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tratto da Migra news

Rifugiati, clandestini e diritto d’asilo: una riflessione sui recenti sbarchi in Sicilia

di Christopher Hein, direttore Cir

Il livello di attenzione pubblica e politica data agli sbarchi in Sicilia durante quest’estate non si spiega solo in relazione all’entità del fenomeno. Anzi, un primo messaggio da dare è che i dati non sono minimamente straordinari, sproporzionati, allarmanti e molto meno indicano – sempre in termini quantitativi – alcuna emergenza. Secondo il Ministero dell’Interno, dal 1 gennaio al 12 settembre sono sbarcate 9.464 persone, circa 120 in meno rispetto allo stesso periodo del 2003. Già nel 2003 la stragrande maggioranza degli sbarchi si è verificata in Sicilia e si è registrata, rispetto agli anni precedenti, una fortissima diminuzione di sbarchi in Calabria (177 persone nel 2003 contro le 2122 nel 2002) e in Puglia (137 persone nel 2003 contro le 3372 del 2002).

Si deve tuttavia riconoscere come, in modo più accentuato rispetto agli anni precedenti, gli sbarchi si siano concentrati nel periodo estivo: nei primi 5 mesi di quest’anno sono sbarcate soltanto 1752 persone; mentre 7712 persone sono arrivate irregolarmente via mare nei mesi di giugno, luglio, agosto e i primi giorni di settembre.
Per una corretta lettura e valutazione del dato, il numero di meno di 10.000 persone sbarcate quest’anno in Italia è pur sempre da osservare nel contesto europeo. Nonostante la forte diminuzione (-18% in confronto al 2003), 147.000 nuove richieste d’asilo sono state presentate nel primo semestre del 2004 in Europa. Al primo posto si trova la Francia con quasi 30.000 richieste nei primi sei mesi dell’anno, ovvero un numero 3 volte superiore alla totalità degli sbarchi in Italia. Queste cifre sono comparabili, considerando che la stragrande maggioranza delle richieste d’asilo in Italia viene presentata da persone arrivate attraverso gli sbarchi in Sicilia.

In altri termini, nonostante la vistosità degli ultimi sbarchi, l’Italia si trova sempre agli ultimi posti nelle statistiche sull’asilo dell’Europa occidentale.

E’ comunque interessante notare che le nazionalità delle persone che arrivano attraverso il Mediterraneo sono molto diverse da quelle di coloro che chiedono asilo in altri stati europei. Nell’attuale fase di post-conflitto in Afganistan ed in Iraq, con una conseguente forte diminuzione di richieste d’asilo da parte di cittadini di questi due paesi, ai primi posti delle statistiche europee troviamo: Russia; Serbia e Montenegro; Cina; Turchia; India – tutte nazionalità che praticamente non sono presenti nelle statistiche d’asilo in Italia e molto meno tra le persone sbarcate in Sicilia, con l’unica eccezione della Turchia, con i curdi, comunque molto diminuiti in Italia negli ultimi due anni. Di contro, tra le nazionalità più rappresentate negli sbarchi in Sicilia troviamo eritrei, etiopi, sudanesi, somali, nigeriani, liberiani, ganesi, che invece occupano un posto marginale nelle statistiche europee. Etiopia ed Eritrea non figurano nemmeno tra i primi 40 paesi d’origine; la Somalia figura al 16° posto, il Sudan al 28° e la Liberia al 37° (Fonte: UNHCR , Asylum Trends Jan./June 2004).

Al di là delle statistiche, questi dati sulle nazionalità degli stranieri che sbarcano rivelano certamente qualcosa sulla causa dell’esodo: si tratta sempre di paesi che vivono o hanno vissuto, fino a poco tempo fa, gravi conflitti interni, guerre, repressione e/o stato di totale insicurezza. Confrontando le informazioni sui paesi di origine con questi dati, questa composizione della popolazione sbarcata induce ragionevolmente a ritenere tali persone come rifugiati “prima facie”. E’ questo il secondo messaggio che, ci sembra, bisogna dare: per la maggior parte bisogna constatare che non sono né immigrati, né genericamente disperati, bensì rifugiati, senza per questo anticipare la vera e propria valutazione delle storie individuali in seno alla procedura d’asilo.
Sembra che la battaglia contro l’uso e l’abuso della parola “clandestini” sia persa. Ormai non c’è più giornale o telegiornale che non usi regolarmente questa parola quando si parla di sbarchi. Da una parte, ci sembra che sia compito del CIR insistere sulla nozione di rifugiato, al quale non viene offerta nessuna alternativa se non quella di arrivare “clandestinamente”. Dall’altra, si può realmente parlare di “clandestinità”, quando in una sola nave centinaia di persone viaggiano nel mare più vigilato, controllato, monitorato del mondo?

Di conseguenza, analizzata l’entità del fenomeno, appare chiaro che non possono essere i numeri a suscitare l’attenzione pubblica, bensì il modo e le circostanze dell’arrivo. Non è dunque tanto rilevante il fatto che 10.000 persone o, forse, 13/14 mila alla fine dell’anno siano arrivate come richiedenti asilo, quanto la constatazione di come queste persone arrivano, vale a dire in imbarcazioni di fortuna, rischiando la vita, e comunque attraverso canali illegali. Conseguentemente, a nostro avviso, la politica non può assumere come sua priorità la riduzione del numero di rifugiati, ma piuttosto l’assicurazione che questi arrivi si svolgano in modo diverso, in modo regolare, legale, protetto, normale.
Questa impostazione ci sembra di somma importanza, anche in vista della prospettata cooperazione con la Libia. Dobbiamo dire molto chiaramente che non si può trattare di accordi mirati a ridurre il numero di persone che chiedono protezione in Italia ed in Europa, ma di politiche coordinate e condivise per assicurare un dignitoso livello di accoglienza in un paese di transito come la Libia e da lì aprire canali per un modo diverso – appunto – di arrivare in Italia ed in Europa.
All’ordine del giorno va quindi la ricerca di soluzioni reali e non il tentativo di “spostare” la responsabilità da un paese all’altro. In altri termini a che dovranno servire maggiori controlli, magari congiunti, e con la sofisticata apparecchiatura italiana presso le coste libiche (o tunisine, o algerine, o egiziane…)? Cosa succederà alle persone rintracciate prima dell’imbarco in Libia o subito dopo in acque libiche? Dove saranno inviate? Tutti sanno ormai che un rinvio nei paesi confinanti, come il Ciad, può non rappresentare alcuna soluzione e non può provocare altro effetto se non quello di rendere il tragitto ancora più costoso, alimentando ancora di più il business dei trafficanti ed esponendo le persone a nuovi rischi, se pensiamo che quasi nessuno rinuncerà ad arrivare prima o poi in Europa. Qualunque politica che non ponga la “persona” al centro del proprio programma è dall’inizio condannata al fallimento anche dal punto di vista della logica della sicurezza e del contrasto alla criminalità.

Quando si parla di soluzioni, spesso si dice: “Bisogna combattere le cause che spingono le persone all’espatrio”. Giustissimo. Abbiamo visto tuttavia in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi che tutte le pressioni esercitate sul governo del Sudan, per fare un esempio, non hanno avuto il minimo effetto per ridurre il massacro della gente del Darfur. Abbiamo visto che in un paese di scarsa rilevanza strategica ed economica, come l’Eritrea, il governo può impunemente violare i più elementari diritti dei cittadini. Abbiamo visto che dopo 13 anni dalla guerra civile in Somalia niente è cambiato e ancor oggi le persone sono costrette a fuggire. Quindi, quando parliamo di soluzioni, dobbiamo parlare innanzitutto di misure che permettano ai rifugiati e agli immigrati di trovare un posto sicuro dove possano riprendere una vita normale.
Una di queste soluzioni è il reinsediamento (re-settlement), realizzato su scala significativa: ci sono programmi di re-settlement gestiti dall’ACNUR, per esempio, di sudanesi ex Etiopia: con 128 persone nei primi 3 mesi del 2004, o di sudanesi ex Egitto, 942 persone. I pochi paesi europei che partecipano a programmi di re-settlement mettono, tutti insieme, a disposizione poco più di 1.000 posti l’anno.
Non è certo questa l’entità che può avere un impatto effettivo sui disperati movimenti irregolari di persone da un paese all’altro. Per l’Unione Europea dovremmo ragionare intorno a un numero di circa 100.000 posti l’anno per re-settlement, distribuiti nei 25 stati membri.
Quale ulteriore soluzione vediamo poi la possibilità di chiedere protezione agli stati europei attraverso le ambasciate e i consolati o gli uffici della Commissione Europea da istituire in paesi terzi, tipo la Libia. Pensiamo anche, parallelamente, a programmi europei significativi di immigrazione per motivi di lavoro o di studio, nonché a meccanismi molto più generosi e realistici di ricongiungimento familiare.
Allo stesso tempo, una politica strategica dovrà anche assicurare che i paesi di primo asilo e di transito siano messi in grado di onorare gli obblighi internazionali assunti in materia di rispetto dei diritti umani, in generale, e del diritto di asilo, in particolare. La totale mancanza di strutture ricettive e di sufficienti garanzie per il rispetto dei diritti elementari della persona in un paese come la Libia deve essere materia di interventi bilaterali e multilaterali in Europa.

Noi pensiamo che gli Enti di tutela, quale è il CIR, le Associazioni e i Sindacati non possano limitarsi a criticare le scelte e le proposte governative senza partecipare, allo stesso tempo, alla ricerca di soluzioni e offrendo la propria collaborazione. Non è più possibile considerare la materia dei rifugiati solo dal momento in cui il richiedente asilo arriva fisicamente nel territorio.
La giusta preoccupazione che ci induce a temere l’utilizzo della cooperazione con stati terzi quale escamoutage dei governi per ridurre ulteriormente la presa in carico delle persone che arrivano spontaneamente non ci dovrà condurre ad un immobilismo di fronte ad una questione divenuta centrale nel diritto d’asilo oggi: l’accesso alla protezione internazionale in circostanze sicure e protette.