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Rimpatrio Volontario Assistito. La storia di E.

Giulia Scocciolini, ex operatrice nell'accoglienza

Un tessuto africano

Scrivo mossa dalla frustrazione e dal risentimento verso me stessa, per quello che ho rappresentato e svolto per un periodo della mia vita: l’operatrice in un certo di accoglienza per donne e bambini richiedenti asilo.

Vorrei raccontare con queste semplici righe la storia di E., anche se la storia di E. di semplice non ha nulla.

E. è una giovane donna nigeriana, proveniente da un paesino dell’Edo State che neanche appare sui motori di ricerca. Conosco E. quando trovo lavoro in un CAS (Centro di accoglienza straordinario) nell’estrema provincia di una città settentrionale. È arrivata in Italia nel 2016 e quando la incontro è appena stata spostata insieme alla sua bambina neonata nella struttura dove mi hanno assunta.

E. ha scoperto di essere sieropositiva dopo il suo arrivo in Italia, mentre era incinta, per fortuna la bambina nata con parto cesareo è in salute ma E. deve nutrirla solo con latte artificiale, mentre lei deve assumere una terapia di farmaci antivirali. E. è estremamente precisa nel prendere i farmaci e il virus sembra restare “silente”, come dice il medico del reparto di malattie infettive che la segue.

Leggendo i verbali delle commissioni della prefettura per la valutazione del suo caso di richiesta di asilo emerge una storia complessa, fatta di violenza familiare per la contesa dell’eredità lasciata da suo padre da parte dei vari parenti. Siccome E. era la figlia maggiore la casa del padre sarebbe diventata di sua proprietà e i suoi zii, interessati all’abitazione, l’hanno più volte minacciata di morte. Una delle zie è arrivata a fare incursione in casa sua e a picchiarla violentemente, E. di tale aggressione riporta una brutta cicatrice sul naso, in parte mutilato. Per sfuggire a queste minacce E., spinta dalla madre, decide di lasciare il marito e i tre figli per scappare in Italia.

E. è una donna tranquilla, che va abbastanza d’accordo con noi operatrici e con le altre ospiti della comunità, anche se solitamente gli attriti in queste strutture sono all’ordine del giorno. E’ anche una madre affettuosa con la figlia e si impegna a realizzare un programma di risparmio per mettere da parte i suoi pocket money per il futuro della bambina.

Con l’apprendimento della lingua italiana non va un granché, forse perché E. ha passato solo pochi anni della sua vita sui banchi di scuola, forse perché noi operatori più o meno ce la caviamo con l’inglese e facciamo prima a comunicare così, o forse perché nei CAS le ore di insegnamento di italiano sono poche (si chiamano centri di accoglienza straordinaria perché gli immigrati al loro interno dovrebbero restare poco tempo prima di passare in strutture dove le attività di inclusione sociale come l’insegnamento dell’italiano sono svolte in maggior misura; di fatto non è così e nei CAS le persone ci restano per anni) e in seguito ai tagli dell’ultimo Decreto Sicurezza non vengono neanche più fatte.

E. si fa anche aiutare a scrivere un curriculum, su cui per la verità non c’è scritto molto, in Nigeria ha lavorato solo come venditrice ambulante di acqua e verdura, lei comunque fa in modo di distribuirne un po’ in giro. Nessuno la richiama.

Probabilmente una donna straniera che non sa la lingua, vive in una comunità nella sperduta campagna, ha un permesso di soggiorno temporaneo, ha una malattia che non le permette di poter accettare qualsiasi tipo di lavoro, con una bambina piccola a carico, non è la persona più competitiva nel nostro mercato del lavoro.

Nel marzo 2018 E. e la bambina ricevono il permesso di soggiorno umanitario, solitamente le beneficiarie della struttura in seguito all’ottenimento del documento devono lasciare la struttura entro pochi giorni ma vista la loro situazione di vulnerabilità riusciamo a fargli prolungare la permanenza di altri sei mesi.

Poi accade l’inconcepibile, nel giro di poco tempo E. riceve la notizia prima della morte di uno dei figli in Nigeria per malattia e poi della morte di uno dei fratelli coinvolto in una sparatoria. Lei è distrutta, inizia a passare molto tempo a letto e a non occuparsi più della figlia a cui ogni tanto badano le altre donne della comunità.

Cerco di richiedere una visita di emergenza al CSM (Centro di Salute Mentale) del paesino vicino da cui lei già aveva ricevuto servizio a causa di disturbi del sonno e umore depresso, ma come risposta ottengo che le visite possono essere svolte solo su appuntamento e che prima di un paio di settimane non hanno posto.

Nel frattempo i mesi passano e la proroga di permanenza concessa dalla Prefettura si accorcia sempre di più. In sei mesi la situazione di indigenza di E. non è cambiata e lei continua a non avere un lavoro e un posto dove andare al di fuori della comunità.

Con la mia equipe facciamo un incontro di formazione sui rimpatri volontari assistiti (RVA) e gli operatori dell’organizzazione che se ne occupa vengono a parlarne in comunità alle beneficiarie. L’organizzazione che effettua i RVA offre al migrante che vi aderisce una somma di denaro con cui il rimpatriato dovrebbe finanziare qualche forma di attività economica per sostentarsi una volta tornato.

La mia equipe è alquanto scettica riguardo alla volontà da parte dei migranti di farsi rimpatriare negli stessi paesi da cui sono fuggiti rischiando la loro stessa vita. Eppure E., inaspettatamente, ci riferisce di essere interessata. La data di scadenza della proroga nella comunità di accoglienza si sta avvicinando sempre di più e lei ha il terrore di ritrovarsi per strada con una bambina piccola, dice che con i mezzi che ha non può trovare lavoro in Italia, preferisce tornare in Nigeria dal marito e i figli. L’organizzazione che si occupa del RVA riferisce che le verranno garantite le cure mediche di cui avrà bisogno, compresi i farmaci antivirali.

Questa sua scelta non è priva di dubbi e ripensamenti, le procedure per effettuare il rimpatrio sono molto lunghe e la prefettura concede a E. di restare all’interno dell’accoglienza fino al loro completamento. Ma più passano i mesi e più E. non sa più se vuole davvero tornare in Nigeria. Nel frattempo, in seguito ai tagli del Decreto Sicurezza bis la comunità per cui lavoro chiude i battenti e le beneficiarie vengono sparpagliate tra le strutture di altre cooperative.

Pochi giorni prima del rimpatrio di E. e della sua bambina le vado a salutare nella comunità dove le hanno portate.

Trovo una donna che non sembra affatto entusiasta di partire, la casa è trasandata e la bambina prova a colpirmi più volte mentre parlo con la madre, fa i capricci e arriva ad accovacciarsi ai miei piedi per fare pipì. Penso che il comportamento di quella piccola creatura rifletta tutta la disperazione della madre. E. mi chiede più volte quando l’organizzazione del RVA le darà i soldi che le avevano promesso, sembra essere la sua preoccupazione principale, ma io non lo so. E. e la bambina vengono rimpatriate nel mese di giugno del 2019.

Di fronte alla disgrazia umana di E., come quella di altri migranti che ho incontrato, la prima cosa che mi succede è di restare allibita e senza parole, sono racconti distanti anni luce dal nostro quotidiano e per quanto io mi sforzi di comprenderli c’è sempre una parte di me che resta sorda, forse per difesa personale o forse per banale incapacità.

Mi viene in mente la storia di Jan Karski, un partigiano polacco che nel 1942 intraprese un viaggio lungo ed estremamente pericoloso dalla Polonia occupata dai nazisti fino agli Stati Uniti per incontrare il giudice della corte suprema Felix Frankfurter, anche egli ebreo, per testimoniare tutte le atrocità commesse dai nazisti. Dopo il lungo resoconto in cui Karski rispose a numerose domande dettagliate, la risposta del giudice fu che non poteva credere a quello che il partigiano gli stava dicendo, non perché pensava gli stesse mentendo ma perché “la sua mente e il suo cuore erano fatti in modo da non permettergli di accettarlo”.

Conoscendo le atrocità commesse dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale una risposta del genere a noi risulta del tutto inaccettabile. Eppure per quanto aberrante io credo di sapere cosa provò il giudice Frankfurter, perché forse è la stessa cosa che in parte provo io di fronte ai racconti dei rifugiati.

Storie di infibulazioni, riti juju e tratta di esseri umani, violenze indicibili, rapimenti che avvengono in paesi lontani di cui spesso non sappiamo quasi niente. Forse anche i nostri cuori e le nostre menti di persone che vivono qui non sono fatti in modo da permetterci di accettarlo. Oppure solo una buona scusa per permetterci di ignorare chi ci sta sbattendo in faccia il disastro della miseria.

Appena dopo Pasqua una delle ex beneficiarie con cui avevo lavorato mi informa che E. è morta nel suo paese il primo marzo 2020 a causa di un malore.

Inizialmente non riesco a crederci, ma la verità è che c’è una parte nascosta dentro di me che sentiva non sarebbe potuta finire bene. Attraverso un giro di chiamate e messaggi riesco ad avere il numero della sorella di E., è lei che ha dato la notizia della scomparsa. Ci sentiamo tramite una chiamata su whatsapp, mi conferma la notizia della morte, racconta che E. si è sentita male, l’hanno portata subito in ospedale ma che non c’è stato niente da fare, un problema al cuore dice. I suoi bambini stanno bene, vivono dalla nonna. Le chiedo se E. prendeva delle medicine, inizialmente mi risponde di no, poi di sì. Credo che resterò con questo dubbio per sempre. Le chiedo se sapesse a cosa servivano quelle medicine ma non mi da una risposta precisa, non so se sapesse della malattia della sorella.

Mi racconta che E. si era aperta un negozietto di vestiti con i soldi risparmiati e quelli ricevuti dal progetto, però dopo la morte di lei lo hanno dovuto chiudere per pagare l’ospedale.

Mi faccio dare il numero dell’operatore in loco del progetto dei RVA, in teoria chi aderisce al rimpatrio deve essere seguito, almeno per i primi mesi, in modo da ricevere l’adeguato supporto al rientro. Non so neanche io cosa dovrei chiedergli e perché lui dovrebbe rispondere a una perfetta sconosciuta riguardo a informazioni strettamente private. Ad ogni modo con il mio numero italiano non riesco a contattarlo. Una ex collega prova a contattare la sede in Italia dell’organizzazione dei RVA con cui era partita E. per chiedere spiegazioni ma non ottiene risposta.

Le cose che mi piace ricordare di E. sono la sua risata dal suono caldo che lasciava intuire un retroscena amaro, e la sua capacità di trasportare sopra la testa pesi giganteschi facendoli sembrare leggeri come l’aria. Penso ai suoi figli che cresceranno senza una madre e che forse, crescendo, non ricorderanno neanche il suo viso perché troppo piccoli.

Mi chiedo che responsabilità ho avuto all’interno del quadro della sua storia, c’era una donna in profonda crisi vicino a me e io passavo il mio turno principalmente a compilare scartoffie perché sono quelle che contano per la Questura.

Mi chiedo se abbiamo fatto tutto il possibile per aiutarla, mi chiedo se all’interno di una comunità di accoglienza in questo momento storico sia possibile farlo.

L’unica risposta che riesco a pensare per entrambe le domande purtroppo è no.

Mi sembra di comprendere ora più che mai quello che Nancy Scheper-Hughes chiama “continuum genocida” perché temo di esserci finita dentro: “Ho suggerito che esiste un continuum genocida fatto di un’infinità di piccole guerre e genocidi invisibili condotti negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie dell’ospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri o di cose, meccanismo che dà una struttura, un significato e una logica alle quotidiane pratiche della violenza. E’ fondamentale che riconosciamo nella nostra specie (e in noi stessi) una capacità genocida e che esercitiamo un’ipervigilanza difensiva, un’ipersensibilità nei confronti di atti forse meno evidenti, ma autorizzati e quotidiani di violenza che, in altre condizioni, rendono possibile la partecipazione a genocidi e questo forse più facilmente di quanto ci piacerebbe credere. Includerei tra questi atti tutte le forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso gli altri”.

Nonostante le buone intenzioni ci sono aspetti tossici che si insinuano subdolamente dentro le nostre pratiche in modo che, più o meno consapevolmente, continuiamo a perpetuare l’ingiustizia verso chi, con la propria presenza, ci sta mostrando il significato della parola “sofferenza”, spesso indissolubilmente legato al significato della parola “miseria”.

Con la drammaticità della sua morte E. ci ha obbligati a fermarci e a farci interrogare su chi siamo stati all’interno della costruzione di questa storia e chi vogliamo ma soprattutto non vogliamo essere da adesso in poi.

Non dobbiamo e non possiamo dimenticarci di lei, in modo che continui a vivere, almeno in questo modo, attraverso il nostro ricordo e, sarebbe bello, anche attraverso il nostro operato.

Karski J. (2013), “La mia testimonianza davanti al mondo”, Bernardini L. (a cura di), Adelphi, Milano.

Scheper-Hughes N. (2005), “Questioni di coscienza, antropologia e genocidio”, in Dei, F. (a cura di), Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, pp. 282.