Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Scarpe impiccate e “vu’ cumprà” bianchi

di Chiara Barison, dottoranda in politiche transfrontaliere all’Università di Trieste

Che effetto strano vedere scarpe impiccate. Come composizioni artistiche post moderne, dondolano lente, cullate dal vento. Ai piedi degli alberi, distesi su stuoie di paglia, ragazzi si riposano in attesa di clienti, sfregandosi nervosamente i denti con lunghi bastoncini di legno.
Qui in Senegal, tutto si vende, tutto si recicla; e tutto dondola altrettanto lentamente: la vita, la speranza, l’attesa che prima o poi qualcosa di positivo accadrà. O forse anche no.
Le scarpe intanto rimangono là, appese a rami spogli, ma di clienti nemmeno l’ombra. Sono scarpe usate, sì, lavate e spazzolate, ma pur sempre usate. Arrivano da fuori, come la maggior parte delle cose qui.
L’antropologo Cheikh Niang aveva detto bene in una delle sue lezioni all’università, ‘ciò che diviene scarto nei paesi occidentali, diventa nuovamente prodotto da inserire nel mercato nei paesi in via di sviluppo’, esemplificando questa teoria con uno schema molto semplice ed intuitivo:

Paesi in via di sviluppo——> prodotto industriale——> prodotto ormai surclassato——> (attraverso i migranti) arriva nei paesi in via di sviluppo——> diventa di nuovo prodotto——> diventa scarto ancora——> finirà nei negozi di riparazione——> diventerà ancora prodotto (per esempio in pezzi)——> e così via…

Ecco allora un fiorire di numerosi mercatini (marché lundi, marché samedi, marché Colabane) dove è possibile trovare tutto quello di cui si necessita, vestiti, scarpe, cellulari, pc, accessori; nuovi, usati, rubati.
Smetto di scrivere per un istante e guardo la maglietta che indosso. Quando l’ho vista me ne sono innamorata, rossa, con dei grandi cuori e un arcobaleno. Chissà qual’è stato il suo viaggio per arrivare in uno dei tanti grossi cumuli di vestiti gettati a terra a Castor.
Mi è costata solo 1000 CFA (un euro e cinquanta) e con lei me ne sono partate a casa altre cinque.
Un’altra, blu, ha due bellissime ancore dorate stampate proprio al centro, favoloso disegno da tatuaggi old school.
Me la ridevo tutta sola andando a sbirciare nell’enorme busta di plastica bianca dove avevo gettato tutti i nuovi acquisti.

In Italia t-shirt come questa finirebbero in un negozio super trendy per fighettini chic a 60 euro l’una. Che coglioni che siamo, davvero. Anneghiamo nell’inutile, gettandone via l’altra metà. Questa metà sarà poi rivenduta e riutilizzata nei paesi in via di sviluppo.
Se dovessi seguire gli insegnamenti dei miei amici modou-modou, ad ogni mio viaggio di ritorno dovrei caricarmi di magliette e rivenderle carissime in Italia, spacciandole per t-shirt arrivate direttamente da negozi del centro di Parigi o New York. Sandaga insegna e poi si sa, gli allievi superano sempre i maestri, ‘vrai Baol Baol’ mi ripetono sempre i miei vicini di negozio.
Scarto occidentale che diventa prodotto di mercato in Senegal, riacquiststo da un’italiana immigrata e rivenduto come prodotto a chi prima l’aveva gettato. Contraddizione mondo.
Dentro il car rapide, schiacciata contro la finestra dall’enorme sedere di un altrettanto enorme drianke, osservo la strada e mi rendo conto che Dakar è tutto un grande infinito mercato; dalle zone più frequentate agli anfratti piùà nascosti, gente che vende: occhiali, orologi, vestiti, tovaglie, bilance, biscotti fatti in casa, sacchetti di acqua, frutta, piatti di riso.
Impossibile fermarsi in un angolo per ascoltare della musica con il proprio i-pod, scrivere o semplicemente osservare l’oceano. Lunga sarà la processione di venditori con in mano qualsiasi cosa, mutande e canotta stile ‘Fantozzi’ comprese. Odio questo paese. Anzi no, lo amo, lo amo profondamente perché è come me, tanto, troppo, eccessivo. Lo amo al punto tale che è diventato il mio compagno, la mia famiglia, il mio psicologo, il mio migliore amico; e come una scarpa impiccata, anche io dondolo lentamente, cullata dall’insicurezza del domani, sospesa tra due mondi, trasformando scarto in prodotto e ripercorrendo quello stesso percorso migratorio transnazionale che avevo visto fare ai miei amici senegalesi anni prima a Padova.

A mio modo sono anche io ‘scarto’ ridiventato prodotto nel sud del mondo. Marketing e migrazione, migrazione e trasformazioni socio-culturali.
A Sandaga rimango un soggetto strano, in tanti ancora mi chiedono curiosi perché ho deciso di migrare in Senegal. Corsi e ricorsi storici, rispondo. Mi guardano ancora più perplessi. Da anni lo dico e lo scrivo, noi siamo e saremo i futuri migranti.
Domenica in spiaggia a Yoff, distesa al sole a ridere e scherzare con gli amici, all’improvviso una voce ‘Madame, vous voulez des crepes?’ (signora, vuole delle crepes?). Mi sono girata quasi seccata e con mio enorme stupore mi sono trovata di fronte un ragazzo francese, bianco, di non più di trent’anni. Vendeva dolci fatti da lui in un pomeriggio assolato in una delle spiaggie più frequentatwe di Dakar, tra lo stupore dei bagnanti senegalesi.
‘Vous voulez des crepes?’ mi ha chiesto nuovamente mostrandomi il suo piccolo cestino in vimini. No, non stavo sognando, quel ragazzo era reale, così come il profumo delle sue crepes. Quel ragazzo francese era davvero un vu cumprà bianco. Scarpe impiccate dondolate dal vento.
Gli alberi di Natale hanno cambiato addobbi, si sono trasformati e i migranti si sono scambiati ruoli e provenienza. Marketing e migrazione. Migrazione e trasformazioni socio-culturali.