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“Scontri di civiltà’ e inciviltà dei CPT

Intervista ad Annamaria Rivera, docente di etnologia, Università di Bari

Domanda: Marco Aime, nel suo recente libro Eccessi di culture compie un’operazione simile a quella che tu hai compiuto intorno al termine “etnia”. Svela come vengano catalogate come forme fisse e innate delle dinamiche che sono invece frutto di rapporti sociali di esclusione e dominazione. E’ più corretto parlare quindi di identità culturali, categorie etniche o piuttosto di rapporti sociali ben precisi in un sistema sociale che etichetta per rendersi immune ai tentativi di cambiamento?

Risposta: Questo è stato il “filo rosso” che ha condotto tanto gli interventi dei relatori quanto il dibattito, che mi pare sia stato vivace ed interessante. Devo dire a proposito dell’Imbroglio etnico (Dedalo 2002), libro da me scritto con René Gallissot e Mondher Kilani, che una delle parole-chiave che aprono ciascuno dei capitoli è dedicata proprio alla nozione di cultura. In quel capitolo io tento di decostruire lo stesso concetto antropologico di cultura. Mi capita di constatare talvolta che, essendo io un’antropologa, questo tentativo di decostruzione suscita sconcerto, per esempio da parte di alcuni sociologi che, avendo scoperto di recente questa nozione, si chiedono come mai siano proprio degli antropologi che oggi mettono in discussione il concetto-chiave della loro disciplina. In realtà, nella storia del dibattito antropologico l’interrogazione critica su “cultura” inizia almeno nei tardi anni ’60: da allora non si è smesso di sottolineare come questa nozione stia diventando sempre più rigida e insieme maldefinita; e di paventare il rischio di una visione essenzialista delle culture, cioè una visione che intende le culture come dei monoliti e come dotate di un’essenza fissa e immutabile, col rischio che si affermi un’altra forma di determinismo. Un determinismo culturalista, in apparenza diverso e opposto a quello biologista che sorreggeva la vecchia teoria delle razze, ma che può portare ad esiti per alcuni versi simili.
Uno degli esiti negativi è quello di etichettare gli individui appartenenti a minoranze e a gruppi di popolazione immigrate secondo categorie di tipo culturalista o etnicista, inventate e imposte dalla società maggioritaria. Spesso questa forma di etichettamento conduce a delle artificiose divisioni o addirittura contrapposizioni all’interno della popolazione immigrata. Essa, inoltre, può sorreggere quel discorso che sostiene che, in sostanza, le difficoltà di inserimento, i processi di marginalizzazione sociale, la impossibilità di godere dei diritti universali di cittadinanza sarebbero dovuti alle differenze culturali ed etniche invece che, com’è nella realtà, a politiche, leggi, pratiche amministrative, dinamiche di classe che tendono a discriminare ed emarginare i cosiddetti immigrati.
Considerare le culture come dei monoliti e le persone appartenenti a culture diverse dalla nostra come delle persone rigidamente determinate dalla cultura di origine e dalla tradizione è un discorso non molto dissimile da quello che parla di scontro di civiltà. Alludo, ovviamente, al teorema di Huntington e dei suoi seguaci, secondo il quale i conflitti su scala mondiale e oggi, in particolare, la guerra globale, permanente e preventiva, avrebbero alla base o come concausa l’irriducibilità del conflitto fra civiltà incomparabili e ostili l’una all’altra. Anche il tentativo di rovesciare questo teorema nefasto attraverso lo slogan “No allo scontro di civiltà” rischia di rimanere prigioniero dello stesso ordine semantico. Io credo che noi dovremmo rifiutare non solo il teorema dello scontro di civiltà ma lo stesso concetto di civiltà, che, così come oggi è declinato, mi sembra nefasto quasi quanto quello di razza. Se si legge attentamente fra le righe del libro di Huntington si scopre come la sua sia esattamente una teoria delle razze à la Gobineau, che parla del pericolo mortale del declino della civiltà occidentale.

D: Il 2 aprile sarà la Giornata europea per i diritti dei migranti e contro i Centri di Permanenza Temporanea. Il Progetto Melting Pot vuole cominciare fin da ora un percorso di riflessione condiviso su questi luoghi e sulle realtà che, in Italia e in Europa, vi si oppongono.
Nel tuo libro Estranei e nemici, edito da DeriveApprodi nel 2003, descrivi questo spostamento del razzismo da una base biologica a un differenzialismo culturale e come proprio il concetto di segregazione sia la nuova ed estrema forma dell’esclusione, che è volta a privare il migrante dello status di persona.
I CPT entrano in questo disegno? Cosa pensi della possibilità di cui si sta discutendo nell’Unione Europea di costruire addirittura i CPT fuori dall’UE?

R: Quella che io chiamo la “logica del campo” costituisce una forma estrema di discriminazione, che finisce per privare i migranti addirittura di ogni personalità giuridica, e infine per definirli e effettivamente trattarli come delle nonpersone. Per inciso vorrei specificare che il concetto di nonpersone, che io trovo molto interessante, è mutuato da Hannah Arendt, alla quale dobbiamo anche la più lucida definizione della logica del campo. Ma il termine lo si ritrova –pensate un po’- anche in un romanzo di Philip Dick, tradotto in italiano col titolo Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Non a caso è uno scrittore come Dick che riprende e fa propria la categoria di nonpersone: la proietta in un mondo del futuro ma in realtà parla dell’oggi e allude alla logica della segregazione e quindi della de-umanizzazione dell’altro-da-sé.
I CPT sono l’apoteosi della de-umanizzazione. Sono un istituto giuridico del tutto inedito che contrasta con la storia della civiltà giuridica europea (in questo caso mi concedo l’uso del termine “civiltà”), della quale uno dei pilastri era costituito dal principio dell’habeas corpus: il principio secondo il quale non si può privare della libertà una persona che non sia stata imputata e condannata per uno specifico reato da un tribunale regolare. I CPT privano della libertà persone che hanno commesso al massimo una infrazione amministrativa. Purtroppo, l’istituzione dei CPT non riguarda solo l’Italia: come giustamente ha rimarcato Etienne Balibar, i centri di detenzione per migranti e profughi costituiscono un vero e proprio sistema che ricopre l’intero territorio europeo. Se si realizzasse la proposta di costruire addirittura all’esterno dei confini dell’UE centri di detenzione in cui rinchiudere non solo i migranti ma anche i profughi e i richiedenti asilo, si affermerebbe una politica di tipo coloniale. Io credo che una lotta contro i CPT non possa essere condotta solo in Italia: è una battaglia che deve essere fatta su tutto il territorio dell’Unione Europea. E non solo: anche col sostegno e la partecipazione attiva degli abitanti di quei paesi in cui si vorrebbero costruire i centri di detenzione. Alcuni passi in questa direzione sono stati fatti negli ultimi Forum europei ma a mio parere sono ancora insufficienti per costruire una vera e propria rete che sia capace di condurre delle vere campagne contro i centri di detenzione.

D: Sappiamo che conosci la realtà di Parma e dei migranti a Parma. Ci puoi raccontare come valuti la situazione dal tuo punto di vista, magari esterno, non coinvolto direttamente nelle dinamiche della città?

R: Ne ho una percezione abbastanza esterna, ma conosco la situazione attraverso Internet e gli incontri che avvengono a livello nazionale.
Quello che mi sembra è che il movimento per la difesa dei diritti dei migranti e il movimento antirazzista in generale siano ancora abbastanza deboli e poco radicati a Parma. Tuttavia so che sono in corso occupazioni di abitazioni sfitte. E’ un modo per porre al centro la questione del diritto all’alloggio, che mi sembra un nodo fondamentale delle contraddizioni sociali e della condizione che vivono i migranti.
In una città come Parma, una città che un tempo, prima della crisi della Parmalat, era l’emblema della società affluente, questo è un nodo cruciale perché riesce, almeno potenzialmente e idealmente, ad istituire un’alleanza tra i più svantaggiati, che siano “autoctoni” o immigrati; e potrebbe contribuire a superare le barriere “etniche”, in vista della costruzione di una lotta comune. Mi sembra importante soprattutto per questo significato, oltre che per il fatto che risponde a un bisogno reale e drammatico.
Mi pare che da questo punto di vista la situazione di Parma non sia molto diversa da quella di Roma nella quale, tanto per gli “autoctoni” quanto per gli immigrati, quello della casa è un’emergenza sociale per eccellenza. Conosco situazioni -e credo che ce ne siano anche a Parma- di lavoratori di origine immigrata che sono miracolosamente riusciti ad ottenere un lavoro più o meno stabile e però sono costretti a pernottare in baracche, nelle auto o addirittura per strada, nei pressi della Stazione Termini.