariamente durante tutto quel periodo, ma anche per una durata più breve. Secondo la formulazione letterale della norma si dovrebbe anche ritenere che siano ammessi alla regolarizzazione anche coloro che sono stati occupati all’interno di quel periodo quindi anche soli pochi giorni prima dell’entrata in vigore della legge, purché assunti e mantenuti in forza al lavoro.
Questa interpretazione letterale della normativa in oggetto è stata accolta dal TAR del Friuli Venezia Giulia, dal TAR Emilia – Romagna e recentemente anche dal TAR Veneto con numerose pronunce di cui abbiamo già dato ampiamente conto. Quindi, ormai si tratta di un orientamento consolidato.

2) Un altro filone che rappresenta una casistica molto numerosa rispetto ai dinieghi di regolarizzazione è quello che riguarda le circostanze ostative alla stessa, ossia quelle circostanze che, se verificate, impediscono di dar luogo alla regolarizzazione. Si tratta anzitutto delle procedure giudiziarie ancora in corso, ciò a dire i procedimenti ancora pendenti per i reati di cui agli art. 380 e 381 c.p.p. (art. 8, lett. c), d.l. 9 settembre 2002, n. 195 conv. dalla L. 9 ottobre 2002, n. 222).
Sappiamo che queste verifiche sono state effettuate in base a ricerche di tipo informatico: per l’appunto, quando nei confronti dello straniero per il quale è stata richiesta la regolarizzazione risultava l’esistenza di un procedimento penale non ancora concluso con una sentenza definitiva, si è ritenuto di prevedere l’impossibilità di perfezionare la regolarizzazione nonostante il principio di non colpevolezza sancito anche dalla Costituzione. Talvolta si tratta addirittura di procedimenti ormai caduti in prescrizione, riferiti a vicende ormai “antiche”, passate da tanto tempo.
Ecco che di fronte alla mera esistenza di procedimenti ancora pendenti per reati supposti (dato che fino a che un procedimento è pendente non si può dire che ci sia la colpevolezza) le amministrazioni, attenendosi alle indicazioni del Ministero dell’Interno, hanno rifiutato la regolarizzazione.
Presso il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto sono arrivati numerosi ricorsi, tutti improntati sulla necessità di rispettare il principio di non colpevolezza sancito dall’art.27 della Costituzione. Molto spesso si tratta di procedimenti penali dei quali i diretti interessati non hanno nemmeno notizia, non sanno nulla, tanto che si accorgono di esserne coinvolti soltanto quando ricevono la comunicazione del rifiuto di regolarizzazione. Oltretutto, nei provvedimenti che comunicano il rifiuto, non si dà un puntuale riferimento della tipologia di procedimento di cui si tratta, della fase in cui si trova o del numero di ruolo, al fine di consentire l’individuazione dell’autorità giudiziaria davanti alla quale pende il medesimo; accade che non si fornisca nemmeno alcuna indicazione sulla tipologia di reato per cui si procede. Nella maggioranza dei casi infatti, tali provvedimenti sono estremamente sintetici e si limitano a fare riferimento alla pendenza di procedimenti penali per reati “ostativi”.
È importante evidenziare che il TAR del Veneto ha adottato in tal senso un primo orientamento interpretativo, in base al quale afferma la necessità di interpretare la legge in senso rispettoso dei principi fondamentali stabiliti dalla nostra Costituzione: l’interpretazione di una legge che deve necessariamente rispettare il principio di non colpevolezza sopra evidenziato, impone di non attribuire rilevanza automatica all’esistenza di un procedimento penale pendente, specialmente in una situazione in cui non vi sono ulteriori elementi circostanziali di valutazione che permettano di svolgere una effettiva analisi sulla pericolosità del soggetto.

Una serie di ricorsi sono stati dunque accolti con sentenza in forma semplificata, ossia con una sentenza che ha annullato il provvedimento di rifiuto di regolarizzazione, impedendo in tal modo l’esecuzione del successivo provvedimento di espulsione. In seguito, di fronte alla persistenza delle amministrazioni interessate che, senza tener conto delle sentenze già notificate, hanno continuato imperterrite a emanare provvedimenti di rifiuto sulla base della stessa motivazione, il TAR Veneto ha ritenuto di affrontare diversamente la questione rimettendo alla Corte Costituzionale l’esame della questione di legittimità costituzionale relativa all’interpretazione ed applicazione della legge di regolarizzazione. Nel frattempo però, poiché vi è un fondamento giuridico evidente nei ricorsi che hanno impugnato il rifiuto di regolarizzazione basato esclusivamente sulla formale esistenza di procedimenti penali pendenti, il Tar Veneto ha sospeso tutti i provvedimenti di diniego di regolarizzazione paralizzando in questo modo la possibilità di espulsione degli interessati e garantendo, quantomeno fino a quando la Corte Costituzionale si pronuncerà sulla questione, la possibilità di proseguire il rapporto di lavoro in corso in Italia.

3) Un altro filone di pronunce interpretative adottate sempre dal TAR del Veneto riguarda un’altra circostanza ostativa prevista dalla legge in materia di regolarizzazione. Ricordo che questa legge prevede (art. 8, lett. a), d.l. 9 settembre 2002, n. 195 conv. dalla L. 9 ottobre 2002, n. 222) che non sia possibile regolarizzare chi è stato colpito da un provvedimento di espulsione con esecuzione coattiva, ossia con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica; parimenti, non si potrebbe ammettere la regolarizzazione nei confronti di chi, in quanto colpito da provvedimento di espulsione, avesse lasciato volontariamente il territorio italiano e poi avesse fatto rientro illegale (art. 13, comma 13 T.U. sull’Immigrazione).
In queste due ipotesi non sarebbe prevista, secondo le indicazioni del Ministero dell’Interno, la regolarizzazione.

Numerosi provvedimenti di diniego sono stati notificati proprio in questi ultimi tempi con riferimento a queste ipotesi ostative e altrettanto numerosi sono stati i ricorsi al Tar Veneto, il cui orientamento riguardo a questa problematica si è formato recentemente.
Infatti, sulla stessa linea interpretativa – si presume – già adottata dal TAR della Puglia, è stata ravvisata una situazione di contrasto con i principi contenuti nella nostra Costituzione in quanto è palese la diversificazione del trattamento riservata a cittadini che si trovano nelle stesse condizioni, ovvero lavorano irregolarmente senza pds in Italia. Coloro che sono stati esclusi dalla regolarizzazione infatti, sono stati semplicemente più sfortunati, perché sono stati “beccati” nel corso di un controllo di polizia e quindi colpiti da provvedimento di espulsione. Ulteriore gioco della sorte è quello di chi, tra i tanti, viene anche accompagnato alla frontiera. Sappiamo infatti che una modesta percentuale di stranieri che vengono intercettati nell’ambito di controlli di polizia e che sono colpiti da provvedimento di espulsione vengono poi realmente accompagnati alla frontiera.
Appaiono infatti poco convincenti i dati ufficiali pubblicati dal Ministero a questo riguardo perché non sembra siano così tanti (come dice il Governo) gli stranieri che non solo vengono colpiti da provvedimento di espulsione, ma che sono concretamente portati fuori dall’Italia. Sappiamo anche che si tratta di una semplice lotteria in quanto la possibilità di accompagnare alla frontiera uno straniero dipende semplicemente dalla disponibilità di uomini, di mezzi di polizia, di posti nei centri di detenzione o dalla disponibilità di posti sui voli aerei.

Si precisa che la previsione per cui si esclude dalla regolarizzazione chi è stato già colpito da provvedimento di espulsione e poi ha fatto rientro in Italia (magari per proseguire il rapporto di lavoro in corso), è stata ritenuta un’irragionevole discriminazione operata dal legislatore. Il TAR Veneto, ritenendo non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, ha ritenuto di trasmettere gli atti, anche per questo aspetto, alla Corte Costituzionale perché si pronunci sulla legittimità delle norme adottate dal Governo in materia di regolarizzazione.
Inoltre, ritenendo nel frattempo che vi sia un fondamento giuridico nelle opposizioni proposte dai ricorrenti rispetto al rifiuto di regolarizzazione, il TAR stesso ha, anche in questo caso, ritenuto di sospendere i provvedimenti di rifiuto della regolarizzazione e quindi di paralizzare il provvedimento espulsivo dell’autorità di polizia. Naturalmente questa situazione è destinata a perdurare finché la Corte Costituzionale non si pronuncerà sulla questione, e potrebbe passare molto tempo, anche perché giova ricordare che la Corte Costituzionale è già gravata da ben 460 ordinanze di rimessione da parte di diversi giudici d’Italia, tutte riferite a profili di sospetta incostituzionalità della legge Bossi – Fini.