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da Il Manifesto del 1 febbraio 2006

Se l’oro bianco non vale più niente

STEFANO LIBERTI
INVIATO A SIKASSO (Mali)

Icumuli bianchi si cominciano a vedere da lontano. Brillano come montagne di neve alla luce accecante del primo pomeriggio. Tutto intorno, una ventina di corpi in sudore si affannano sotto il sole: con semplici mascherine scavano nel mucchio e raccattano il cotone a mani nude; se lo passano tra loro e lo lanciano sul cassone del camion che dovrà poi trasportarlo alla fabbrica più vicina della Compagnie malienne du développement des textiles (Cmdt), l’industria di stato che si occupa del trattamento della fibra. Siamo a Zampedougou, un piccolo comune rurale del sud del Mali, a pochi chilometri dalla frontiera con la Costa d’Avorio. Perso in fondo alla brousse, a venti chilometri dal goudron (l’asfalto che segna la frontiera della modernità), questo villaggio vive unicamente della produzione di cotone, come tutti gli altri piccoli agglomerati sparsi nella zona, destinata quasi interamente alla monocultura di quell’«oro bianco» che una volta era l’orgoglio dei contadini maliani.

Un tempo in questi villaggi si organizzavano grandi feste alla fine della stagione, con cui si ringraziava la madre terra per i buoni raccolti. Ma oggi che l’oro bianco vale poco più della polvere, la monocultura si sta dimostrando una vera e propria maledizione: crollato il prezzo della fibra sui mercati mondiali, gli agricoltori hanno margini di profitto minimi e si indebitano ferocemente.

Lavorare in perdita

«Quest’anno la Cmdt compra il cotone a 160 franchi Cfa (0,25 centesimi di euro). A noi la produzione costa 190 franchi Cfa netti al chilo. Con questo prezzo-base di acquisto siamo condannati a lavorare in perdita», si infervora Daouda Traoré, presidente dell’Unione regionale dei centri di gestione di Sikasso, la piccola cittadina al centro della regione cotoniera del sud. L’unica speranza per i contadini è una buona percentuale di vendita da parte dell’industria di stato, con una successiva ripartizione dei guadagni. «Ma anche in quel caso, i soldi arrivano mesi e mesi dopo», continua Traoré.

Perdendo circa un quarto del suo valore commerciale (l’anno scorso il prezzo fisso d’acquisto era di 210 franchi Cfa al chilo), il cotone ha fatto crollare drasticamente i già magri redditi delle famiglie contadine. Un calo dei profitti che, secondo lo stesso ministero dell’industria e del commercio di Bamako, è costato complessivamente all’economia maliana circa 50 miliardi di franchi Cfa (80 milioni di euro). Ma, in mancanza di colture alternative, i contadini continuano a faticare sotto al sole per raccogliere i batuffoli bianchi e accatastarli in cumuli che saranno istradati verso le varie fabbriche Cmdt. «Ci è difficile attivare altre colture, perché il cotone inaridisce il suolo e non abbiamo i fondi per acquistare il materiale (pesticidi e concimi) necessario per diversificare», racconta Mamadou Berthé, segretario di una cooperativa agricola. «Per il momento non abbiamo altra alternativa che continuare con il cotone ma, se la situazione non cambia, bisognerà trovare un’altra soluzione».

Vittime della globalizzazione, gli agricoltori maliani si sentono letteralmente sperduti. Sanno che il loro cotone è di ottima qualità, perché il terreno è buono e perché il raccolto è fatto a mano. Ciò nonostante, continuano ad assistere impotenti al crollo dei prezzi e al loro progressivo impoverimento. «Siamo alla mercé dei paesi ricchi, che fanno valere la legge del più forte», riassume Mamadou Sanogo, segretario generale della Sivac, uno dei due sindacati di produttori di cotone. «La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale ci impongono prezzi bassi, mentre gli Stati uniti e l’Unione europea fanno crollare il valore del cotone sovvenzionando i loro agricoltori». I sussidi nazionali agli agricoltori, contrari alle regole del libero commercio, ma confermati dall’ultimo summit dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) di Hong Kong, sono una vera iattura per il cotone maliano. I 25mila produttori di cotone americani, sovvenzionati a suon di miliardi di dollari dal loro governo, possono vendere i loro prodotti a prezzi infimi, attivando un dumping gigantesco di cui fanno le spese soprattutto i paesi dell’Africa occidentale. Una situazione che le organizzazioni contadine della sub-regione denunciano da anni, ma che non accenna a cambiare. «Le grandi potenze ci impongono le stesse leggi che poi non esitano a violare», si infiamma un piccolo produttore della regione di Sikasso.

I conti su un bloc notes

Riuniti intorno a un tavolo alla sede dell’Unione regionale dei centri di gestione di Sikasso, una quindicina di produttori di cotone, capi di altrettanti cooperative produttrici, fanno i conti dell’anno su un bloc notes. Su una colonna sono segnate le spese della stagione (il kit di produzione, pesticidi e concime, fornito a credito dalla Cmdt); su un’altra le entrate derivanti dalla vendita del cotone. Il risultato della somma è sempre negativo: tutti e quindici – e, dietro di loro, invisibili, le centinaia di persone che rappresentano – vivono stretti nella morsa di un debito che difficilmente potrà essere saldato.

Tra le righe del bloc notes, che misura concretamente la soglia di povertà, non si vedono però le conseguenze dirette di questa sommatoria negativa. A riassumerle ci pensa Daouda Traoré: «Quest’anno dovremo rinunciare a mandare un paio di figli in più a scuola. E dovremo fare qualche sforzo per placare l’irruenza dei più giovani. Quanto a noi, possiamo solo fare una cosa per il futuro: puntare su una qualità del cotone migliore, che sia venduta a prezzi più alti sul mercato mondiale».

Il lavoro va avanti, ma nelle campagne il malcontento è diffuso; gli agricoltori, organizzati in cooperative, avanzano rivendicazioni; il governo, stretto tra l’incudine di eventuali jacqueries e il martello delle grande istituzioni finanziarie internazionali, che premono per la privatizzazione della Cmdt (e per un’introduzione di semi ogm), cerca di guadagnare tempo. L’industria cotoniera nazionale continua a lavorare come prima, ma fin dentro le fabbriche si respira un’atmosfera di dismissione imminente. «La Cmdt non ha futuro», riassume senza mezzi termini un ex alto funzionario.

Società mista costituita per il 60 per cento dallo stato maliano e per il 40 per cento dal gruppo francese Dagris, la Cmdt è una vera e propria istituzione in Mali, e in particolare nella regione sud che va dalla città di Koutiala a Sikasso. Dall’epoca dell’indipendenza, ha assicurato la totalità delle operazioni della filiera del cotone: dalla produzione alla commercializzazione, passando per il trasporto e la separazione grani-fibra. Nonostante le pesantezze burocratiche e qualche scandalo per corruzione, è sempre riuscita a riversare una parte notevole degli utili al governo e ai produttori, coprendo il 15 per cento del Pil nazionale. Una catena di lavoro completa, che per anni ha fatto vivere direttamente tre milioni e mezzo di persone, ossia un terzo della popolazione totale del Mali. Ma oggi che il mercato è stagnante e le grandi istituzioni finanziarie fremono, la compagnia maliana appare destinata a una imminente privatizzazione, al termine della quale lo stato non manterrà più del 20 per cento della nuova società.

Acquirenti misteriosi

Annunciata per il 2008, la privatizzazione è tanto inevitabile quanto ancora del tutto vaga: nulla si sa degli eventuali acquirenti, né sui mutamenti che la gestione privata attiverà su un sistema che equivaleva fino a poco tempo a un vero e proprio stato sociale. I contadini hanno accettato l’idea della privatizzazione, ma chiedono maggiori informazioni e maggiori tutele rispetto a un futuro che sembra offrire loro ben poche garanzie. «Bisogna evitare che l’ingresso dei privati renda ancora più precaria la situazione dei produttori. Da questo punto di vista, le premesse non sono incoraggianti: le privatizzazione delle compagnie cotoniere negli altri paesi della sub-regione – in Togo, in Costa d’Avorio, in Benin – si sono rivelate un fiasco», racconta il sindacalista Mamadou Sanogo.

Intanto, nella brousse di Zampedougou, i raccoglitori si ammassano sul cassone del camion ormai quasi pieno. Saltellando sul cotone per pressarlo e aumentare la capienza del veicolo, intonano nella lingua locale una nenia del raccolto. Il ritornello è semplice: «Il cotone di Zampedougou è il migliore di tutti. Impossibile trovare di meglio». «Lo fanno per incoraggiarsi a vicenda», riassume il capo della cooperativa agricola locale. Mentre cantano e sorridono, i venti giovani raccoglitori sembrano interrogarsi sul mistero di un lavoro che vale sempre meno e su quello strano meccanismo che, da qualche parte a mille miglia di distanza, trasforma la loro miseria in oro colato.