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Regolarizzazione: la prassi illegittima delle espulsioni per rigetto della domanda

Il Ministero dell’Interno ha dato indicazione di concludere le procedure di regolarizzazione anche se non c’è, naturalmente, un termine fisso che possa costituire una scadenza oltre la quale le domande ancora in attesa si intendono rifiutate. Questo non potrebbe nemmeno succedere perché ogni singola domanda dovrebbe trovare un preciso riscontro in un provvedimento formale di accoglimento o di rifiuto della domanda di regolarizzazione.
Sappiamo che – sia pure con le varianti da sede a sede – le Prefetture stanno ultimando le pratiche e ormai, quasi dappertutto, le domande giacenti che presentano problemi di non ammissibilità (per esempio per un’espulsione con accompagnamento alla frontiera, condanne in sede penale) sono in corso di valutazione. Ma non sempre questo avviene in termini corretti, sia per quanto riguarda la verifica degli ostacoli legali per il perfezionamento, sia per le modalità con le quali si da luogo al rifiuto di regolarizzazione.

Ci viene segnalato sempre più frequentemente che molti stranieri vengono di fatto allontanati dal territorio italiano senza mai avere ricevuto prima alcuna comunicazione del rifiuto della domanda di regolarizzazione. Addirittura in alcuni casi ci viene segnalato che nemmeno il loro datore di lavoro riceve alcuna comunicazione. Quindi queste persone, mentre stanno proseguendo regolarmente il loro rapporto di lavoro, ad un certo punto ricevono una convocazione per presentarsi in questura in merito alla posizione di soggiorno (magari pensando di ottenere finalmente il tanto sospirato pds) e spariscono senza lasciare tracce. Dopo pochi giorni si scopre che l’interessato è stato direttamente rimpatriato o che è stato internato in un centro di permanenza temporanea (cpt) in attesa di espulsione. Senza che nel frattempo MAI alcuna comunicazione con le motivazioni del diniego, sia stata notificata. Nemmeno al datore di lavoro.

Siamo di fronte ad una prassi palesemente illegittima. Come minimo l’interessato ha il diritto di ottenere un provvedimento scritto e motivato del rifiuto di regolarizzazione e l’indicazione dell’autorità davanti alla quale è possibile, eventualmente, fare ricorso. Questo in molti casi non succede.

In molte prefetture si continua a sostenere che il lavoratore non è legittimato a conoscere l’esito del procedimento di regolarizzazione e le motivazioni per le quali si rifiuterebbe la pratica e che solo il datore di lavoro può sapere la risposta perché la regolarizzazione è un procedimento che riguarda solo lui…. Questa affermazione ha dell’assurdo! La giurisprudenza ha ribadito e puntualizzato in modo costante che il procedimento di regolarizzazione riguarda sia il datore di lavoro che il lavoratore quindi entrambi sono pienamente legittimati a mettere in discussione le ragioni del provvedimento del rifiuto e fare ricorso, anche separatamente. Questo è pacifico e lo è altrettanto il fatto che tanto il lavoratore che il datore di lavoro hanno un uguale diritto a conoscere i motivi del rifiuto e riceverlo per iscritto.
Oltretutto questo modo di operare viene poi utilizzato anche con riferimento a situazioni in cui si potrebbe fortemente discutere la legittimità dei provvedimenti, non solo per quanto riguarda l’iter ma anche nella sostanza.

Infatti, sempre più spesso, si scopre che, per portare a termine la pratica, vengono rifiutate regolarizzazioni in base ad impedimenti penali che in realtà nel frattempo, sono già stati archiviati e non esistono nel modo più assoluto.

Sempre più avvocati infatti ci segnalano situazioni di questo tipo, cioè che a fronte di comunicazioni in base alle quali si ritiene di rifiutare la regolarizzazione perché esisterebbe un procedimento penale nato da una denuncia di molti anni prima, si scopre che nel frattempo il procedimento è stato archiviato. Magari non si è nemmeno arrivati al rinvio a giudizio dell’interessato il che significa che non c’erano nemmeno gli indizi minimi per iniziare un processo penale nei confronti della persona.
In altre parole si tratta di persone innocenti che per il solo fatto di avere delle vecchie denuncie – di cui nessuno si è curato di verificare le sorti e il seguito – si sono visti rifiutare la regolarizzazione ed eseguire direttamente il provvedimento di espulsione.

Siamo di fronte a palesi ingiustizie. Anche al sottoscritto è capitato di confrontarsi, ragionare con un funzionario di Polizia il quale – proprio con riferimento alla problematica della verifica dei procedimenti penali nei confronti dei regolarizzandi – ha spiegato che ci sono due strade, si può “fare presto o fare bene”. “Noi – ha detto il funzionario – abbiamo fatto “presto” intendendo che non sono andati a vedere che esito hanno avuto le denunce ma che si sono limitati solo a verificare la loro esistenza.

Questa prassi è molto preoccupante perché “fare presto”, specie se si considera che le persone hanno atteso un anno per la regolarizzazione, è ridicolo se si pensa che poi non si è certo “fatto bene”…..

Va detto, giustamente, che ci sono molti altri uffici di Polizia che invece hanno operato correttamente, facendo tutte le verifiche del caso. Rimane preoccupante il dato che alcune questure abbiano ritenuto di operare in maniera diversa dalla prassi prevista.

Il problema dell’assistenza legale
In merito ai dinieghi della regolarizzazione esiste un problema che riguarda l’assistenza legale.
In molti casi ci viene riferito di persone che si rivolgono ad un avvocato per fare ricorso contro il rigetto della domanda di regolarizzazione e che si sentono “sparare” richieste di parcelle o fondo spese da 2.000 euro o addirittura importi superiori.

Riportiamo a titolo esemplificativo, un caso segnalatoci via mail:
“ Un altro caso mi è stato segnalato da Roma. Si tratta di una ragazza moldava. Convocata il giovedì in questura con una lettera tipo quella da lei citata (invito per definire la posizione di soggiorno) è stata trattenuta per alcune ore e le sono state prese le impronte. Era accompagnata da una persona del sindacato (Cisl o Cigl) che non ha avuto nulla da dire sulla cosa. Poi è stata fatta uscire dicendole che era stata solo una formalità, invitandola a tornare il giorno dopo alle 18 (era venerdì). E’ tornata e appena entrata le è stato ritirato il passaporto ed il cellulare. L’hanno chiusa in una stanza. Fuori c’era suo marito al quale non è stata data alcuna spiegazione. Solo dopo le 21 al marito hanno detto che era stata portata al centro di detenzione di Ponte Galeria (Roma). Il cellulare glielo hanno ridato in tarda serata o il giorno dopo. Nessuno le ha spiegato cosa stava accadendo, quali erano le “accuse” (le dicevano “hai rubato una macchina”, ma lei non ha nemmeno la patente). Secondo lei, forse, una persona con cui abitava precedentemente, una volta catturata per furto, aveva dato i suoi dati anagrafici. Nessun interprete l’ha aiutata a capire. Il giorno dopo le hanno fatto un a specie di interrogatorio ma lei non ha capito chi le faceva le domande (giudice, polizia?). Intanto il marito trovava un avvocato tramite sindacato. Questo, contattato dal datore di lavoro intestatario della regolarizzazione, dice che “non c’è quasi nessuna possibilità”. L’avvocato comunque dice che per provare a fare ricorso bisogna dargli subito almeno 2000 euro. La ragazza resta alcuni giorni nel CPT. Nessuno la informa di come vanno le cose. Aspetta….. Dentro ci sono anche altre signore straniere prese mentre andavano a fare la spesa. Con il marito decidono di non poter fare ricorso contro l’espulsione: non se lo possono permettere.
Ho avuto anche altre chiamate che mi segnalavano il problema delle spese legali alte (il gratuito patrocinio è di difficile accesso). Dopo circa 10 giorni la ragazza, con un altro gruppo di moldavi, è stata messa sull’aereo ed espulsa. Poco dopo il marito ha caricato tutto su un furgone ed è tornato anche lui (appena regolarizzato ..) a casa: aspettavano i documenti per portare in Italia il figlio piccolo e vivere insieme un po’ normalmente…
Mi sembra ci siano diversi casi simili ma non emergono perché si è colti di sorpresa, perché a volte gli amici non sanno che fare e non parlano bene la lingua, perché gli avvocati costano troppo, perché chi ti “trattiene” non ti spiega nulla dei tuoi (pochi) diritti umani.
Così, vestita come sei entrata in questura, lasciando tutto, ti ritrovi dove sei partita tre anni fa….senza niente.”

Certo, racconti come questo non mi rendono particolarmente orgoglioso di appartenere alla mia categoria professionale, d’altra parte in ogni categoria professionale c’è molta brava gente ma anche persone che, approfittando soprattutto dell’ignoranza e del bisogno delle persone di cui abbiamo appena parlato, “sparano” parcelle che non stanno né in cielo né in terra e che comunque al di là dell’applicazione più o meno corretta del tariffario non sono certamente alla portata degli interessati. Va anche considerato che, purtroppo, le spese vive da affrontare per fare i ricorsi non sono indifferenti: mentre le spese per un ricorso al tribunale ordinario contro l’espulsione sono minime, per fare un ricorso al tribunale amministrativo regionale (come nel caso di impugnazione del rifiuto di regolarizzazione) bisogna sostenere un costo di circa 500 euro solo per le marche da bollo, le tasse di iscrizione a ruolo e i diritti di notifica. Questo permette di comprendere che molti degli interessati, nemmeno con la buona volontà e massimi sforzi potrebbero permettersi di pagare un assistenza, indipendentemente dal costo reale. E questo è un grosso problema

Il gratuito patrocinio
In merito a questa situazione la regola c’è ed è costituita dalla legge che prevede per i non abbienti il cosiddetto gratuito patrocinio a spese dello stato. Questa legge prevede che chi non ha sufficienti mezzi economici e sufficienti redditi, sia assistito comunque da un avvocato, scelto in base alla propria individuazione fiduciaria e pagato a spese dello Stato, in base ai minimi tariffari.

Uno dei problemi più grossi per uno straniero per beneficiare dell’assistenza a spese dello stato è che (anche se realmente non ha mezzi economici o redditi né in Italia né tantomeno nel proprio paese d’origine) difficilmente ottiene il documento indispensabile per accedere al gratuito patrocinio, ovvero il certificato rilasciato dal consolato del suo paese in Italia in base al quale dovrebbe risultare che la sua dichiarazione di mancanza di risorse patrimoniali o di redditi nel paese d’origine, in base ai controlli effettuati dall’ambasciata stessa, è una dichiarazione veritiera. Questa certificazione è particolarmente difficile da ottenere presso i consolati dei paesi di origine anche perché questi uffici non sono organizzati in modo tale da consentire delle verifiche celeri nei paesi di provenienza.
E se consideriamo la necessità di agire con assoluta celerità per contrapporsi ad eventuali provvedimenti di espulsione o di diniego di regolarizzazione, ecc, la lentezza o l’impossibilità di ottenere questo certificato rappresenta un ostacolo oggettivo alla possibilità di avvalersi della legge sul gratuito patrocinio.
Di fatto, la quasi totalità degli immigrati non riesce – o per motivi di tempo o per motivi burocratici – ad avvalersi della legge sul gratuito patrocinio, quindi ha come unica alternativa quella di rivolgersi ad avvocati che nei casi – che dovrebbero essere la stragrande maggioranza – in cui si comportano bene cioè applicando correttamente il tariffario professionale, costano troppo rispetto alle loro possibilità economiche.

D’altra parte, è anche vero che, come abbiamo cercato di esemplificare in questi pochi accenni alla prassi operativa in materia di regolarizzazione, questi problemi sono sotto gli occhi di tutti e vi includo anche le associazioni, le organizzazioni sindacali operanti sul territorio che dovrebbero quantomeno tentare di prevenire l’insorgenza di problemi come questi. Dovrebbero chiedere agli Uffici territoriali del Governo (Prefetture) di elaborare criteri e modalità operative trasparenti, quindi chiedere di consentire un effettivo esame della legittimità dei provvedimenti di rifiuto della domanda di regolarizzazione sia da parte del datore di lavoro e sia, a maggior ragione, da parte del lavoratore.
Ricordiamo ancora che una volta che queste persone sono in attesa della propria regolarizzazione da circa un anno, quindi non si capisce perché di debba avere tutta questa fretta di eseguire il provvedimento di espulsione senza dare nemmeno la possibilità di controllare la validità effettiva della procedura seguita.