Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Seconda parte dell’VIII rapporto sul decimo viaggio in Bosnia (22-25 febbraio)

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, operatori indipendenti

Photo credit: Diego Pizi (Reportage "La nuova Idomeni")

Storie minime di ordinaria violenza

Voci dalla deportazione interna
23 febbraio 2019

A Bihac come a Kladuša scorgiamo decine di ragazzi che partono in gruppo per il “game“. Al mattino avevamo invece visto altre decine di profughi camminare ai bordi della strada cantonale, un interminabile nastro d’asfalto lungo la dorsale della Plješevica, la montagna che avevano tentato di valicare e da cui erano stati respinti.
Sono malvestiti, con giacche improbabili, alcuni avvolti nelle coperte rosse della mezza luna turca, scarpe da ginnastica ai piedi. Lungo un altro percorso troviamo tre ragazzi afgani, il loro gruppo ne conta altri undici che avanzano più lesti per percorrere i 50 km da Kladuša a Bihac. Sono stati catturati al mattino dai militari di Frontex, almeno 60 km all’interno della Croazia, in un punto imprecisato e respinti verso Kladuša. Hanno i telefoni fracassati, sono stati derubati e malmenati dalla polizia croata.

Sono giovanissimi, forse 20 anni al massimo. Appaiono stanchi, affamati, doloranti. Hanno i corpi piegati, i piedi con le vesciche: piedi da trincea si chiamano per il marciume di acqua neve e terra in cui sguazzano. “Abbiamo paura. Non possiamo fermarci qui a Kladusa. Non vogliamo essere deportati” ci dicono. Non sanno, purtroppo, che anche al Bira camp di Bihac, in mattinata sono arrivate le corriere e hanno caricato uomini e ragazzini sui pullman, destinazione Sarajevo.

Migrante di Kladuša, 23 febbraio 2019.
qui c’è parecchio caos perché questa mattina sono arrivati l’esercito e la polizia in assetto antisommossa e hanno deportato a Sarajevo 80 persone con i pullman e domani toccherà ad altri 250. Hanno preso gli uomini a casaccio, siamo spaventati

Migrante Bihac, 23 febbraio 2019
hanno preso dei ragazzini che si trovavano nello spazio comune degli uomini, li hanno presi così come si fa con le galline, a casaccio, prendendo uno qua uno là mentre scappavano. Li hanno separati dalle famiglie. Li hanno portati in pullman a Sarajevo in una tenda senza acqua, né luce, né cibo, né caldo

Domenica 24 febbraio i deportati della sera prima avrebbero già ripreso la via verso Bihac.

A Banja Luka, però, quella domenica la polizia li ha fatti scendere dal treno. Alcuni si sono dispersi e sono giunti a Velečevo da dove – dicono – cercheranno di proseguire poiché il cantone Una Sana è “chiuso” con posti di blocco permanenti a Bosanska Otoka e a Ključ.

Prospera così il mercato dei trafficanti appostati ai margini delle strade o disseminati nei campi tra i profughi, alla ricerca di clienti da scortare nottetempo verso i confini con la Croazia

Fathma e i suoi 3 figli

Sulla scia delle tragiche deportazioni interne, domenica 24 febbraio arriviamo a Ključ. Ci fermiamo su una piazzola presidiata dalla polizia lungo la statale che da Velečevo porta a Sarajevo. Alla fine di un sentierino polveroso che si diparte dalla strada, notiamo Fathma, si e no 40 anni, ma ne dimostra almeno 60.
Stà lì seduta sulla cassa di plastica, il corpo pietrificato, il pianto senza lacrime, intorno il ronzio del dolore. Erbacce ovunque, prati incolti. Dove finisce lo sguardo, scorre il fiume Sana.

È fuggita dalla guerra in Siria un anno e mezzo fa per risalire con i tre figli attraverso la Turchia poi la Grecia, l’Albania fino alla Bosnia e poi a Ključ, dove la polizia l’ha identificata e respinta a piedi fino a Velečevo. Ora è qui, nel nulla di un cortile polveroso e di un garage fatiscente. Il figlio minore di 15 anni cerca di consolarla. Le fa da padre, la rassicura. Gli altri due figli sui 18 e 20 anni, la osservano muti come fanno i grandi quando serrano il loro dolore nelle pieghe profonde del viso.

Fathma non ha più soldi. Ormai li ha finiti pagando i trafficanti durante quest’anno e mezzo in cui è in cammino. La sua disperazione silenziosa è l’immagine concreta della disumanizzazione dei ‘nostri’ confini.

Il “game”

Li vediamo partire tutte le sere per il game. Mohammed e i suoi compagni li conosciamo, stavano al Bira e ci hanno lasciato con un InshAllah; prima, però, ci hanno chiesto di pregare per loro. Li abbiamo visti prepararsi dietro un muretto della stazione degli autobus. Non hanno granché: sacchetti di plastica e qualche coperta. Solo uno di loro porta lo zaino in spalle. Nei giorni seguenti li abbiamo immaginati durante le fredde notti dei boschi della Croazia con le coperte incrostate di gelo e i piedi fradici di neve e acqua. Erano giunti a due passi dall’Italia ma poi, improvvisa, la cattura, il respingimento illegale, l’inaccettabilità della richiesta di asilo, la consegna ai poliziotti croati. Poi il ritorno al punto di partenza, a Bihac, al Bira camp. Faceva buio e freddo quando erano giunti di nuovo a Bihac. Ormai erano passati troppi giorni e non avevano più il tesserino per entrare. “All night sleeping outside Bihac camp. Mom , heare it’s very cold”. Esclusi dallo spazio ed esclusi dal tempo, per una volta ancora erano resi inesistenti. Quella notte né loro hanno dormito, né noi siamo riusciti a dimenticarli, anche se il sonno ci ha dato una tregua

Storia di Alì

ALÌ aveva attraversato la Croazia ed era arrivato a Trieste. Salito su un treno verso l’improbabile meta che lo avrebbe portato in Germania dove era vissuto per 6 anni, era stato pizzicato senza biglietto. La polizia italiana, considerandolo un “indesiderato”, lo aveva consegnato allo Slovenia. La Slovenia lo aveva deportato in Croazia. La Croazia – sempre da quanto dichiara ALÌ nel video in cui è stato ripreso da un operatore iraniano il 10 febbraio – l’aveva respinto a sua volta verso la Bosnia.
Non è stato tuttavia un semplice push back.

Alì, stanco e sofferente, nel video lamenta che la polizia croata lo ha costretto a togliere scarpe e calze e a camminare indietro fra il gelo e la neve1 dei boschi.
A Kladusa Alì era giunto con tutte le dita dei piedi congelati.

Al Bira camp dove eravamo arrivati il primo pomeriggio per incontrarlo, nonostante il permesso per entrare, qualche marchingegno non ha funzionato. Procedure e sistemi di sicurezza ci sono stati avversi. Nulla da fare, due ore di attesa in piedi sorvegliati a vista da due operatori non aveva sbloccato la situazione. Tuttavia!

Tuttavia Alì desiderava raccontarmi la sua storia e mi aveva inviato il suo documento come prova di fiducia. Da giorni rifiutava ogni cura e non accettava di essere amputato, anche se la gangrena lo stava attaccando inesorabilmente. La sua mente tuttora gli impedisce di accettare la realtà e la sua psiche lo protegge chiudendolo in un bozzolo. Le foto che arrivano dagli amici ci mostrano, ancora oggi, la progressione del male che lo divora. L’immagine più emblematica lo ritrae completamente avvolto dentro una coperta rossa della mezza luna turca con i piedi che sporgono, seduto sul pavimento in fondo ad un letto. Le dita sembrano dipinte di nero. Dal nostro rientro in Italia, Alì giace dentro quel container con i pezzi di carne secca che si staccano dai suoi piedi e imbrattano il lenzuolo mischiandosi a frammenti di cibo e croste di pane.

Il nostro contributo (22-23-24-25 febbraio 2019)

Il nostro contributo, come volontari indipendenti, si basa sulla raccolta fondi attraverso una rete pubblica di donatori.

Grazie alle donazioni di molte persone, con la raccolta attuale abbiamo raggiunto la somma di 5.080,75. Essendo mutato il contesto nel Cantone Una Sana, per noi è stato molto importante saperci orientare riguardo ai Soggetti cui destinare le donazioni. In Bosnia è ormai sempre più difficile operare, per cui è essenziale orientare gli aiuti in modo che non vadano dispersi o non diventino oggetto di scambio al mercato nero.

A Kladusa, No Name Kitchen è, per ora, chiusa; SOS team Kladusa (associazione non registrata) è in carenza di volontari ed ha visto il rientro a casa di una volontaria, mentre ad un’altra è stato dato il foglio di via.

A Bihac la gestione della migrazione afferisce allo IOM che è finanziato con fondi europei mentre, tra le Ong, solo IPSIA è accreditata all’interno del campo Bira.
A chi dunque destinare i fondi o in chi riporre la nostra fiducia? Una fiducia che questi mesi di esperienza ci hanno insegnato a legare alla verifica di progetti e situazioni.

Entrando nel Bira camp di Bihac già venerdì 22 febbraio, ci siamo confermati della validità dell’angolo di socializzazione del thé e nell’estensione del progetto di uno spazio collettivo per cucinare. I casi vulnerabili, oltre a quelli già a noi noti, sono molti e diversi: dalle incidenze tumorali (soprattutto femminili) alle complicazioni da traumi o ferite. Per questo motivo non abbiamo avuto dubbi a destinare una certa somma all’IPSIA per le cure dei casi vulnerabili non coperti da assistenza IOM (i due casi del ragazzino F di 13 anni operato ai polmoni e quello del ragazzo cui dovrebbe essere effettuato un trapianto di pelle, sono già noti).

A Kladuša, sabato 23 febbraio, siamo stati testimoni dello sconvolgimento fra i profughi causato dalle deportazioni interne. Decine e decine di ragazzi spaventati e impauriti erano fuggiti dal campo ufficiale Miral e partivano per il “game” in condizioni disastrose: scarpe da ginnastica, sacchetti di plastica al posto di zaini, nessun sacco a pelo. Abbiamo “lavorato in strada” e distribuito 22 paia di scarpe, altre 12 sono state consegnate a un volontario di Opet Bosna, operativo in SOS team Kladusa.

Sempre a Kladuša, abbiamo consegnato a una volontaria, nota per il suo grande impegno nei confronti dei rifugiati, un buono alimentare consistente.

Anche la situazione di Ključ non ci poteva sfuggire date le deportazioni interne. Verificando le gravi condizioni in cui versavano 15 profughi fra cui una donna siriana con 3 figli, abbiamo destinato parte delle donazioni alla volontaria locale che si occupa dei profughi.

Abbiamo inoltre consegnato 3 cellulari a rifugiati respinti dal game con il telefono fracassato: due a Bihac e uno a Kladuša. Tutte le spese sono rendicontate nella relazione e a disposizione dei donatori assieme alle relative ricevute

N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi, comprensive di vitto, alloggio, carburante, sono sempre state a nostro carico.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".