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Rivolta nelle banlieues francesi: no justice, no peace!

Intervista ad Alessandro Dal Lago

Quello che sta succedendo in Francia non ha nulla a che vedere con mussulmani, islamici o immigrati, come qualcuno in modo molto semplicistico ha detto in Italia.
Questo ci porta a tutta una serie di riflessioni su quanto sta accadendo nel cuore dell’Europa, dove il problema è la discriminazione sociale. Ci sono cittadini di serie A e di serie B… E una forte discriminazione, un razzismo diretto, evidente, esiste sempre più in maniera pesante in Italia.

Ne abbiamo discusso con Alessandro Dal Lago (professore di Sociologia dei processi culturali presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova e autore di diversi libri sulla società contemporanea e migrazioni internazionali).

A partire da quello che sta avvenendo in Francia, l’intervista punta sull’aspetto del cosiddetto “multiculturalismo” e, soprattutto, il ruolo della scuola in un contesto dove la presenza di quelli che dovrebbero essere “nuovi cittadini” si dimostra in realtà il primo luogo in cui ci si misura con la discriminazione.
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Domanda – Alessandro, nei giorni scorsi hai scritto “prima o poi, quando l’esclusione è intollerabile, gli esclusi metteranno a ferro e fuoco lo spazio dell’esclusione”. La domanda è: quando una persona, che vive e nasce in quel territorio, ne diventa cittadino a tutti gli effetti?

Risposta – Diventare cittadini a tutti gli effetti è un po’ un’utopia, nel senso che in società molto verticali, stratificate – soprattutto in questo periodo storico – è evidente che ci sono fasce della popolazione tagliate fuori. Questo vale per qualunque paese europeo.
Quello che è successo in Francia ha svelato la finzione della cittadinanza francese, una cittadinanza formale, nel senso che stiamo parlando di cittadini francesi (provenienti da famiglie che da diverse generazioni hanno la cittadinanza francese. Non va dimenticato che in origine, sia i marocchini o i tunisini, erano cittadini dei territori di dominio oltremare. Perciò è possibile che molte famiglie siano francesi da molte generazioni.
In ogni modo questi sono cittadini che formalmente sono uguali a tutti gli altri, ma di fatto non lo sono. Dalle interviste lette, da quello che si può conoscere, emerge una situazione per cui sia i giovanissimi per quanto riguarda il sistema scolastico, sia i meno giovani per quanto riguarda il sistema del lavoro, sono tagliati fuori perché hanno delle facce diverse dal modello tipo del cittadino francese.
Il problema è un po’ questo!
Quando si diventa cittadini? Si diventa cittadini quando si condividono, chi più chi meno, risorse e prospettive di vita. E’ chiaro che nella società europea questo non c’è. La cittadinanza europea è una pura finzione, e lo è per gran parte della popolazione di un paese come la Francia che si è voluto repubblica ugualitaria, ma non lo è per nulla.

D: Sulla Francia si sono dette molte cose. Qualcuno ha affermato che il multiculturalismo francese è fallito. Sei d’accordo?

R:Non sono d’accordo perché non è il multiculturalismo il problema. In Francia, in realtà, non si è mai parlato di multiculturalismo. E’ un tema recente, non molto amato e deriva più da situazioni di tipo anglosassone. Ho molti dubbi che si possa parlare di multiculturalismo perché è qualcosa che ha a che fare con il Canada, gli Stati Uniti, al limite con l’Inghilterra ma non con la Francia. In Francia c’è sempre stata l’idea di una sorta di universalismo repubblicano in cui tutti erano uguali e in cui la cultura non contava.
Da un certo punto di vista la cultura – nel senso di religione piuttosto che modi di vita – non conta come griglia di interpretazione. Contano altre questioni, cioè la sottocultura giovanile, nel senso di modi di vita giovanili, che non coincidono per niente con l’immagine stereotipata della cultura.
Per esempio, la reazione delle moschee e degli Imam a quello che sta succedendo è veramente indicativa perché, una volta per tutte, bisogna cominciare a dire che in un paese come la Francia – ma vale anche per certi versi per paesi come l’Inghilterra – laddove ci sono religioni organizzate, queste funzionano da sistemi di autocontrollo e, da un certo punto di vista, vale anche per il sogno italiano. Quando tempo fa è venuta fuori quell’insensata polemica sulla scuola milanese di via Quaranta, ho avuto l’impressione che l’idea dei nostri governanti – non credo che cambierebbe molto con il centrosinistra – sia quello di separare gli eventuali “estremisti islamici” (che finora in realtà in Italia non si sono visti), appoggiandosi sugli “islamici buoni” affinché mantengano l’ordine e autorganizzino le loro “comunità”.
Quello che succede in Francia è interessante perché dimostra che vi sono fasce di popolazione giovanile estremamente ampie che non ha niente a che fare con la religione, né con il problema della cultura. Quindi, da questo punto di vista, sono completamente in disaccordo con la lettura del tipo “Sono gli spacciatori che…”. Si tratta invece di ragazzini, molto giovani, che vivono situazioni in cui vi possono essere piccoli mercati di droga, perché sono gli unici mercati possibili in situazioni come quelle.
Questi sono cittadini francesi, con le faccie diverse, che si rivoltano contro un sistema di esclusione, non contro una cultura. Il multiculturalismo analitico che sta andando in crisi è il nostro, cioè l’idea standardizzata, stereotipata che dei cittadini si organizzino. Questi, non hanno visibilmente alcun interesse nell’aggregazione religiosa.
Questa, secondo me, è la cosa interessante e forse l’unico aspetto positivo di questa vicenda.

D: Un dato che colpisce è che le prime ad essere bruciate sono state le scuole, viste come simbolo di qualcosa vissuto male. Tornando all’Italia, quanto è importante lavorare all’interno della scuola e quanto rappresenta la scuola per il futuro di queste persone?

R: La situazione in Italia è un po’ diversa da tutti gli altri paesi. In Italia, diversamente dalla Francia, non c’è alcuna tradizione di una cittadinanza condivisa, non c’è nemmeno la finzione dell’uguaglianza civile. Da noi gli i figli degli stranieri sono persone senza diritti. Noi non ci rendiamo conto di che abisso di esclusione, di cancellazione esistenziale prima che sociale, abbiamo creato nei confronti degli stranieri. Gli stranieri da noi sono carne da lavoro e basta. Se non si fanno vedere sono per lo più tollerati o comunque non creano un grosso problema, se si fanno vedere in piccoli granelli di vita sociale, immediatamente scatenano quello che per me è un profondo razzismo istituzionale. Io lo definirei così.
Per esempio, la vicenda dei lavavetri di Bologna… Materialmente non conta nulla ma simbolicamente è incredibile perchè, per risolvere dei problemi di normale fastidio urbano che esiste dappertutto – che coinvolge in realtà i giovani italiani – il primo atto simbolico è buttar fuori i lavavetri e prendersela con i rumeni. Questo spiega tutto.
Che poi di fatto la repressione non ci sia stata o sia minima, simbolicamente però dà l’idea dell’abisso di lontananza in cui abbiamo cacciato gli stranieri.
Da noi non c’è né la cittadinanza formale, né quella sociale. Queste persone vivono in un limbo quindi il problema non si pone perché semplicemente queste persone socialmente non esistono.
Questo è il mio punto di vista. E’ possibile che prima o poi, i più giovani, i figli di migranti, si stanchino.

Teniamo conto che da noi nessuno ha la cittadinanza, perché viene elargita con dieci anni di procedure complicatissime, data con il contagocce. L’Italia, da questo punto di vista, è uno dei paesi più razzisti d’Europa. Proprio perché il presupposto implicito è una divisione assoluta tra noi e loro. Prima o poi però è possibile che, continuando a ripetere questo atteggiamento, i più giovani – invece di disperdersi nei micromercati oppure sopravvivere alla chetichella ai margini della nostra società – comincino a reagire. Questo è un po’ il punto di fondo.
La scuola. Nella scuola francese si vive la finzione dell’uguaglianza. Nelle banlieuses sono in condizioni particolari, abbandonate a se stesse, etnicizzate e frequentate da figli provenienti da diverse generazioni di immigrati.
Diversa è la situazione nelle scuola italiana in cui, per il momento, gli stranieri sono semplicemente ammessi e tollerati fino alle elementari, in alcuni casi fino alle medi ma da lì in poi invece, tutto si perde. Inoltre in Italia non ci sono le periferie in senso francese. Bisogna tener conto che Parigi è una città di circa otto milioni di abitanti di cui, probabilmente, più di sei milioni e mezzo vivono nelle periferie. Sei milioni e mezzo di persone che in uno spazio grande ma circoscritto, poi pongono questo tipo di problemi.
Da noi questo non c’è perché siamo ancora agli antipodi. E’ come se ci trovassimo – rispetto agli stranieri e ai figli di stranieri – nelle condizioni in cui una società come quella francese, si trovava agli inizi degli anni cinquanta. Questo è il problema che spiega l’abissale differenza.
Naturalmente, il modo in cui noi trattiamo gli stranieri in Italia, prima o poi, avrà delle risposte. Non si può andare avanti con il razzismo diretto della Lega, con quello indiretto di quasi tutti gli altri movimenti sociali e politici, solo con l’assistenzialismo, con il messaggio “vogliamo solo gli islamici buoni”. Non si può andare avanti a lungo con messaggi di questo genere, finché non ci saranno reazioni.

D: Anche se è banale sintetizzare, secondo te si può usare uno slogan che si usò a Los Angeles qualche anno fa “Senza giustizia nessuna pace”?

R: Sì, si può usare questo slogan perché questo riguardava in modo analogo l’esclusione di un certo tipo di cittadini americani. Ho visto delle analogie fortissime tra la situazione di Los Angeles, di altri riot americani e quella dei francesi. Direi che in Francia c’era un problema di giustizia nella distribuzione delle risorse, che hanno a che fare con quanto si spende quartiere per quartiere. Da noi però c’è anche un problema ancora più profondo. Quando usiamo la parola “esclusione” è come se ci riferissimo per esempio al “non avere diritto” ad un centro sociale, o piuttosto a non avere diritto a questo o a quello.
L’esclusione di cui stiamo parlando in Francia è un’esclusione assoluta. Questi ragazzi vivono in un altro universo, sono tagliati fuori. È per questo che bruciano le macchine, oltre alle scuole. Bruciano il simbolo della mobilità e del rapporto con la città. E’ come nel film di Kassovitz (L’odio del 1995).
E’ assolutamente chiaro che la griglia di lettura di questi fatti, dovrebbe essere in termini di giustizia sociale quindi, buttiamo a mare tutte le scemenze multiculturaliste, ovvero la lettura esclusivamente culturale di fenomeni che invece sono sociali.
Per quanto riguarda l’Italia, l’ingiustizia nel caso degli stranieri è così radicale che – insisto – prima o poi, delle forme di reazione, dovute e doverose ci saranno. Perché se in Francia stiamo parlando di esclusione sociale, in Italia stiamo allevando un popolo di schiavi. Quindi qualche tipo di reazione ci sarà.
Da questo punto di vista, la parola “giustizia”, se rimanda a una lettura sociale e politica di questi fenomeni e non scioccamente religiosa, è necessaria.

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