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da Il Corriere della Sera del 31 dicembre 2003

Schiavi nell’oasi del Ténéré Così finisce il sogno dei clandestini

di Fabrizio Gatti

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24, 27 e 29 dicembre

OASI DI DIRKOU (Niger) – Ribolle qualcosa di nuovo sulla linea all’orizzonte. Un sottile filo nero, nell’aria increspata dalla sabbia rovente. Si dissolve. Riappare. «Dirkou», urla l’autista ai 182 passeggeri. Più il camion si avvicina, più quell’ombra sale in cielo. Quattro giorni e quattro notti separano il mondo dall’oasi degli schiavi. È laggiù, o lassù, dipende. I miraggi la trasformano in un’isola, un lago azzurro, adesso è una nuvola. La magia del Ténéré, il deserto dei deserti. E in mezzo alle ultime dune, all’improvviso, il dramma del Ténéré. Altri centocinquanta clandestini, con la vita aggrappata a un vecchio Mercedes in panne.

Un uomo cammina accanto al camion. «Si è rotto qualcosa al cambio. Stiamo tornando lentamente a Dirkou, tutto in prima. Mi date un passaggio?», chiede Ahmed El Falouki, 32 anni, libico di Sebha. Dice di essere il proprietario del Mercedes. Da quanti giorni siete nel deserto? «Cinque o sei, ho perso il conto. Stavamo andando in Libia. Ah, forse ti interessa. Vuoi comprare il mio camion? Ha una quarantina d’anni. Cinque milioni di franchi… Aspetta, sono meno di ottomila dollari. Perché non lo vuoi?», insiste Ahmed, più interessato a far soldi che a salvare i suoi clienti. Dal vecchio Mercedes anni ’50 gridano, si agitano. Due pacchi di biscotti si svuotano veloci, di mano in mano. Un sacchetto di datteri. Il pane secco, una manciata di zucchero. Tutto quello che rimane del viaggio da Agadez. Troppo poco per saziare un camion di sguardi stravolti. Vengono da Camerun, Nigeria, Ghana, Liberia. Un ragazzo con le ciglia bianche di polvere prende al volo una sigaretta. Invece di accenderla, toglie il filtro e se la mastica.

Un ventenne scende e corre incontro a piedi nudi. Parla inglese, i suoi occhi brillano di lacrime. «Non mangiamo da tre giorni, l’acqua è quasi finita. Per favore, non mi puoi portare in Europa? Mi chiamo Johnatan, sono nigeriano, ho il passaporto. So disegnare e costruire mobili. Guarda – dice e per dimostrarlo raddrizza il mignolo destro senza una falange – è stato un incidente. Per favore, io non ce la faccio più, sono sfinito. Ho già passato sei mesi a Dirkou. E questo camion ci riporta indietro». Moses Yemeh, 33 anni, liberiano di Monrovia, si affaccia alla fiancata: «Il libico ha detto che se arriviamo vivi, ci restituisce solo 10 mila franchi. Ma io gliene ho pagati 25 mila, mio fratello lo stesso. Non abbiamo altri soldi».

I miraggi là davanti continuano a confondere il cielo e l’orizzonte. Mancano cinquanta chilometri, più o meno. Ancora otto, dieci ore di sofferenza per i passeggeri di Ahmed El Falouki. Ed è solo l’inizio. «Dirkou? Quella è l’oasi degli schiavi – aveva detto Soufiane Hassane, 24 anni, venditore di bidoni per l’acqua, giorni fa ad Agadez -. Là fuori ci sono solo la sabbia e Dio». La sabbia è ovunque. La pista dell’aeroporto militare è una striscia di sabbia. Le casupole e le vie sono fatte di sabbia. Le prime palme del villaggio sono ricoperte di sabbia. Dio sarà forse nelle preghiere silenziose di questi 182 immigrati appena arrivati. Ogni straniero deve scendere dal grande camion, inginocchiarsi con le mani sulla testa. Sperare che i militari lo lascino passare. Senza altre botte, altre frustate. Un soldato ordina a tre ragazzi di seguirlo dentro un piccolo ufficio. Preghiere inutili, ricomincia la rapina. Il posto di controllo è in fondo all’immensa pianura che scende alla falesia del Kaouar. Subito dietro, la grande base del 24° Battaglione interforze. Due porte arrugginite sono il campo di calcio. E davanti a tutti, l’attività dei trafficanti. Tre scrivanie, sotto le tettoie di palma intrecciata. Così si compra l’ultima tappa nel deserto. Due camion Mercedes e sei fuoristrada Toyota attendono il prossimo carico di clandestini. Da Dirkou, Niger, ad Al Gatrun, Libia.

Bisogna dimenticare il calendario. Perché qui gli uomini non nascono liberi, nemmeno uguali tra loro. E i militari sono i primi a tenere alta la fama dell’oasi. «Noi già pregavamo Allah che quelli ancora suonavano i tamburi e si mangiavano come animali. Quelli là non sono come noi – dice un caporale di fanteria, faccia e cognome arabi, e indica gli stranieri in ginocchio nella sabbia -. Se possono pagarsi il viaggio fino in Italia, vuol dire che sono ricchi. È giusto che lascino qualcosa in Niger, a noi che non abbiamo i soldi per andarcene». È una vecchia storia. Nessun Nelson Mandela è nato qui per darle un nome. Ma c’è una buona dose di razzismo in tutto questo. Arabi libici, tubù e neri hausa del Niger considerano gli abitanti della costa africana semplicemente inferiori. Un tempo attraversavano il Ténéré e il Sahara sulla stessa rotta per comprarli e rivenderli come schiavi. Adesso li ammassano sui camion peggio delle bestie. Cammelli e capre fanno viaggi di prima classe. Hanno spazio per sdraiarsi, fieno e acqua. I clandestini partono che hanno già pagato il biglietto. E a nessuno importa se muoiono nel deserto.

Il vecchio camion di Ahmed El Falouki arriva al buio. Tutti vivi questa volta. Ma è solo una questione fisica. Il morale è morto da giorni. Per qualcuno da mesi. Johnatan, Moses e gli altri 148 ragazzi sanno cosa li sta aspettando. Dirkou è una gabbia e il Sahara e il Ténéré sono le sue sbarre. Di disperati come loro, prigionieri dell’oasi, ne hanno contati diecimila. Per non morire di fame lavorano gratis. Nelle case dei commercianti o nei palmeti. Lavano pentole, curano orti e giardini, raccolgono datteri, impastano mattoni. In cambio di una scodella di miglio, un piatto di pasta, il caffè, qualche sigaretta. Volevano arrivare in Italia, sono diventati schiavi. Solo dopo mesi di fatica il padrone li lascia andare, pagando finalmente il biglietto per la Libia: 25 mila franchi, 38 euro e 50. Impossibile chiedere aiuto. Anche solo far sapere a mogli e genitori che non si è ancora morti. Non c’è banca, non c’è Internet. Il telefono a Dirkou non esiste.
Ha la voce timida, Gereké Oussane, 32 anni, maliano di Koulikoro, sul fiume Niger, dieci anni da tassista in Camerun e ora schiavo nella casa di un commerciante: «I militari e la polizia mi hanno preso tutti i soldi. Arrivato qui, ho saputo che avevano bisogno di un giardiniere. Mi sveglio alle 5.30, preparo la colazione per la famiglia. L’ultimo mio compito della giornata? Bagnare il giardino, dalle undici a mezzanotte. L’accordo con il mio padrone era due mesi di lavoro gratis, poi lui mi avrebbe dato i 25 mila franchi per la Libia. Però sono arrivato a Dirkou all’inizio di settembre e dopo tre mesi… Io ho paura di finire come quelli prigionieri da più di un anno. Sono diventati pazzi e vivono nella boscaglia». Uno di loro gira ogni mattina nel mercato. Si accontenta di una manciata di farina, un pezzo di pane. Ma se gli vuoi parlare, scappa spaventato.

Mohamed Youssef, 26 anni, a Kumasi in Ghana aggiustava televisori. Adesso fa il muratore dall’alba al tramonto, per un pugno di riso. «Sono in viaggio con mio fratello e siamo bloccati da tre settimane – racconta -. Proprio non riesco a immaginare come faremo ad andarcene. Non pensavo fosse così dura. Sette mesi fa uno dei miei fratelli ha fatto la stessa rotta. Ora è a Napoli, uno zio è a Torino. Perché sono partito? Perché sono sposato, ho un bambino di due mesi. E quando vedi che la tua famiglia non ha abbastanza da mangiare, è l’uomo che deve fare qualcosa. Prima di uscire di casa, mia moglie mi ha dato un abbraccio, forte, lunghissimo. Non aveva altro da regalarmi».

Sul registro del municipio gli abitanti di Dirkou sono tremila. Famiglie kanuri e tubù, qualche tuareg e i figli degli arabi libici scappati dall’occupazione italiana. C’erano soltanto la base dell’esercito e le cave di bicarbonato, qui intorno. Ma tre anni fa è esploso il traffico dei clandestini. E l’anno scorso anche la polizia ha voluto aprire un commissariato. Questione di soldi, razzie, estorsioni. Milioni di euro da dividere con i militari.
Un rigido apartheid divide le notti nell’oasi. Tubù e kanuri dormono in case di sabbia e sale, la parte più antica. Gli arabi nelle villette con la tv via satellite. Gli stranieri nelle capanne e nelle pensioni oltre il grande mercato. Pat, 22 anni, nigeriana di Lagos, è la tenutaria di un hotel senza stelle, pavimenti di sabbia, una stuoia per letto: «Abitavo in Libia, a Zuwarah, proprio dove partono le barche per la Sicilia. Avevo un posto come questo, ospitavo i clandestini. Tre anni fa Gheddafi ha cacciato tutti i neri. Mi hanno presa e sono finita a Dirkou». Pat è anche proprietaria di un gruppo di ragazze. Altro genere di schiavitù. Tina O., 20 anni, nigeriana, è arrivata da un giorno. Il viaggio lo paga in natura. Ripartirà per la Libia soltanto quando avrà reso 50-70 mila franchi, più del doppio del biglietto. Ad Agadez l’hanno trattenuta due mesi. A Dirkou una prostituta costa 500 franchi, meno di un euro: Tina dovrà concedersi 140 volte prima di andarsene.

La mattina il villaggio riapre gli occhi con la voce in falsetto del suo muezzin. Segue il trombettiere che dà la sveglia ai militari. Poi suona l’adunata. Abbaiano i cani randagi, ragliano decine di asini. Moses Yemeh torna di corsa sotto l’albero dove ha dormito. È disperato: «Il libico non vuole rimborsarci il viaggio, giura che non ha più soldi. Sono già andato al commissariato. Voglio denunciarlo. Ma alla polizia dicono che non possono fare niente». A mezzogiorno il camion di Ahmed El Falouki riappare davanti al commissariato. Stavolta al vecchio Mercedes mancano due delle sei ruote, ma il cambio sembra a posto. C’è anche il trafficante libico. Ride con i poliziotti, è felice. Ha appena incassato tre milioni e 800 mila franchi, quasi seimila euro. Centocinquantadue clandestini partiranno tra un’ora sul suo camion. Altri centocinquanta, traditi da Ahmed, stanno cercando un padrone per non diventare pazzi.