Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Reportage dalla Balkan Route: la stazione di Déli e il campo di Debrecen (seconda parte)

L’associazione Ospiti in Arrivo racconta il viaggio di conoscenza sulla rotta dei migranti Budapest - Belgrado

Terza tappa: Budapest, stazione Déli pályaudvar

Anche a Déli, come nelle altre due stazioni ferroviarie di Budapest, l’autorità locale ha predisposto una “transit zone”, con servizi igienici e docce. Come nel caso di Keleti, anche qui è presente una struttura fissa, messa a disposizione dal Comune all’associazione Migration Aid. Lo spazio è piuttosto buio, non c’è l’energia elettrica, ma a noi e alla volontaria con cui parliamo sembra già una grande conquista aver una stanza in cui lavorare. Il confronto con la realtà udinese risulta inevitabile: quanto si migliorerebbe il servizio offerto se si potesse contare su quattro muri ed un tetto sulla testa? E’ in questo spazio che i volontari ungheresi ripongono i beni che vengono offerti dalla cittadinanza a favore dei migranti (cibo e acqua, prodotti per l’igiene personale, coperte, sacchi a pelo, tende e vestiti) e organizzano le attività ricreative e di informazione. Infatti, oltre alla distribuzione dei beni di prima necessità, l’associazione si occupa anche di fornire indicazioni circa le future tappe del viaggio, come dimostra una bacheca con numerosi volantini in arabo, farsi e pashtu posta all’entrata del magazzino.

Questo è l’intervento organizzato da Migration Aid, un’associazione piuttosto eterogenea che, grazie soprattutto all’apporto dei social media (Facebook in particolare), può contare oggi su circa 700 sostenitori, più o meno coinvolti nelle varie attività. Ci sorprendiamo dell’efficienza, perciò decidiamo di informarci di più circa la collaborazione con le autorità locali. Con il Comune, in effetti, il rapporto è controverso, ma quel che in fondo è necessario all’associazione è avere i mezzi per operare e preparare una “resistenza civica”, al di là delle prese di posizione della politica. Anche la Chiesa Battista sostiene Migration Aid, mentre alcune difficoltà sono emerse con le moschee della capitale, reticenti ad intervenire in favore dei profughi per timore di ritorsioni. In questo caso, come anche scopriremo più avanti nella città di Szeged, l’assistenza umanitaria si attua in un difficile compromesso: è evidente come i volontari siano costantemente posti davanti alla contraddizione tra quanto ufficialmente permesso e quanto umanamente desiderato per il benessere dei profughi. Infatti, oltre a preoccuparsi delle condizioni dei migranti, i volontari si occupano (loro malgrado?) di indirizzare le persone in uno dei campi profughi ungheresi, appena fuori Budapest. Si tratta del campo governativo di Bicske, che insieme a quello di Debrecen e Vamosszabadi, raccoglie oggi in condizioni precarie le numerose persone in arrivo dal confine con la Serbia e non solo. Di questa realtà si sa poco, se non che si tratta di un campo governativo “aperto” – nel senso che i profughi possono entrare e uscire liberamente – e che la polizia ungherese tende a chiudere entrambi gli occhi nel momento in cui qualcuno si appresta ad andar via per continuare il proprio viaggio fuori dall’Ungheria.
Mentre parliamo con la volontaria di Migration Aid, lo sguardo va oltre la porta del magazzino: al bar della stazione ci sono molti clienti, ma l’attenzione si sofferma su alcuni bambini siriani che saltano la corda e giocano insieme ai volontari con le bolle di sapone e i palloncini. Rari attimi condivisi di serenità.

Quarta tappa: Debrecen, campo aperto per richiedenti asilo

Da Budapest decidiamo di muoverci in direzione orientale verso Debrecen, seconda città ungherese per abitanti, e sede del più importante campo governativo per richiedenti asilo del Paese. Giungendo in auto lungo Samsoni Utca, prima di arrivare all’ingresso centrale del campo, al civico 149, notiamo sulla destra il muro perimetrale del centro in tutta la sua desolante estensione. La struttura sorge sui resti di un’ex-base militare sovietica e sembra conservarne ancora lo spirito. Ovviamente non ci è consentito entrare, ma A. ci aspetta fuori dal cancello principale per raccontarci ciò che ha vissuto nel campo nei suoi nove mesi di permanenza. Ci sediamo sul prato antistante l’ingresso, vicino alla fermata dell’autobus e dei taxi.

Quello di Debrecen è un campo gestito dall’Ufficio Nazionale per l’Immigrazione ungherese adibito alla raccolta della maggior parte dei richiedenti asilo provenienti dal confine meridionale del Paese. La maggior parte di essi proviene dalla stazione di Szeged, dove le autorità concedono un documento che attesta l’ingresso illegale in Ungheria e che permette la circolazione gratuita sui treni per 48h. La concessione è limitata alla sola tratta Szeged-Debrecen, naturalmente.
Del campo di Debrecen ben poco è raccontato ai migranti in arrivo dalla Serbia. A. ce ne ha anticipato in qualche modo la ragione. Pensato per accogliere 773 persone, il centro oggi ne ospita quasi 1500, tra donne, uomini e bambini. Le persone hanno origini tra le più varie. Siriani, afghani, pakistani, persone dall’Africa e persino cubani (una decina, tra cui una famiglia) convivono nello stesso spazio, raggruppati informalmente in base alla provenienza. Dalla nazionalità dipende anche il tipo di trattamento ricevuto all’interno campo. I siriani sono senza dubbio i più rispettati, a seguire afghani e pakistani. Diversa è la condizione degli africani, alle quali a volte, a dispetto di quanto la storia ci ha già insegnato, viene anche negato l’accesso agli autobus.

Il campo è “aperto”: questo vuol dire che i profughi sono liberi di uscire senza particolari autorizzazioni e con un’autonomia di quattro giorni al massimo, trascorsi i quali la riammissione è a discrezione degli operatori del campo. In ogni caso, se qualcuno si assenta per più di un giorno è altamente improbabile che ritorni al campo. Mentre chiacchieriamo con A., un gruppo di una decina di persone, tra uomini e bambini, esce dal cancello principale con piccoli bagagli e zainetti sulle spalle, probabilmente diretti verso Budapest. La polizia all’ingresso abbozza perfino un saluto. All’interno e all’esterno del campo i cosiddetti “linkers”, passeurs in contatto con altri agganci ungheresi, indirizzano le rotte dei migranti dietro alto compenso.

Dall’esterno dei cancelli riusciamo a intravedere gli edifici, sono dei capannoni fatiscenti, alcuni con i vetri rotti e ci viene inevitabilmente da pensare all’inverno che verrà. Cerchiamo di captare curiosamente dal nostro testimone quante più informazioni possibili sulla vita nel campo. Quei prefabbricati sono destinati alle famiglie, mentre ci sono altri spazi per le donne sole (misura di protezione peraltro inutile considerando la presenza nota a tutti di traffico di droga e prostituzione). Le condizioni del campo sono in generale molto precarie e sebbene esistano dei servizi di assistenza medico-legale, questi non sono ritenuti sufficienti dai beneficiari. Il campo è gestito da social workers, giovani ungheresi tra i 20 e i 25 anni, alle dipendenze dirette dell’Ufficio per l’Immigrazione. I richiedenti asilo dispongono poi di assistenza psicologica 4 ore a settimana e l’Helsinki Committee si occupa, invece, dell’accompagnamento legale per 3 giorni a settimana. Durante la nostra conversazione ci si avvicina un papà africano con due bambini di un paio d’anni ciascuno. Il maschietto gioca con noi, intraprendente ed irrequieto, nel suo fare la determinazione di chi sa quello che vuole.

Salutiamo A. all’imbrunire, il nostro viaggio lungo la rotta balcanica deve continuare. Siamo sempre più interessati a comprendere quali siano i meccanismi che muovono il sistema, quali le cause che portano i migranti ad accettare di vivere in una costante e precaria situazione di “limbo”, come da loro stessi definita. L’incertezza e l’attesa caratterizzano ogni tappa del loro cammino, in un contesto di compromettente assenso istituzionale che favorisce i guadagni di chi specula sulle loro vite. Questa ambiguità li accompagna lungo i binari che collegano Horgoš a Rőszke sul confine serbo – ungherese, osservati dagli agenti di polizia da un lato e richiamati da qualche passeur nascosto tra i campi di pannocchie dall’altro. Il clima di disorientamento è palpabile alla stazione dei treni di Szeged, dove alcuni migranti si preparano per partire per destinazioni a loro ancora sconosciute, mentre un avvocato e un sociologo attivi sul campo mettono in luce il compromesso tra le disposizioni ufficiali del governo e le pratiche ufficiose dei volontari.
Il nostro viaggio sulla rotta balcanica finisce laddove molti profughi pensano di lasciarsi alle spalle il peggio della loro migrazione. Tra danze e strumenti improvvisati, molti siriani intonano le loro canzoni in un grande parco, ormai adibito ad accampamento d’emergenza, accanto la stazione di Belgrado. I serbi del comitato Food not Bombs, attivissimi in questo spazio di prima accoglienza, denunciano apertamente le vere questioni che sfondano il politically correct: no alla guerra, no all’imperialismo e alla NATO, sì alla libertà di movimento e documenti per tutti. L’importante ora è mantenere i contatti con i militanti e costruire legami di solidarietà e supporto reciproco tra le associazioni oltre i confini. Il viaggio continua.

Leggi la prima parte del Reportage dalla Balkan Route: le stazioni di Budapest