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Rosarno: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate

Un report dal ghetto di Rosarno del Collettivo Mamadou

Photo credit: Valentina Benvenuti
Photo credit: Valentina Benvenuti

Quello che stiamo vivendo in questi giorni rasenta così da vicino il dramma che a fatica riusciamo ad esprimere il nostro dolore e la nostra rabbia.

Siamo arrivati a Nicotera marina, un paesino vicino a Rosarno, lunedì 26 dicembre, dopo un interminabile viaggio Bolzano-Calabria. L’intento del Collettivo Mamadou quello di iniziare un percorso di alfabetizzazione all’interno della tendopoli di San Ferdinando, piccolo comune a qualche chilometro da Rosarno.

I posti non ci sono nuovi, già avevamo visitato la bidonville nel febbraio 2016 e, in quell’occasione, ci eravamo fermati per più di una settimana per narrare e descrivere la povertà estrema che caratterizza le condizioni dei braccianti agricoli africani presenti nella Piana di Gioia Tauro.
Oggi molto è cambiato tanto da far assomigliare questo territorio al peggior girone infernale dantesco.

Non siamo partiti con l’idea di portare la carità bensì con la convinzione che una padronanza specifica della lingua italiana sia un modo per sostenere chi, da anni, vive in una condizione di schiavitù. Una Scuola di strada, di formazione di coscienze, una Scuola per una nuova vita.

La tendopoli di oggi somiglia poco a quella di ieri; una distesa infinita di baracche blu e bianche ha allargato i confini mangiandosi tutto ciò che c’era intorno. A San Ferdinando si è pian piano creato un paese con bazar, spacci alimentari, una moschea con l’Imam, le ciclofficine, ristorantini e bordelli.
Ma manca l’acqua, la luce, il gas, la fognatura rendendo così il tutto una latrina a cielo aperto.

Photo credit: Valentina Benvenuti
Photo credit: Valentina Benvenuti

Più di 2.000 braccianti convivono tra l’odore della plastica bruciata e la puzza del sangue raffermo della capra, sudicia, appena sgozzata. Grandi lamiere surriscaldate fungono da griglie per la carne. Il fumo tutt’intorno è talmente denso che sembra oleoso. L’aria diventa così irrespirabile. Un girone dantesco, appunto!

Il fenomeno più evidente è l’arrivo di tantissimi nigeriani e di una cinquantina di donne che si prostituiscono all’interno della tendopoli e in alcuni quartieri di Rosarno.

L’aumento dei braccianti è andato di pari passo con la diminuzione, in certi casi drastica, del lavoro bracciantile. Alcuni ragazzi ci raccontano che a malapena riescono a lavorare 8 giorni al mese, 30 euro al giorno, massimo, rigorosamente in nero.

Lo è il signore senegalese, ha 66 anni, un veterano dei ghetti del Sud. “Sono arrivato in Italia nel 1983” ci racconta Lo “ho lavorato in una fabbrica del vicentino per vent’anni. Poi c’è stata la delocalizzazione e più di 150 dipendenti sono stati messi prima in mobilità, poi licenziati. Io ero tra questi ultimi. Mi sono così trovato senza lavoro a più di cinquant’anni. L’unica alternativa è stata quella di andare a Sud per le raccolte agricole, le arance in Calabria, i pomodori in Puglia, le olive in Sicilia. Oggi la mia “transumanza” continua da più di tredici anni, in attesa della cittadinanza“.

A San Ferdinando, a qualche centinaio di metri dalla tendopoli, si erge un capannone grigio a due piani, occupato qualche anno fa dai braccianti, oggi simbolo di una condizione abitativa che va oltre ogni umana immaginazione. In 300 vivono all’interno dell’ex fabbrica in materassi e tende di fortuna tra vecchie bombole del gas e cibo avariato. L’odore acre consente di restare dentro una manciata di minuti. Poi l’aria diventa irrespirabile.

L’abominio di quello che sta succedendo al Sud Italia, da decenni, non fa più notizia.

Photo credit: Nadia Lucisano
Photo credit: Nadia Lucisano

Raccontare dei nuovi schiavi risulterebbe notizia trita e ritrita, in queste zone è la normalità, nascosta ma pur sempre normalità. Il circolo vizioso è sempre quello: le istituzioni mantengono i ghetti col paravento della mancanza di soldi (nonostante in molti abbiano presentato progetti e percorsi abitativi a costo zero), le forze dell’ordine eseguono sgomberi “momentanei” inutili e fuori da qualsiasi logica politica e sociale, i proprietari terrieri continuano a sfruttare il lavoro bracciantile, proprietari a loro volta vessati dai prezzi della Grande Distribuzione Organizzata che, raramente, applica l’etichetta narrante.

A fare da contorno a tutto ciò delle leggi sull’immigrazione che non hanno niente a che vedere con uno Stato di diritto, specchio di una società malata, indegna, disumanizzante.

E proprio mentre il nostro corso continua, all’interno di una delle tante baracche del ghetto, ci rendiamo conto che la parola è tra i pochi strumenti di emancipazione vera per il reddito, i diritti e la dignità dei braccianti agricoli africani!

Matteo De Checchi, Valentina Benvenuti e Francesca Bonadiman (Collettivo Mamadou)

Photo credit: Medici per i diritti umani
Photo credit: Medici per i diritti umani

Links utili:
Collettivo Mamadou su FB[email protected]

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.