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Riflessioni a partire dal Vertice di Lisbona

I dittatori non sono tutti uguali: alcuni servono all’Europa. E viceversa.

Si è concluso il 9 dicembre il vertice tenutosi a Lisbona tra i 27 Stati dell’Ue e i 52 dell’Unione africana più il Marocco che non ne fa parte.
Si è trattato del II vertice Ue/Africa (dopo quello del 2000) e i temi trattati in agenda erano quelli dei cambiamenti climatici, delle materie prime e delle risorse energetiche, della riforma delle istituzioni internazionali e, ovviamente, della sicurezza e dell’emigrazione, ormai indissolubilmente connesse in tutte le sedi di dibattito ufficiali e in tutti i documenti elaborati in queste occasioni.

Le dichiarazioni d’intenti che hanno animato il vertice sono state tutte ambiziosamente rivolte alla creazione di un “partenariato strategico tra eguali”, capace di agire nell’ottica del definitivo superamento della triste pagina postcoloniale che ha segnato fino ad oggi le relazioni tra i due continenti.
Non più, quindi, un rapporto sbilanciato tra chi ‘concede’ (e detta le regole) e chi è ‘assistito’ (e in qualche modo soggetto ad esse), ma un dialogo tra realtà che si misurano sul medesimo livello.
Anche le dichiarazioni che hanno seguito le conclusioni del vertice, specie quelle provenienti dai rappresentanti dei paesi europei, sono intrise di toni positivi ed entusiastici che sottolineano le innovazioni che hanno segnato questo appuntamento.

Nella realtà, però, ben altre cose potrebbero essere dette.
Se nella forma, infatti, l’Ue ha riconosciuto l’importante ruolo dell’Unione africana in quanto interlocutore paritario con cui negoziare accordi che possano portare vantaggio a entrambe le parti, va ancora una volta sottolineato come, nel momento in cui si tratta di tirare le somme rispetto soprattutto agli interessi economi, l’Unione continui a privilegiare canali di relazione ‘bilaterali’ all’interno dei quali può ancora esercitare una funzione di smisurato predominio rispetto al singolo paese africano con il quale via via si rapporta.
Le stesse modalità scelte dall’Europa nel contesto del Partenariato euromediterraneo stanno infatti caratterizzando anche le negoziazioni con i paesi africani presenti al vertice di Lisbona rispetto agli Accordi di partenariato Economico (Economic Partnership Agreements, EPA)che prevederebbero l’assoluta liberalizzazione degli scambi commerciali tra i due continenti.
Un mercato africano completamente aperto ai principi della concorrenza e della reciprocità dei prodotti europei rischierebbe senza alcun dubbio di provocare dissesti e distruzione nella maggior parte delle fragili economie dei paesi del continente, apportando vantaggi quasi esclusivamente agli Stati della sponda nord del Mediterraneo.
Il presupposto sul quale si basano le proposte europee è lo stesso, ugualmente ipocrita, sul quale sono stati costruiti i progetti relativi alla Zona di Libero Scambio prevista dal Partenariato euro mediterraneo, ma anche, per spostarci al di là dell’Atlantico, della regione del Nafta tra nord e sud America: aprire i mercati alle liberalizzazioni, lasciare che il capitalismo faccia il suo corso, significherebbe, secondo le tesi dei più forti, alla lunga colmare i divari esistenti tra i paesi coinvolti.
Le esperienze appena citate dimostrano invece, e ampiamente, come simili operazioni economiche servano soprattutto a rafforzare le posizioni dei paesi già dominanti e ad indebolire ulteriormente quelle dei paesi già deboli.

Stavolta però, effettivamente, le perplessità sollevate dall’intera Unione Africana sulla materia ha reso più accidentato il percorso dell’Europa verso gli obiettivi prefissati.
Di fronte alle rimostranze dei leader africani – spinti anche dalla società civile, dai movimenti, e dagli economisti dei loro paesi – l’Unione europea ha rispolverato così il meccanismo delle sanzioni minacciate (penalizzazione di chi non firma attraverso l’aumento delle tasse doganali all’entrata sul mercato dell’Ue) e soprattutto delle pressioni esercitate sui singoli paesi africani che diventano evidentemente un interlocutore più facilmente e direttamente influenzabile rispetto all’intera Unione africana.

L’Africa è infatti oggi più che mai una zona di straordinaria rilevanza economica e geopolitica sulla quale inizia ad allungarsi con sempre maggiore intensità l’ombra lunga della Cina (presente anch’essa al vertice di Lisbona), ma anche dell’India e del Brasile, e l’Europa non può permettersi di perdere la sua posizione di partner privilegiato.
Simili ragionamenti economici, a quanto pare, possono portare a fare miracoli di diplomazia politica, modificare equilibri incancreniti da decenni, far dimenticare principi altrove strumentalizzati e definiti pertanto come irrinunciabili.
Un emblema di quanto appena detto è la completa riabilitazione che la figura del Colonnello Gheddafi ha avuto negli ultimi anni.
Potremmo affermare che il vertice di Lisbona ha sancito formalmente a livello europeo la figura del dittatore come il primo degli interlocutori africani. E a lui tutto sembra essere permesso.
Chissà come avrebbero reagito i rappresentanti dei governi europei se qualcun altro avesse osato dire che “è normale che i deboli facciano ricorso al terrorismo”.
Chissà come sarebbe andata, ad esempio, se a pronunciare la stessa frase fosse stato Mugabe, l’odiate presidente dello Zimbabwe, la cui presenza all’interno del vertice (dopo avere bloccato l’incontro Ue/Ua previsto per il 2003) ha portato la Gran Bretagna a disertarlo e ha suscitato gli attacchi di tutti i leader europei.
Le accuse mosse a Mugabe sarebbero infatti quelle di violare costantemente i diritti umani dei cittadini dello Zimbabwe e di “nuocere all’immagine della nuova Africa”.

Gheddafi, invece, a quanto pare, sarebbe diventato un paladino della civiltà e un ottimo partner economico e politico.
Lo sarebbe fino al punto, infatti, di affidargli la vita o la morte di migliaia di esseri umani lasciandogli un margine sempre più ampio nel gestire le migrazioni verso l’Europa, de localizzando sul suo territorio e sotto la sua autorità la detenzione amministrativa dei migranti in centri pagati anche dal governo italiano, lasciandogli decidere quando e come deportare la gente al confine col deserto e lì lasciarla morire.

Carta straccia, quindi, i rapporti di Human Rights Watch, di Amnesty International e di Fortess Europe, ininfluente il fatto che la Libia non abbia mai neppure firmato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Queste sono dunque le premesse sulle quali sembra essersi avviato un dialogo euro africano verso un “Patto per l’immigrazione nell’Ue”.
Tale patto prevederebbe, da parte europea, l’apertura di più canali di ingresso legale, una maggior attenzione per i migranti presenti in Europa, e nuovi investimenti nella formazione professionale dei candidati all’emigrazione quando ancora si trovano in patria. Agli Stati africani si chiede in cambio di “implementare le loro misure di contenimento e di lotta all’immigrazione illegale”.
Alla luce del ruolo predominante assegnato alla Libia le conseguenze di una simile richiesta dovrebbero spaventare tutti gli accaniti difensori dei diritti umani che tanto si sono sbracciati nella (comunque legittima ma spesso strumentalizzata) contestazione di Mugabe.
Del resto, il relatore europeo sull’immigrazione era lo stesso Zapatero che non si è fatto problemi a legittimare, solo due anni fa, gli omicidi di Ceuta e Melilla.

Se sugli accordi economici gli africani stanno quanto meno tentando di opporsi o di rinegoziare trattative a loro più convenienti, sul tema dell’immigrazione sembrano invece avere abbassato il capo dichiarandosi sostanzialmente d’accordo con la linea europea.
Su qualcosa bisognava cedere. E le migrazioni, sempre di più, sembrano la moneta di scambio più duttile e negoziabile nella costruzione e ricostruzione degli equilibri geopolitici delle diverse aree del pianeta e specificamente di quella euro mediterranea.
Un pretesto, spesso, per introdurre accordi economici, definire posizioni di forza e di sottomissione, trattare su questioni che in realtà c’entrano poco o nulla con l’argomento.
Gheddafi, questo, sembra averlo capito benissimo. Dopo aver richiesto all’Europa la costituzione di un fondo speciale per la gestione del fenomeno migratorio dall’Africa sostenendo (e come dargli del tutto torto?) i legami forti di quest’ultimo con i disastri apportati dal colonialismo (voi avete creato il problema e voi pagate per risolverlo), il leader libico ha infatti affermato, candidamente, che “i colonizzatori devono pagare ai paesi africani le ricchezze che sono state portate via” o altrimenti dovranno comunque “pagare qualche prezzo, sia esso il terrorismo, le migrazioni, la vendetta”.

Le migrazioni come il terrorismo. Le migrazioni come una vendetta.
Senza fronzoli e ipocrisie, Gheddafi lo ha detto. Le migrazioni come prezzo da negoziare. Come spauracchio da agitare, come strumento per intimorire o per contrattare.
Il prezzo sono le persone. Lo strumento è la loro vita, il loro futuro, le loro soggettività, i loro sogni.

Per premio, il dittatore nordafricano ha ricevuto un invito ufficiale all’Eliseo con tanto di tenda beduina preparata per l’occasione e la possibile mansione di ospite per il prossimo incontro Ue/Ua da tenersi con tutta probabilità a Tripoli nel 2010.
Tra le proteste di parte importante della società francese, Sarkozy ha ceduto come gli altri alla “diplomazia del business”. Troppo importanti le prospettive economiche della collaborazione con la Libia.

L’unica speranza, oltre al potere sempre intrinseco nella resistenza e nella stessa esistenza delle persone e delle moltitudini che nessun capo di governo a nessun vertice può mai rappresentare, rimangono allora le contraddizioni implicite in questo sistema.
L’imprevedibilità di un Gheddafi, l’inarrestabilità dei movimenti migratori e l’impossibilità di ridurli a mero calcolo, ma anche i nuovi attori del capitalismo globale e la sua indifferenza alle ideologie e alle retoriche.

Intanto, Save The children ha lanciato il suo appello ai potenti dei due continenti riuniti a Lisbona, ricordando loro che “oltre 13.000 bambini africani sotto i cinque anni moriranno, per lo più per malattie facilmente curabili”.