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Rosarno, ci son cascati (quasi) tutti

Photo credit: Nadia Lucisano

San Ferdinando (RC) – Dopo l’orgiastica felicità salviniana, ovviamente espressa via social network, per lo sgombero del “ghetto” di Rosarno, la solita folla si è lanciata in un eterno giubilo per il Capitano, tra commenti che sfiorano il neonazismo e allegri meme di vittoria. Vittoria per aver finalmente tolto di mezzo un luogo di confine abitato da migliaia di “clandestini”. Almeno così dicono loro.
Ad onor del vero, la strategia dello sgombero ha radici profonde nel partito democratico (vedi sgombero del ghetto di Rignano di due anni fa, tra i tanti) e l’apologia è quella della pulizia, in tutti i sensi, di un determinato luogo; applicato in contesti urbani, lo sgombero è diventato un buon modo, per il PD dell’ultimo decennio inserendosi nel solco dei sindaci sceriffi di “sinistra”, per mettere la polvere sotto il tappeto. Salvini ha raccolto l’eredità e radicalizzato la strategia.

Fuori dall’irrealtà social e dai discorsi populisti e razzisti, caratteristici del bulletto leghista, la sostanza è ben diversa e a tratti drammatica.
Il “ghetto”, quello vecchio, è stato sì sgomberato, ma di fatto spostando la maggior parte dei braccianti all’interno di una tendopoli istituita nel 2017 e un’altra, informale, non recintata, entrambe antistanti la vecchia baraccopoli che così, geograficamente, si è solo spostata di qualche metro. Un’operazione mediatica acchiappa voti in un territorio dove la Lega è in forte ascesa, in un contesto che varia tra l’ndrangheta locale, la disoccupazione, i forti problemi ambientali e il perno calabrese, il porto di Gioia Tauro.

A terra sono restate grandi quantità di detriti, ammassati dalle ruspe salviniane, e persone; poche, forse meno di 200, traferite verso qualche CAS calabrese, pochissime verso progetti SPRAR.

La maggior parte dei braccianti, più di 1200, è restata ancorata al luogo in cui riesce a svoltare qualche euro al giorno, importante bacino di lavoratori per buona parte dei proprietari agricoli locali che, nell’operazione del 6 marzo, non hanno visto intaccati di un centimetro i loro interessi.

Cosa, tra l’altro, prevedibile visto il rapporto oramai consolidato tra il mondo agricolo e i leghisti. Vedasi il caso delle quote latte.

Photo credit: Raffaello Rossini, gennaio 2019
Photo credit: Raffaello Rossini, gennaio 2019

La difesa ad oltranza del cibo Made in Italy, abbracciata anche dall’ex renziano di ferro Oscar Farinetti (Eataly), è l’ideologia più alta del cibo status simbol, in una filiera che non premia il produttore ma la grande distribuzione organizzata. In soldoni, quanto di più distante da quello che si può aspettare un produttore di arance della Piana o un vignaiolo veneto.
Per non parlare poi delle proposte leghiste in sede europea, un mix di nazionalismo e ignoranza che nasconde in realtà un duraturo rapporto tra i leghisti e i poteri forti (caso emblematico l’equiparazione della caccia all’agricoltura al motto di “la caccia è una risorsa e una tradizione”).
Nel frattempo, in questo vuoto politico dove è assente qualsiasi proposta di regolamentazione del mercato che punti a rendere trasparente ed etica la filiera, la GDO ringrazia sentitamente.

Alla fine della filiera gli sfruttati che, per qualche euro l’ora, raccolgono e coltivano il cibo che troviamo nei banconi dei supermercati, probabilmente comprato al massimo ribasso attraverso un’asta.

Un circolo vizioso già più volte raccontato, documentato, denunciato ma che sembra impossibile da spezzare. Un sistema mafioso, organizzato, che, attraverso forti legami istituzionali, muove miliardi di euro l’anno. Mentre la folla plaude all’ennesimo sgombero all’umanità.

– Leggi anche:
A San Ferdinando sgomberata una tendopoli se ne apre un’altra. Di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.