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Ridurre il danno della sanatoria settembre-ottobre 2012: alcune ipotesi

a cura del Prof. Emilio Santoro, Presidente di "L'altro diritto" e docente di diritto degli stranieri all'Università di Firenze

Le considerazioni che seguono non intendono essere una guida all’uso della sanatoria e neppure un commento esaustivo ad essa. Per una guida all’uso ben fatta e per commenti generali rimando, rispettivamente, a quanto pubblicato da Melting Pot e ai documenti dell’ASGI. In queste poche righe mi soffermerò solo su alcune questioni problematiche, cercando anche di proporre alcuni spunti che spero possano aiutare a trovare una soluzione, forse eterodossa, ma funzionale, per esse. Come sempre, quando mi trovo a commentare provvedimenti normativi in materia di stranieri mi vedo costretto, da un lato, a cercare di individuare la ratio del provvedimento (spesso oscura e contraddittoria, se non subdola), dall’altro a vedere come in via interpretativa si può operare una riduzione del danno che il provvedimento stesso potrebbe causare agli stranieri.

1) Qualche considerazione generale
La sanatoria prevista dal comma 5 (disposizioni transitorie) del decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109 è un ibrido, e le regole indicate per il suo funzionamento risentono della sua natura ambigua, che ha tratto in inganno persino il Ministero degli Interni. L’ambiguità nasce dal fatto che l’istituto tratteggiato dal legislatore è una sanatoria non del titolo di soggiorno dello straniero, ma del suo rapporto di lavoro irregolare. Tant’è che le FAQ pubblicate sul sito del Ministero del lavoro relative alla procedura hanno per titolo “Emersione dal lavoro irregolare dei lavoratori stranieri extracomunitari 2012”, quindi non si parla di emersione dal soggiorno irregolare. Questa natura è coerente con il provvedimento che la prevede, cioè il decreto legislativo di recepimento della direttiva CE 2009/52 del 18 giugno 2009, che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Alla denuncia del rapporto di lavoro illegale e alla sua regolarizzazione, l’art. 5 al comma fa però seguire la stipula di un contratto di soggiorno e la concessione di un permesso per motivi di lavoro, trasformando quindi la regolarizzazione lavorativa in una regolarizzazione della permanenza sul territorio nazionale. In questo modo la regolarizzazione del rapporto lavorativo si trasforma nella mera occasione della norma, passando del tutto in secondo piano quando il legislatore ha dettato le sue procedure. E’ come se chi ha scritto il decreto avesse pensato che tutte le irregolarità dei rapporti di lavoro degli stranieri dipendono dalla irregolarità del loro soggiorno.
E’ evidente che, nel paese in cui secondo molte stime un quarto del prodotto interno lordo è dovuto all’economia sommersa, la sanatoria dell’irregolarità della condizione lavorativa può ben riguardare anche gli stranieri regolarmente presenti. Il primo comma dell’art. 5 consente di chiedere la regolarizzazione a tutti quei datori di lavoro che “occupano irregolarmente alle proprie dipendenze da almeno tre mesi, e continuano ad occuparli alla data di presentazione della dichiarazione di cui al presente comma, lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto almeno dalla data del 31 dicembre 2011”. Quindi la richiesta può essere fatta tanto dai datori di lavoro che occupano alle loro dipendenze irregolarmente lavoratori regolarmente soggiornanti quanto da quelli che occupano alle proprie dipendenze lavoratori irregolarmente soggiornanti. Sotto questo profilo la norma appare costituzionalmente viziata per disparità di trattamento, minimante giustificata dal fatto che la sanatoria è occasionata dal recepimento di una direttiva europea che disciplina le condizioni dei lavoratori migranti. Infatti chi impiega alle proprie dipendenze lavoratori italiani o comunitari, non ha la possibilità di sanare l’irregolarità commessa ed è quindi costretto ad affrontare la sanzione penale. La norma favorisce chi ha sfruttato i lavoratori stranieri, rispetto a chi ha sfruttato quelli italiani. Vedendola dall’altra parte, il fatto che venga fatta una sanatoria di questo tipo tutela maggiormente i lavoratori italiani, in quanto chi li assume non può pensare che in un prossimo futuro eviterà grazie ad un provvedimento straordinario la sanzione. Da questo punto di vista la norma sembra in violazione della convenzione OIL del 1975 che impone agli Stati di garantire parità di condizione di trattamento tra lavoratori migranti e lavoratori nazionali.
Come detto, via via che si leggono i commi dell’art. 5, ci si rende conto che il legislatore si è preoccupato non tanto di sanare i rapporti di lavoro irregolari, ma l’irregolarità della presenza del lavoratore. In altre parole le norme sono dettate per un caso specifico di rapporto di impiego irregolare di lavoratori migranti: quello dei lavoratori migranti irregolarmente presenti. L’intento del legislatore è così trasparente che, come accennato, ha ingannato anche il Ministero degli Interni, che nella prima circolare contenente istruzioni sulla sanatoria, la 400 del 27 luglio, ha sostenuto che alla regolarizzazione possono accedere solo i datori di lavoro che hanno impiegato alla proprie dipendenze uno straniero “irregolarmente presente sul territorio nazionale”. L’errore è stato corretto, un po’ goffamente, in pochi giorni con la circolare 5090 del 31 luglio che, senza menzionare l’errore della circolare precedente, anzi facendo finta di ignorare completamente questo atto, detta nuovamente le indicazioni alle questure per l’attuazione della sanatoria ripetendo la definizione dei soggetti legittimati a richiederla contenuta nel decreto legislativo.
Se uno legge la disposizione come la concessione della possibilità di ravvedersi offerta a quei datori di lavoro che hanno impiegato lavoratori a nero, la normativa è piena di incongruenze. Non si capisce, come detto, perché si possa ravvedere solo chi ha impiegato lavoratori stranieri e non lavoratori italiani o comunitari. Ma anche restando ai lavoratori stranieri, perché può chiedere la sanatoria solo chi ha impiegato stranieri “presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto almeno dalla data del 31 dicembre 2011”? O solo chi ha impiegato a tempo pieno i lavoratori stranieri e non anche chi li ha impiegati part-time (a meno che non siano lavoratori domestici)?
Il fatto che la sanatoria possa essere chiesta solo da chi ha impiegato irregolarmente alle proprie dipendenze gli stranieri “presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto almeno dalla data del 31 dicembre 2011” si giustifica solo pensando alla regolarizzazione come destinata a sanare non i rapporti di lavoro irregolari, ma le presenze irregolari: nasce cioè dall’esigenza di non scatenare una corsa ad arrivare in Italia prima del 15 ottobre per sanarsi. La previsione che la sanatoria possa essere fatta solo per lavoratori impiegati a tempo pieno è in effetti una finzione che ha invece solo fini di bilancio. Concretamente essa non impedisce di sanare i lavoratori impiegati part-time, ma impone a chi vuole fare la sanatoria di versare i previsti contributi per tre mesi di lavoro, come se il lavoratore fosse stato a tempo pieno. In altre parole questa norma ha solo la funzione di garantire all’INPS un finanziamento maggiore. Del resto in mancanza di questa norma i lavoratori sarebbero tutti sanati come dipendenti part-time al minimo delle ore. Uno potrebbe dire poco male, è una giusta sanzione, che si aggiunge al contributo forfettario di mille euro, per lo sfruttatore del lavoro in nero. Il problema è che normalmente, in occasione delle sanatorie precedenti, questo tipo di norme hanno dato vita a grandi estorsioni, istigate dalla Stato, a danno dei lavoratori stranieri irregolarmente presenti, che sono in posizione contrattuale debolissima.
L’unica eccezione prevista alla regola che il rapporto di lavoro deve essere a tempo pieno e quella del settore del lavoro domestico. Vorrei sottolineare che questa esclusione se, da una parte, apre una finestra in cui gli astronomici costi previsti per questa regolarizzazione sono un poco più contenuti (e comunque parliamo di cifre che alla fine, considerando tutto, si aggireranno poco sotto i 2000 euro), dall’altra perpetua, come ho più volte sottolineato (1), la strategia neoschiavistica per cui lo Stato non essendo in grado di dare risposte al grave problema della cura dei familiari non autosufficienti, invita le famiglie italiane ad assumere collaboratrici familiari (sono quasi sempre donne) pagandole per 20 ore alla settimana ed esigendo da loro il lavoro che dovrebbero fare in 3. Nel contratto nazionale su lavoro domestico è infatti previsto che un lavoratore non possa fare più di 54 ore a settimana.

2) Prova della presenza sul territorio nazionale prima del 31 dicembre 2011
L’ultimo capoverso del primo comma dell’art. 5 afferma che “la presenza sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011 deve essere attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici”. Questa previsione è di difficile comprensione per quanto concerne l’individuazione degli “organismi pubblici” e di complicata applicazione per quanto concerne il tipo di documentazione da produrre.
Sul primo punto, la locuzione “organismi pubblici”, scelta dall’estensore del decreto, fa quasi pensare ad un messaggio subliminale che il Governo dei tecnici ha voluto mandare agli uffici della pubblica amministrazione, dicendo loro che si stanno trasformando in ectoplasmi. Ci è voluto un parere dell’avvocatura dello Stato espresso il 4 ottobre 2012, per fare un po’ di chiarezza. Come era prevedibile, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che in tale categoria rientrano anche quei “soggetti pubblici, privati o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono un’attribuzione o una funzione pubblica o un servizio pubblico”. La formula “organismo pubblico” è infatti abbastanza atecnica ed aleatoria da consentire di sostenere che in essi rientrino non solo gli uffici pubblici ma anche i concessionari di pubblico servizio: si può immaginare che possano essere considerati come documenti validi alla fine dell’attestazione della presenza tutti gli atti in cui un “organismo pubblico” ha identificato lo straniero. L’avvocatura dichiara, a titolo esemplificativo, che “potrà trattarsi di una certificazione medica di una struttura pubblica o un di certificato di iscrizione scolastica dei figli; potrà far fede una tessera nominativa dei mezzi pubblici, una multa, la titolarità di una scheda telefonica di operatori italiani oppure una documentazione rilasciata da centri autorizzati di accoglienza e ricovero, anche religiosi”. A questi esempi si potrebbe aggiungere quello delle Poste che gestiscono un pubblico servizio: quindi dovrebbe andare bene anche una raccomandata ritirata, dato che questa operazione,comporta l’identificazione del ritirante.
E’ importante, infine, che tra le prove documentali, l’Avvocatura faccia rientrare anche la documentazione rilasciata da rappresentanze diplomatiche o consolari in Italia, infatti il decreto legislativo non richiede che l'”organismo pubblico” sia italiano.
Sotto il secondo profilo, quello del tipo di attestazione, la disposizione è contraddittoria rispetto alla ratio della norma stessa. Non esiste infatti praticamente nessuna attestazione rilasciata da “organismi pubblici” che possa attestare la presenza irregolare di uno straniero dal 31 dicembre 2011. Gli unici casi in cui questo sarebbe possibile sono quelli dello straniero trattenuto in un CIE da 9 mesi (speriamo che non ne esistano!!!), oppure in custodia cautelare da 9 mesi e poi prosciolto, o degente per un uguale periodo in un luogo di cura. Ma in questi casi come farebbe il datore di lavoro a sostenere che negli ultimi tre mesi lo stesso straniero ha lavorato alla proprie dipendenze?
Perseguendo la linea interpretativa suggerita dall’avvocatura, si potrebbe dire che il tipo di documento richiesto potrebbe essere un abbonamento a pubblici servizi (trasporti, comunicazioni) sussistente ininterrottamente da dicembre 2011. Questo tipo di documentazione è però facilmente producibile solo dai lavoratori regolarmente presenti, che però hanno il permesso di soggiorno che vale come attestazione della presenza da prima del 31 dicembre.
Per chi è stato sempre irregolare e non ha timbro di ingresso sul passaporto avere un’attestazione proveniente da un organismo pubblico che certifichi la sua presenza in Italia anche solamente prima del (e non “ininterrottamente dal” 31 dicembre 2011) è molto complesso. Infatti dal 2009 vige nel nostro paese il reato di irregolare presenza e il conseguente obbligo da parte dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio di denunciare gli stranieri della cui irregolare presenza vengono a conoscenza, accompagnato dall’obbligo di verificare la loro regolarità sul territorio prima di rilasciarli qualsiasi atto. In effetti le uniche identificazioni non foriere di denuncia sono quelle fatte da autorità sanitarie e autorità scolastiche, oltre quelle rilasciate dai consolati e/o dalle ambasciate straniere in Italia.
Ci sono molti indizi che il Ministero degli interni, che ha già letto la normativa come una sanatoria degli irregolari, si accontenterà di una documentazione che attesti non la presenza “in modo ininterrotto dal 31 dicembre 2011”, ma semplicemente la presenza prima del 31 dicembre 2011. Quindi appare plausibile che tutti gli stranieri che hanno fatto ingresso regolare in Italia e hanno un timbro sul passaporto oppure hanno avuto un qualche periodo di regolarità prima della fine del 2011 potranno essere regolarizzati, così come probabilmente quelli che, prima di quella data, hanno fatto dei tentativi di emergere dall’illegalità, per esempio facendo domanda di asilo o provando ad usufruire della precedente sanatoria. Anche chi ha usufruito di prestazione sanitarie prima della fine del 2011 sarà ugualmente in possesso di documenti di un organismo pubblico che attestano la sua presenza in Italia.
Gli indizi che il Ministero si sta orientando ad accontentarsi di una prova della presenza prima del, e non dal, 31 dicembre, sono però criptici e non univoci. La circolare del Ministero dell’Interno (Direzione Politiche dell’immigrazione e dell’Asilo) e del Ministero del lavoro del 7/9/2012, a p. 4, sotto il titolo “Lavoratori” quando definisce chi può essere oggetto della sanatoria afferma che i lavoratori stranieri regolarizzabili, sono quelli “presenti sul territorio nazionale ininterrottamente almeno alla data del 31 dicembre 2011”. La formula vorrebbe semplicemente replicare il testo normativo, ma è viziata da un errore rilevatore di un lapsus freudiano, là dove invece di dire che “presenti ininterrottamente … dalla data” scrive “alla data”… lasciando il dubbio che l’errore sia l’introduzione dell’avverbio “ininterrottamente” e che l’estensore volesse scrivere che possono regolarizzarsi i lavoratori stranieri presenti “alla data del 31 dicembre 2011”. Che di lapsus freudiano si tratti è confermato dal fatto che poco dopo, a pagina 7, quando indica gli adempimenti che deve compiere lo Sportello Unico, al punto 5, è proprio scritto che questo deve verificare “la documentazione attestante la presenza del lavoratore straniero sul territorio nazionale almeno alla data del 31 dicembre 2011, proveniente da organismi pubblici”. Qui, quindi sparisce l’avverbio “ininterrottamente” e la richiesta è evidentemente quella di provare non la presenza ininterrotta dalla fine dell’anno scorso, ma solo la presenza in un momento antecedente alla conclusione del 2011.
Le Frequently Asked Questions, relative alla regolarizzazione, pubblicate sul sito del Ministero del lavoro fanno un passo avanti nella direzione della sufficienza della attestazione della presenza al, e non dal, 31 dicembre 2012, introducendo alla risposta alla domanda 27 una presunzione iuris tantum, cioè smentibile dai fatti. In tale risposta si legge infatti: “Il lavoratore deve essere presente almeno dalla data del 31 dicembre 2011, quindi è chiaro che se dimostra la propria presenza da prima di tale data la prova sarà accettata. La presenza ininterrotta dal 31 dicembre si deve ovviamente presumere salvo evidenze contrarie”. Quindi si introduce una sorta di inversione parziale dell’onere della prova. Non sono più le parti del rapporto di lavoro che al momento della stipula del contratto devono portare una “documentazione proveniente da organismi pubblici” da cui risulti “la presenza sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011”. Basta che tale documentazione attesti la presenza sul territorio nazionale prima del 31 dicembre 2011, quindi per assurdo anche, scrivo a caso, nel maggio 1999, sarà poi lo Sportello Unico, immagino in effetti la questura, a verificare se ci sono “evidenze” che mostrino che la presenza da quel momento non è stata ininterrotta.
Merita di essere sottolineato che questo orientamento interpretativo non sembra essere condiviso dall’altra Direzione del Ministero dell’Interno che si occupa dell’immigrazione, quella “dell’immigrazione e della polizie delle frontiere”. Quest’ultima, infatti, con la circolare 400/C/2012, ribadisce in maniera enfatica (l’avverbio è sottolineato nel testo della circolare) che il lavoratore straniero deve essere “ininterrottamente” presente dal 31 dicembre. Anche se poco prima la circolare contiene lo stesso errore (freudiano?) di quella dei colleghi dell’altra direzione, affermando che oggetto di regolarizzazione sono “i lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale in modo ininterrotto, almeno alla data del 31 dicembre 2011”.
Non credo che sia immaginabile che il Ministero degli interni emani una circolare contra legem in cui dice in modo chiaro che il datore di lavoro si può limitare a presentare una documentazione rilasciata da organismi pubblici che attesti la presenza dello straniero prima del (e non “ininterrottamente dal”) 31 dicembre 2011. L’accettazione di documenti di questo tipo sarà perciò sempre incerta e sottoposto alla discrezionalità dei singoli Sportelli Unici e agli eventi. Non è infatti difficile immaginare che se tutto procede tranquillamente, si tenderà ad essere “comprensivi” nella valutazione delle prove. Se invece un richiedente sanatoria commetterà un reato odioso (tipo violenza sui minori), scatterà una interpretazione rigorosissima dei requisiti (tanto a quel punto cassa è stata fatta, e i contributi forfettari dei richiedenti incassati).

2.1. Per ripararsi dall’incertezza si può provare ad aprire l’ombrello di Azzeccagarbugli
In queste righe propongo una soluzione indubbiamente da Azzeccagarbugli che a mio modo di vedere ha quanto meno il merito di fare da ombrello all’incertezza che regna su questo punto liberando da un lato gli Sportelli Unici dall’imbarazzo di accettare una documentazione diversa da quella prevista dal decreto e, dall’altro, consentendo, con ottime ragioni formali, di impugnare un eventuale provvedimento di rigetto dovuto alla mancanza della documentazione capace di provare la presenza ininterrotta da prima del 31 dicembre 2011 del lavoratore straniero. Dico subito che sconsiglio, se non in casi estremi, di utilizzare la soluzione che propongo come unica base per la prova della presenza, ma, per gli stranieri irregolari, cioè senza permesso di soggiorno al momento della presentazione della domanda, consiglio di accompagnarla sempre a qualche prova materiale della presenza sul territorio in uno specifico momento antecedente il 31 dicembre 2011.
Accertato che la norma è stata scritta male, secondo me l’unico documento in grado di soddisfare quanto essa letteralmente prevede per i migranti irregolarmente presenti sul territorio sono o un atto notorio, o, la molto più economica, dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, in cui qualcuno attesta che lo straniero è ininterrottamente presente sul territorio dello Stato da prima del 31 dicembre 2011. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 5 del decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109 non richiede infatti che l’attestazione della presenza ininterrotta dello straniero da prima del 31 dicembre 2011 sia fatta da organismi pubblici, ma semplicemente che essa “sia attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici”.
Quindi, probabilmente in modo involontario, la norma lascia lo spazio per provare la presenza attraverso atto notorio o dichiarazione sostitutiva. Se avesse previsto che l’attestazione della presenza fosse fatta da organismi pubblici, l’atto notorio sarebbe stato escluso. Invece la norma richiede che provenga da organismi pubblici, non l’attestazione, ma semplicemente la documentazione che la contiene. L’atto notorio o la dichiarazione di esso sostitutiva sono sicuramente documenti provenienti da organismi pubblici, mentre proviene dal privato che fornisce la dichiarazione l’attestazione.
A norma dell’art. 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 infatti le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà possono concernere “stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato […]. La dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza”. Il terzo comma di questo articolo prevede poi che “nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi”, possono essere comprovati mediante questa dichiarazione “tutti gli stati, le qualità personali e i fatti” non espressamente esclusi dalla legge. Quindi, data la mancata esplicita esclusione normativa richiesta dall’art. 48 del D.P.R. 445/2000, devono essere considerati a mio parere pienamente accettabili. Anzi, ribadisco, credo che tali atti siano gli unici documenti provenienti da organismi pubblici che possano attestare la presenza ininterrotta degli irregolari da prima del 31 dicembre 2011 come la legge richiede.
La dichiarazione deve essere fatta, dice la legge, da chi vi abbia interessa. Quindi, per quello che qui ci interessa, può essere fatta sicuramente dal datore di lavoro, che dovrebbe dichiarare che ha assunto il migrante dal 9 maggio, ma lo vede regolarmente dall’anno scorso, oppure da chi dà allo straniero ospitalità ha qualsiasi titolo oneroso, dato che il fatto di ospitare un irregolare è un reato anche questo soggetto ha un interesse evidente alla sua regolarizzazione, o da chiunque altro possa dimostrare di avere un concreto interesse.
Tengo a precisare che ricorrere all’atto notorio o alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è un modo di svuotare il requisito previsto. Infatti chi facesse davanti ad un notaio una dichiarazione falsa o sottoscrivesse davanti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio una dichiarazione attestante il falso si esporrebbe alle sanzioni specificamente previste anche a quelle comminate dall’art. 483 c. p. (rubricato appunto “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”) secondo il quale: “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”. Questa norma d’altra parte conferma che il nostro ordinamento prevede la possibilità che esistono documenti pubblici che contengono attestazioni fatte da privati.
Questa soluzione formalmente, a mio parere, ineccepibile, e quindi capace di giustificare un reclamo gerarchico o un ricorso contro un diniego, presenta un problema pratico per la sua realizzazione. L’art. 38 del D.P.R. 445/2000 al terzo comma recita: “Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore. La copia fotostatica del documento è inserita nel fascicolo”. In molti Comuni è invalso l’uso, o sono state vere e proprie direttive in questo senso, di non autenticare la dichiarazione diretta ad una pubblica amministrazione, invitando la persona a mandarla direttamente con la fotocopia del documento di identità. Questa soluzione è corrispondente sicuramente ad esigenze di semplificazione (anche del lavoro degli uffici), ma la legge prevede comunque che la dichiarazione possa anche essere sottoscritta dall’interessato “in presenza del dipende addetto” che in questo caso compila un modulo in cui si dice che ha accertato l’identità del dichiarante e lo allega alla dichiarazione. Si dovrà chiedere agli uffici comunali, solitamente gli uffici anagrafe, di rispolverare questa procedura ormai un po’ desueta per la sanatoria. I Comuni hanno spesso limitato il rilascio della certificazione dell’identità del dichiarante al caso in cui la dichiarazione serva ad un privato e non ad una pubblica amministrazione. Si potrebbe osservare che in questo caso dovendo essere presentata allo Sportello Unico per la stipula del contratto di soggiorno, che è anche un contratto di lavoro con un privato, la dichiarazione è destinata anche ad un privato, il datore di lavoro che assume lo straniero, che senza la dichiarazione non potrebbe concludere il contratto di assunzione.
E’ importante comunque ricordare che la dichiarazione non deve essere fatta ora, ma basta farla prima della convocazione allo Sportello Unico, perché è solo allora che deve essere prodotta la “documentazione proveniente da organismi pubblici” attestante “la presenza sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011.
Ripeto l’annotazione fatta in premessa: non mi affiderei alla sola dichiarazione di atto notorio. Affiderei a questa in linea di massima il compito di provare la presenza ininterrotta dal 31 dicembre 2011, mentre suggerisco di arrivare sempre allo Sportello Unico con documenti che comprovino la presenza prima di quella data. La dichiarazione sostitutiva di atto notorio però può anche servire ad integrare prove che non provengono da “organismi pubblici”, ovviando a questa carenza formale. Per esempio l’Avvocatura nel suo parere sostiene che “non può ritenersi utile un passaporto recante il timbro di entrata in ‘area Schengen’ non essendo quest’ultimo in grado di attestare, da solo, la presenza dello straniero, alla data stabilita, proprio sul territorio nazionale”. Bene il passaporto con un timbro di area Schengen, casomai, ma non necessariamente, accompagnato da un biglietto di viaggio che indichi la prosecuzione verso l’Italia e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, potrebbero essere sufficienti. Analogamente, l’attestazione di organismi (mense, dormitori, eccetera) che non hanno convenzioni con gli enti locali e quindi non si configurano come gestori di pubblici servizi, accompagnate da dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, è plausibile che siano sufficienti.

3) La regolarizzazione dei regolari
Se torniamo per un momento agli stranieri regolari merita di essere sottolineato che la sanatoria può essere un escamotage un po’ costoso per convertire un permesso di soggiorno non convertibile in un permesso per motivi di lavoro. Non avendo infatti richiesto il legislatore che il lavoratore straniero sia irregolarmente soggiornante, possono essere sanati anche stranieri che sono presenti con un permesso di soggiorno per motivi di studio, per lavoro stagionale, per cure mediche, con uno dei permessi rilasciati per casi particolari ex art. 27 t.u. immigrazione e con un permesso per assistenza al minore rilasciato ex art. 31 terzo comma t.u. immigrazione.
Cominciamo con il dire che per questi lavoratori stranieri non si porrà problema della documentazione della presenza “ininterrotta” dalla fine dell’anno scorso. E’ lecito presumere che nessuno andrà a sindacare eventuali breve assenze dal territorio, casomai in corrispondenza, delle ferie. Del resto sarebbe un assurdo, in presenza di un permesso di soggiorno e di attività radicate sul territorio nazionale, considerare le ferie un’interruzione della presenza.
Per questi lavoratori si pone invece il problema che per accedere ad un permesso per motivi di lavoro subordinato devono avere avuto in corso un lavoro irregolare nei mesi intercorrenti dal 9 maggio al momento della domanda di regolarizzazione. L’art. 1 del comma 5 si limita a richiedere genericamente che il datore di lavoro “occupi irregolarmente alle proprie dipendenze”, senza specificare alcun tipo di irregolarità, quindi non è necessario che si tratti di un rapporto formalmente inesistente, qualsiasi tipo di irregolarità del rapporto di lavoro può essere sanata e con la sanatoria il lavoratore può stipulare un contratto di soggiorno e acquisire un permesso per lavoro subordinato. Si possono quindi dare due diverse situazioni.
La prima si verifica quando lo straniero ha un contratto di lavoro part-time (come avviene necessariamente per chi ha un permesso per motivi di studio) allora la regolarizzazione lavorativa può essere richiesta denunciando che il rapporto di lavoro, dal 9 maggio al momento della presentazione della domanda, è stato in effetti a tempo pieno, in questo caso all’INPS è dovuta solo la differenza tra contributi previsti per il tempo pieno e quelli previsti per il part-time.
Oppure il datore di lavoro può auto-denunciare l’irregolarità di aver preteso dal lavoratore prestazioni rientranti in una qualifica superiore da quella contrattualmente prevista per le quali doveva essere corrisposta una retribuzione maggiore. Se invece il datore di lavoro non dichiara che sussiste alcuna difformità tra contratto di lavoro e prestazione effettuata, allora il lavoratore straniero può accedere alla sanatoria (in effetti conversione del suo permesso di soggiorno) solo se ha in contemporanea effettuato un altro lavoro completamente a nero e un altro datore di lavoro attiva la procedura di regolarizzazione.
Tra i regolari che possono accedere alla sanatoria una menzione particolare meritano i richiedenti asilo. Partiamo da un grave errore di valutazione cui può indurre la risposta alla FAQ 4 sul sito del ministero del lavoro. Qui si dice che “uno straniero regolarmente soggiornante al quale sia stato riconosciuto lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria” ha diritto alla regolarizzazione. La risposta è formalmente corretta, però è bene sottolineare che solo il datore di lavoro in questo caso ha interesse alla regolarizzazione per evitare le sanzioni penali derivanti dall’aver dato lavoro in nero allo straniero, lo straniero non ne riceve alcun vantaggio, il titolo di soggiorno già in suo possesso è in qualche modo più stabile e garantito del permesso per motivi di lavoro e comunque sempre convertibile in questo, con costi molto minori. Per chi invece non si è ancora visto riconoscere una qualche forma di protezione internazionale pur avendone fatto richiesta il discorso è diverso. Chi si trova in queste condizioni deve valutare con attenzione i costi della regolarizzazione e la probabilità di ricevere la protezione umanitaria: tanto più alta è quest’ultima tanto meno gli conviene intraprendere la costosa strada della regolarizzazione.
Il gruppo più folto di soggetti che hanno in corso una richiesta di protezione internazionale è rappresentato dagli stranieri provenienti dalla Libia, ma originari dei più disparati paesi africani (e non solo africani), che sono stati accolti con le procedure del’emergenza umanitaria. Per questi soggetti non vale la pena avviare la procedura di regolarizzazione: infatti alla conferenza Stato-Regioni del 26 settembre u.s. è stato sottoscritto un accordo che recepisce la richiesta di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari in loro favore e si attende solo il decreto che recepisca questa intesa stabilendo le procedure per il rilascio del permesso umanitario. Siccome questo permesso è convertibile, se ricorrono i presupposti, in un permesso per lavoro subordinato, non vale proprio la pena affrontare la spesa della sanatoria. Il consiglio è quantomeno di aspettare l’ultimo giorno disponibile per inviare la richiesta e vedere se il decreto per il rilascio del permesso umanitario è già stato emanato o è in via di emanazione.

4) Versamento di quali contributi?
Il comma 1 dell’art. 5 del decreto prevede che il datore di lavoro possa regolarizzare il lavoratore straniero “che alla data di entrata in vigore” del decreto legislativo, cioè il 9 agosto quando è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, “occupano irregolarmente alle proprie dipendenze da almeno tre mesi”, per cui dal 9 maggio, “e continuano ad occuparli alla data di presentazione della dichiarazione” di emersione, che avviene in un momento tra il 15 settembre e il 15 ottobre. Nessuna norma prevede che il rapporto di lavoro deve continuare dal momento in cui è presentata la domanda di emersione al momento in cui le parti sono chiamate allo Sportello Unico per stipulare quello che il decreto continua a chiamare contratto di soggiorno, sebbene nel frattempo sia stato ridefinito UNI-LAV. Anzi l’ultimo periodo del comma 5 dello stesso articolo recita: “E’ fatto salvo l’obbligo di regolarizzazione delle somme dovute per l’intero periodo in caso di rapporti di lavoro di durata superiore a sei mesi”. Questa previsione da per scontato che possano essere regolarizzati rapporti di solo sei mesi, cioè durati dal 9 agosto al 9 novembre 2012. E’ impossibile che il legislatore abbia supposto che le parti siano convocate allo sportello unico prima del 9 novembre.
Il governo da parte sua ha previsto che questa convocazione avvenga sicuramente in data successiva dato che il decreto predisposto dal Ministro dell’interno, di concerto con quelli del lavoro e delle politica sociale, dell’Economia e delle finanze e con quello per la cooperazione internazionale e l’integrazione, al comma 3 dell’art. 5 ha fissato per il 16 novembre la scadenza per il versamento delle somme dovute per la regolarizzazione a fini fiscali. Naturalmente questo versamento deve avvenire prima della presentazione allo Sportello Unico, che deve verificare la sua esecuzione.
Da tutto ciò si desume che i rapporti di lavoro da sanare possono essere interrotti in data 9 novembre 2012, o comunque successivamente alla dichiarazione di emersione, senza che questo influisca sulla stipula del contratto di soggiorno, anzi non è prevista alcuna verifica da parte dello Sportello Unico sulla prosecuzione del rapporto di lavoro in data successiva a quella della dichiarazione di emersione e sarebbe sicuramente illegittimo un diniego della regolarizzazione basato sulla interruzione del rapporto di lavoro in data successiva alla dichiarazione di emersione dato che questo è un requisito non previsto dalla norma. Naturalmente con la stipula del contratto di soggiorno il rapporto di lavoro riprende vita, o meglio si costituisce e deve trovare realizzazione. Che il contratto di soggiorno (e quindi di lavoro) abbia valore solo per il periodo successivo alla sua stipula, e non retroagisca al momento della dichiarazione di emersione, è del resto chiarito anche dalla riposta alla FAQ 14, dove si legge: “Con la stipula del contratto di soggiorno, il datore di lavoro assolve all’obbligo della comunicazione obbligatoria di assunzione al Centro per l’Impiego ovvero, in caso di rapporto di lavoro domestico, all’INPS. Come stabilito dal decreto interministeriale di attuazione del 29 agosto 2012, con la sottoscrizione del contratto di soggiorno decorre il rapporto di lavoro regolarizzato”.
Siccome la sanatoria del 2009 ci ha insegnato che possono decorrere vari mesi, se non anni (stanno venendo alla luce dichiarazioni di emersione alle quali a tutt’oggi non è stata data ancora risposta) tra la richiesta di regolarizzazione e la convocazione è importante che tutte le parti interessate sappiano che, se in tutto questo tempo il rapporto di lavoro viene interrotto, non vengono meno i loro diritti, rispettivamente, a vedere sanati i reati commessi assumendo irregolarmente uno straniero e ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Quindi se il datore di lavoro non ne ha necessità, non deve continuare a tenere alle proprie dipendenze fino al momento della convocazione presso lo Sportello Unico il lavoratore straniero e versargli i contributi.
Ricordo che per il lavoro domestico la sospensione del rapporto di lavoro si fa in maniera facile e immediata online attraverso il portale dell’INPS, andando sulla voce “Variazioni rapporto”.

5) Limite di reddito per chi regolarizza un lavoratore domestico
Con il decreto interministeriale del 29 agosto 2012 il governo ha dettato le regole (anche se un po’ enigmaticamente nel decreto legislativo di luglio si dice che si sarebbe trattato di un “decreto di natura non regolamentare”) per l’attuazione dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 109/2012, in materia di emersione dal lavoro irregolare. All’art. 3 del decreto interministeriale si fissano i requisiti reddituali che il datore di lavoro deve possedere per avviare la procedura di regolarizzazione. In particolare il secondo comma stabilisce che “per la dichiarazione di emersione di un lavoratore straniero addetto al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare, il reddito imponibile del datore di lavoro non può essere inferiore a 20.000 euro annui in caso di nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito, ovvero non inferiore a 27.000 euro annui in caso di nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi”.
Le due definizioni evidenziate di questa disposizione violano le più elementari regole della costruzione delle tassonomie classificatorie, che impongono di costruire categorie mutuamente inclusive. Regola elementare della costruzione di categorie a cui ascrivere soggetti con requisiti diversi è infatti che i soggetti che rientrano in una categoria non possano rientrare in un’altra. Invece è del tutto evidente che “un nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito” è tanto il nucleo composto da una sola persona che percepisce reddito, quanto quello composto da più persone di cui una sola percepisce reddito. Ci possono quindi essere nuclei familiari che allo stesso tempo sono composti “da un solo percettore di reddito” e sono “composti da più soggetti conviventi”: una coppia convivente con un o più bimbi, in cui uno solo dei genitori percepisce reddito rientra in entrambe le categorie, quale reddito deve avere per procedere alla regolarizzazione di un lavoratore domestico? Merita di essere sottolineato che il governo è in questo caso recidivo, perché un errore analogo fu fatto per la sanatoria del 2009, allora in via interpretativa si decise che la soglia di reddito più bassa non si applicava alla famiglia monoreddito, ma ai nuclei familiari composti da una sola persona. Si fece in altre parole prevalere l’ascrizione alla seconda categoria, quella della “famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi”, sulla prima, l’essere membro “di un nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito”. Sul piano sintattico è banale osservare che se si fosse messa un virgola dopo “soggetto” e prima di “percettore di reddito” già si sarebbe data un’indicazione per far capire che il legislatore voleva seguire la via interpretativa adottata ex post nel 2009. Per essere ascritti alla prima categoria si sarebbe dovuto essere infatti “un nucleo familiare composto da un solo soggetto, percettore di reddito”: sarebbe stato abbastanza chiaro che la prima categoria era composta da nuclei familiari composti da un solo soggetto e questo soggetto doveva essere percettore di reddito. Invece non solo non è stata messa la virgola, ma non è stato chiarito il punto neppure in alcuna delle numerose circolari emanate dai diversi ministeri ed enti. L’unica interpretazione della norma si trova nelle FAQ e complica ulteriormente la situazione. La risposta alla domanda 34 infatti al secondo capoverso recita: “In caso di emersione di un lavoratore straniero addetto al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare, il reddito imponibile del datore di lavoro non può essere inferiore a 20.000 euro annui. Nel caso in cui il datore di lavoro non raggiunga autonomamente tale soglia di reddito, questo potrà essere integrato dal reddito percepito da altro soggetto del nucleo familiare inteso come famiglia anagrafica composta da più soggetti conviventi. In tal caso la soglia di reddito si eleva a 27.000 euro”.
Questa interpretazione abolisce la distinzione delineata dal decreto basata sulla composizione del nucleo familiare, per adottare il criterio del reddito percepito da una persona o da più persone. Dal tenore della risposta si desume che se un membro di un nucleo familiare ha un reddito uguale o superiore a 20.000 euro, indipendentemente non solo dal fatto che sia o meno l’unico componente di un nucleo familiare, ma anche da fatto che sia o meno l’unico componente percettore di reddito, può procedere alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. La soglia dei 27.000 euro non è richiesta a chi fa parte di un famiglia “composta da più soggetti conviventi”, ma solo al datore di lavoro che non raggiunge il reddito di 20.000 euro e deve integrare il suo reddito con quello di un’altro membro del nucleo familiare, che può essere in questo caso anche un parente di secondo grado non convivente.
Questa risposta apre un problema annoso: perché il ministero pubblica sul sito delle FAQ e non fa un provvedimento (la cosa migliore sarebbe un decreto) interpretativo? Che valore hanno le risposte alle FAQ? Creano quantomeno delle legittimi aspettative? Sono queste aspettative tutelabili? La difficoltà di rispondere a questi interrogativi fa venire in mente un’imprecazione contro la propria impotenza che in inglese suona come l’acronimo.

6) Sull’esclusione dei soggetti regolarizzabili
Il comma 13 lettera b) dell’art. 5 del decreto legislativo 109 statuisce che non possono essere regolarizzati gli stranieri “che risultino segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore per l’Italia, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato”. Questo come chiariscono numerosi documenti interpretativi vuol dire che non si può regolarizzare lo straniero vittima di una segnalazione Schengen. In particolare la FAQ 11 recita: “E’possibile regolarizzare uno straniero nei confronti del quale vi è una segnalazione nel sistema informativo Schengen inserita da un paese membro dell’UE a causa della presenza irregolare dello straniero in quel Paese?” La risposta riportata è: “L’inammissibilità inserita da altro Stato Schengen rappresenta una causa tassativa di esclusione dalla procedura di emersione”. Questa risposta è molto problematica (per non dire incostituzionale) perché comporta una evidente discriminazione tra stranieri colpiti da un’espulsione amministrativa decisa dall’Italia e quelli colpiti da un’espulsione amministrativa decisa da un altro paese aderente al Sistema Schengen. Infatti lo stesso comma 13 alla lettera a) dice che non possono essere regolarizzati solo i lavoratori stranieri “nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione ai sensi dell’articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e dell’articolo 3 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni ed integrazioni”. Quindi non posso essere sanati esclusivamente gli stranieri che sono stati espulsi perché appartenenti ad una delle categorie dei soggetti oggetto di misure di prevenzione o a norma delle disposizione per il contrasto del terrorismo internazionale. Mentre come ricorda la risposta alla FAQ 7 “è possibile regolarizzare anche stranieri colpiti da un provvedimento di espulsione per violazione delle norme sull’ingresso ed il soggiorno”. Quindi l’interpretazione costituzionalmente legittima, cioè tale da non discriminare tra provvedimenti emessi per gli stessi motivi da autorità italiane e autorità straniere, della norma sull’ostatività delle segnalazione internazionali è quella che impone una verifica delle ragioni per cui è stata fatta la segnalazione al sistema Schengen, con attribuzione dell’efficacia ostativa esclusivamente a quelle segnalazione fatte per le stesse ragioni per cui sono ostative anche le espulsioni pronunciate dalle autorità italiane.

7) Una “chicca” sui CIE
Il comma 6 lettera b) dell’art. 5 del decreto legislativo 109 statuisce che “dalla data di entrata in vigore del presente decreto fino alla conclusione del procedimento di cui al comma 1 del presente articolo, sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore per le violazioni delle norme relative: a) all’ingresso e al soggiorno nel territorio nazionale, con esclusione di quelle di cui all’articolo 12 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni”. Questa previsione deve avere un contenuto diverso da quella contenuta nel successivo comma 11 secondo cui “nelle more della definizione del procedimento di cui al presente articolo, lo straniero non può essere espulso, tranne che nei casi previsti al successivo comma 13″ (cioè nei casi in cui sussistano condizione che impediscono al migrante di essere regolarizzato”). La differenza di contenuto, oltre che dal principio generale ermeneutico per cui ad un enunciato normativo deve essere attribuito un significato che non lo rende pleonastico, deriva dal differente arco temporale della sospensione dei procedimenti di espulsione: il comma 6 li sospende dall’entrata in vigore del decreto, mentre il comma 13 solo nelle more della definizione del procedimento di regolarizzazione, per cui solo dal momento di presentazione della domanda di regolarizzazione, cioè da un mese e una settimana dopo. Al differente arco temporale dell’espulsione corrisponde anche una diversa qualificazione soggettiva degli individui al carico dei quali esiste il procedimento di espulsione. Decorrendo la sospensione prevista dal comma 6 da oltre un mese prima della possibilità di presentare domanda di regolarizzazione i provvedimenti di espulsione che impone di sospendere non possono essere quelli a carico degli stranieri per i quali viene chiesta la regolarizzazione. Infatti la norma parla genericamente di “lavoratore”. Direi quindi che la norma dell’art. 6 imponeva, ed impone, la sospensione di tutti i procedimenti di espulsione, e quindi di tutti i trattenimenti nei CIE, dal 9 agosto al 15 ottobre, scadenza del periodo in cui è possibile presentare domanda di regolarizzazione, di tutti i soggetti che in quanto “lavoratori”, naturalmente irregolari, altrimenti non sarebbero oggetto di un procedimento di espulsione, sono potenzialmente oggetto di sanatoria. Invito quindi tutti i giudici di pace a disporre, e gli avvocati a richiedere, l’immediata liberazione di tutti gli stranieri che sono internati in CIE e per i quali si può dimostrare, in varie forme compresa quella testimoniale, che sono lavoratori irregolari, quindi potenziali oggetto di sanatoria. Invito anche tutti gli avvocati di stranieri che hanno tali requisiti e che sono rimasti trattenuti nei CIE successivamente al 9 agosto a denunciare i prefetti e i questori che hanno disposto il trattenimento per sequestro di persona aggravato dal fatto di essere stato commesso da pubblico ufficiale.

Note
(1). Cfr. “La regolamentazione dell’immigrazione come questione sociale: dalla cittadinanza inclusiva al neoschiavismo” in E. Santoro (a cura di), Diritto come questione sociale, Torino, Giappichelli, 2010 e “La nuova via della schiavitù”, Iride, n. 59, agosto 2010.