Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da “Città Meticcia”, n. 20, gennaio-febbraio 2007

Requisito cittadinanza: sulle discriminazioni perpetrate dalla Pubblica Amministrazione

Autisti di autobus, barellieri, medici, ma anche impiegati dell’anagrafe, segretari all’università o, in genere, dipendenti di una qualsiasi pubblica amministrazione. Sono posti di lavoro a cui oggi, nella maggioranza dei casi, nessuno straniero non appartente alla Unione Europea regolarmente residente in Italia può accedere. Nei bandi di concorso, infatti, alla voce requisiti compare ancora il possesso della cittadinanza italiana o, al massimo, di quella comunitaria (e nemmeno questa potrebbe bastare se l’ambizione è arrivare a una posizione dirigenziale, o a entrare in qualsivoglia forza dell’ordine).
Come è possibile? Come è possibile che una norma chiaramente discriminatoria venga applicata proprio dalla pubblica amministrazione, quando invece qualsiasi privato datore di lavoro è tenuto, per legge, a non discriminare in alcun modo i lavoratori per questioni razziali, religiose o etniche?
La questione, come spesso accade in Italia, è assai complessa in quanto non esiste una legislazione univoca in materia. Da un lato, infatti, ci si trova con una norma del 1994, poi ripresa nel Testo unico del 2001 sul pubblico impiego, che prevede, per l’appunto, il requisito della cittadinanza italiana o comunitaria (quest’ultima imposta da una direttiva europea) per i concorsi della Pa.
Dall’altro, abbiamo il Testo unico sull’immigrazione del 1998 per cui «la Repubblica italiana garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani». Una norma tra l’altro disposta, si legge sempre all’articolo 2 «in attuazione della convenzione dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata con legge 10 aprile 1981».
Le due fonti sono chiaramente in contrasto. Quale prevale? Dipende dal giudice. E la maggior parte dei giudici che si sono occupati della questione si sono espressi in favore dell’accesso dei cittadini stranieri ai lavori negli enti pubblici. Negli ultimi anni, infatti, si sono susseguiti i ricorsi con esiti favorevoli di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia (molti dei quali a Genova, grazie all’instancabile lavoro dell’avvocato Roberto Faure) esclusi dalle graduatorie o dai concorsi. Il giudice in questi casi ha imposto all’Ausl, all’Università o comunque all’ente pubblico di “rimuovere” gli ostacoli all’ingresso al lavoro del ricorrente, ovvero di togliere il requisito della cittadinanza italiana. Ma si sa, in Italia le sentenze non costituiscono una fonte giuridica e così queste disposizioni hanno riguardato esclusivamente i casi di cui si occupavano senza portare a norme più generali. Fortunatamente, nemmeno la Cassazione costituisce una fonte di diritto. Nel novembre 2006, la Sezione Lavoro ha respinto il ricorso di un lavoratore migrante (e in più disabile) sostenendo, in buona sostanza, che il lavoro nelle pubbliche amministrazioni è una species, vale a dire non sottoposto alle norme che regolamentano il settore privato; che la convezione Oil parla di lavoratori e non di aspiranti tali, e che non si può accusare di discriminazione una pubblica amministrazione quando esclude i cittadini stranieri in quanto agisce in conformità con la (o meglio una) legge.
Ma, come si diceva, anche la sentenza della Cassazione ha valore esclusivamente per il caso specifico trattato e non è detto che, chiamata nuovamente a esprimersi su una questione analoga, magari a camere unite, il parere non possa cambiare. In ogni caso, come ci spiega l’avvocato Faure: «i miei assistiti restano lì dove sono, a lavorare per le pubbliche amministrazioni anche se non sono cittadini italiani». Non solo, appena un mese dopo la sentenza della corte suprema, a Perugia un giudice ha obbligato l’Asl locale ad assumere un medico iraniano in possesso di tutti i requisiti, eccetto quello della cittadinanza.
Questo, a sommi capi, lo stato delle arti per quanto riguarda l’aspetto giuridico. Ma è chiaro che la questione è, innanzitutto, di natura politica.
Dalle prime anticipazioni sul testo redatto dai ministri Amato e Ferrero in materia di immigrazione, e che dovrebbe costituire i cardini della nuova legge in materia e il definitivo superamento della Bossi-Fini, pare sia contemplata l’ammissione degli stranieri ai concorsi della pubblica amministrazione. Ma il testo è ancora in bozza, e l’iter parlamentare sarà probabilmente lungo e complesso.
Per ora, in mancanza di una norma univoca in materia, l’iniziativa, tanto per cambiare, è lasciata in qualche modo ai singoli enti. Non che, a quanto ci risulta, siano stati in molti a occuparsi della questione. Tra questi, tuttavia, spicca la Regione Emilia Romagna che, nel 2004, ha colto la palla al balzo offertale dalla deroga prevista dalla Bossi-Fini per gli infermieri nelle Asl (ma solo per i tempi determinati), per ripristinare una norma introdotta già dalla legge Martelli nel 1990 e poi abrogata: l’ammissione degli stranieri non comunitari negli elenchi di disoccupati a cui attingono le pubbliche amministrazioni per coprire quei posti che richiedono esclusivamente il titolo della scuola dell’obbligo. Un esempio su tutti: i bidelli delle scuole. E così, oggi, tutti i centri per l’impiego della Emilia Romagna applicano questa disposizione. Non solo, sempre la Regione Emilia Romagna ha fatto un passo politicamente ancora più importante: ha cambiato il proprio regolamento per ammettere i cittadini extracomunitari a tutti i concorsi, fatto salvo quelli per posti dirigenziali. In pochi lo sanno, ma un cittadino marocchino o albanese regolarmente soggiornante in Italia può partecipare, in possesso di tutti gli altri requisiti richiesti (tra cui, quasi sempre, la conoscenza della lingua italiana) ai concorsi indetti dalla Regione per assumere il proprio personale.
Un buon esempio che però non è stato seguito dalle altre pubbliche amministrazioni del territorio, a cominciare da province e comuni, sebbene governate anch’esse da maggioranze di centrosinistra.
A Ravenna, una sollecitazione al Comune in questo senso era arrivata, già nel dicembre 2003, da un’interpellanza dell’allora consigliere di Forza Italia Ravenna (oggi coordinatore comunale di Giovine Italia) Cesare Sama, da sempre molto attento ai temi dell’immigrazione. La risposta a Sama, firmata dall’allora assessore competente Roberto Gualandi nell’aprile del 2004, spiega che le norme in vigore a Palazzo Merlato sono quelle diffuse in tutte le altre pubbliche amministrazioni, cita a proprio sostegno le norme del 2001 sul pubblico impiego e sottolinea un aspetto curioso: e se allo straniero eventualmente assunto venisse revocato il permesso di soggiorno? Come ci si dovrebbe comportare? La risposta potrebbe essere formulata con un’altra domanda: come si comporterebbe, in questo caso, un qualsiasi datore di lavoro privato? O gli stranieri, per definizione, devono e possono aspirare solo a lavori a tempo determinato? Grande rammarico del consigliere Sama, che avrebbe desiderato un po’ più di coraggio da un’Amministrazione «che si dice particolarmente sensibile alla creazione di una società multietnica» e fine del dibattito. Nessuno, nella maggioranza, coglie l’occasione per approfondire la materia.
L’assessore Ilario Farabegoli, oggi al suo secondo mandato con delega all’immigrazione, dice: «In realtà mi ero informato, ma sembra che non ci siano le condizioni giuridiche. In ogni caso, sarei assolutamente favorevole a una misura che aprisse agli stranieri. è una questione da approfondire».
è con il 2006 e con l’insediamento della giunta Matteucci che un piccolo spiraglio sembra aprirsi. Il 24 luglio, infatti, il Consiglio comunale ha votato un atto di indirizzo che sostanzialmente toglie il requisito della cittadinanza italiana per le nomine dirette del Sindaco in enti e associazioni, per quelle figure che sostanzialmente rappresentano il Comune. Nomine, incarichi, non lavori, ma comunque un segnale. Perché, adesso, non completare l’opera?
Il Sindaco si dice disposto ad affrontare il tema, interessato alla questione e ovviamente favorevole a un’apertura in questo senso. Previa verifica nella maggioranza e, soprattutto, previa verifica della fattibilità giuridica della cosa.
A spiegarci nel dettaglio proprio questo aspetto è Amedeo Penserino, segretario generale del Comune di Ravenna. «La riforma del titolo V della Costituzione ha dato maggiori poteri ai Comuni in fatto di regolamenti interni. E sì, oggi, tecnicamente, il Comune potrebbe votare un regolamento in cui modifica i requisiti di accesso parificando, sostanzialmente, i cittadini extracomunitari a quelli comunitari». E non servirebbe nemmeno una maggioranza qualificata. Un atto simile, poi, sarebbe una dimostrazione di coerenza anche verso i principi sanciti nello Statuto del Comune che, all’articolo 3, «favorisce i rapporti degli stranieri regolarmente soggiornanti con l’amministrazione e l’accesso ai pubblici servizi in condizioni di parità di trattamento con i cittadini italiani». Certo, è anche vero che un atto simile potrebbe comportare qualche rischio perché, come si diceva all’inizio e come ammette Penserino, su questa materia siamo in balia dei giudici. Infatti, il regolamento non elimina il rischio che qualche cittadino possa ricorrere al Tar. Magari un italiano che viene escluso da una graduatoria in cui invece trova posto uno straniero. E in questo caso il giudice potrebbe esprimersi in modo analogo a quello dei suoi colleghi di Liguria, Toscana, Umbria. E quindi dare ragione al Comune. Oppure scegliere un’interpretazione vicina a quella della Cassazione e costringere il Comune a discriminare lo straniero in favore dell’italiano. Ma, prima, si dovrebbe comunque dimostrare che quel regolamento viola una norma.
Un’ipotesi, questa, che pare piuttosto remota secondo più di un esperto. La scelta, insomma, sembra essere soprattutto politica. E nell’attesa di una buona legge nazionale in materia che risolva la questione una volta per tutte, qualche segnale dal basso certo non nuocerebbe alla causa.

di Federica Angelini