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La tragedia di Cona tra fallimento dell’accoglienza e speculazione politica

Photo credit: Tommaso Gandini, #overthefortress

In Italia, ogniqualvolta ci troviamo di fronte a tragedie che riguardano le migrazioni e che hanno come vittime i migranti, ci troviamo di fronte al solito duplice schema di reazioni. Da un lato c’è chi, come il leader della Lega Nord Salvini, mette in moto lo sciacallaggio razzista inneggiando ad «espulsioni di massa». Un atteggiamento odioso di per sé, ma alimentato dalla lettura mainstream dei fatti di cronaca che, nel caso della morte di Sandrine Bakayoko e delle successive proteste dei migranti concentrati a Cona, ha immediatamente enfatizzato il dato della “rivolta”, dando risalto ad elementi di ordine pubblico e mettendo in secondo piano, o a volte sottacendo, la morte della ragazza ivoriana. Dall’altro lato c’è chi, soprattutto all’interno della cosiddetta “sinistra”, prosegue ad interpretare i fatti con il metro della pietas cristiana, non lasciando spazio a tutte le contraddizioni che episodi come quello di Sandrine mettono in luce.

L’autopsia ha reso noto il fatto che Sandrine sia morta per una tromboembolia polmonare bilaterale fulminante, le cui cause sono ancora da accertare. Al di là dei risultati dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, che a caldo ha soffiato sul fuoco dichiarando che «non si possono escludere infiltrazioni terroristiche a Cona», va messo in luce che la morte di Sandrine va contestualizzata rispetto alle condizioni di vita indegne che i migranti vivono a Cona ed in altri centri. È dunque l’ennesimo evento luttuoso legato ad una gestione dell’accoglienza da sempre imbrigliata nella dialettica tra business delle cooperative appaltatrici e logica politica emergenziale.

Che le condizioni del centro di Cona fossero da tempo oltre il limite della sopportazione umana lo denunciava già un report fatto da Melting Pot e LasciateCIEntrare lo scorso 10 giugno. Allora vivevano nei recinti in mezzo al nulla della campagna veneziana 620 persone; alla fine del 2016 i numeri sembravano più che raddoppiati, anche se non è facile fare delle stime certe. Questi dati la dicono lunga sulla vera matrice dell’episodio.

La morte di Sandrine avviene, inoltre, in un momento in cui il dibattito politico italiano sul tema migratorio si sta orientando verso posizioni più restrittive, soprattutto in seguito all’attentato di Berlino ed alla paventata “svolta di ferro” della Merkel. Mentre continuano gli sbarchi – o meglio le operazioni di recupero in mare aperto – e le strutture di “prima accoglienza” sono al collasso, monta infatti la polemica attorno alla linea dura contro i migranti irregolari indicata dalla circolare diramata dal neo-ministro agli Interni Minniti congiuntamente al (vecchio) capo della Polizia, Franco Gabrielli. Oggetto della polemica non è la politica di accoglienza, attraverso la concessione dello status di rifugiato politico o di protezione umanitaria, né tanto meno le condizioni materiali in cui sono costrette a vivere per un tempo non quantificabile le migliaia di richiedenti asilo in attesa del verdetto delle Commissioni Territoriali di valutazione.
No, la scena politica è occupata dall’indicazione del Ministro degli Interni di ripristinare i CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, istituendone uno per Regione.

Il nuovo Governo deve segnare una discontinuità rispetto al precedente, tanto in politica interna quanto sul piano delle relazioni internazionali, ed il “giro di vite” sulle espulsioni dei migranti “irregolari” è la carta buona da giocare su entrambi i tavoli. Il ritrovato protagonismo del sistema di accoglienza e dei CIE nel discorso pubblico fa emergere anche altri due elementi: il ruolo delle amministrazioni comunali e la lotta per la successione di Renzi alla segreteria del PD.

Il fallimento dello schema di “accoglienza” implementato dal governo Renzi è palese, ciò che continua ad essere ignorato è la fallacia dell’ approccio emergenziale di fronte ad un fenomeno chiaramente strutturale. Il flusso migratorio che attraversa il Mediterraneo è iniziato nel 2011, i numeri dei migranti in partenza dall’altra sponda del mare sostanzialmente invariati da sei anni dovrebbero indurre a considerarlo ormai stabile e di conseguenza adottare misure pensate per mantenere efficacia a lungo termine.

Così non è, e sono i nomi stessi di programmi e strutture a tradire l’equivoco. Nei piani ministeriali esiste un programma di ricollocazione dei migranti richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale. Nella realtà, l’ossatura è costituita dai CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, che sono divenuti in poco più di un anno la regola, la normalità. Così come si è fatta consuetudine la loro collocazione in strutture militari dismesse poste in aperta campagna, in un tessuto di paesini di poche migliaia di residenti. Luoghi dove stazionano migliaia di persone in violazione delle più elementari norme di igiene e forse sicurezza: tendopoli sature di letti a castello, dove il tempo trascorre tra escrementi ed avanzi di cibo avariato. Luoghi dove non si entra, ma da dove i migranti possono uscire e raccontare o diffondere agghiaccianti video come nel caso della struttura di Cona. Affidati in gestione a società cooperative solo nella ragione sociale e molto spesso dedite ad attività di altro tipo, nella realtà i CAS sono mere occasioni di speculazione finanziaria. Basti un accenno alle vicende di Mafia Capitale per chiudere ora questo argomento. Questi centri dovrebbero essere “temporanei“, ospitare i migranti nel tempo necessario affinché sia istruita la domanda di richiesta di asilo ed avvenga il colloquio con la commissione di valutazione. Questo tempo in media è di un anno, durante il quale dovrebbero essere proposti alle persone in attesa programmi di sostegno, affiancamento ed inclusione nel tessuto sociale. Ma va da sé, nessun gestore di strutture “temporanee” dedica risorse per programmi a medio termine: il vero modello realizzato è l’assistenzialismo puro, e fatto male.

Ciò che qui ci preme sottolineare è lo stretto legame tra il proliferare di queste strutture sovraffollate e l’arroccamento ideologico dei sindaci reazionari che si rifiutano di dare corpo al piano di ricollocazione dei migranti in tutta Italia. Un esempio per tutti: il Veneto a trazione leghista vede due comuni su tre rifiutarsi di aderire al piano ministeriale. Del resto, i costi del piano di ricollocazione ricadono sulle amministrazioni locali ed i sindaci che debbono obbedire al patto di stabilità hanno giuoco facile di fronte al Governo nel contrapporre gli interessi dei cittadini-elettori a quelli dei migranti da accogliere. Le Prefetture dunque restano col cerino in mano e la soluzione più immediata è il riutilizzo del patrimonio dismesso del demanio militare. Così lo stesso comune che ha rifiutato di accogliere una decina di migranti si ritrova mille e più persone con una decisione inappellabile calata dall’alto. La situazione insomma rischia di sfuggire di mano, a tutto vantaggio della speculazione politica delle organizzazioni della destra estrema, che cavalcano un desiderio securitario sempre più esplicito, alimentato dai timori di azioni terroristiche. Si apre un problema per un Governo che deve comunque parare i colpi di Salvini: togliergli il mantra delle “espulsioni dei clandestini” significa depotenziare una delle più potenti armi retoriche di cui è solito fare uso.

L’equivoco di fondo, dicevamo, sta nel ritenere un’anomalia lo sbarco di centinaia di migliaia di persone ogni anno sulle coste italiane, nel non capire come le spiagge italiane siano, viste dall’ Africa, nulla più che l’approdo in un Continente dove le condizioni di vita sono migliori. Certo, la gestione dei migranti non deve essere affare esclusivo dello Stato di frontiera esterna dell’UE: ma qui scoperchiamo un altro vaso di Pandora, che va ben oltre l’inefficacia della strategia di Renzi, il quale buttava sul tavolo delle trattative economiche in sede UE la solitudine dell’Italia nel gestire “la crisi migratoria“. A mostrare la corda è l’intero progetto di unificazione politica continentale. Dal punto di vista delle politiche migratorie, sembra che la sola cosa che accomuna i 27 Stati UE sia l’avere una frontiera comune, un perimetro esterno, un modo per tenere lontani nuovi poveri da economie che arrancano. Non c’è, a Bruxelles, una vera politica comune rispetto alle migrazioni: gli accordi di Dublino sono inapplicati, la loro revisione è urgente, puntualmente in agenda ad ogni Consiglio Europeo ed altrettanto puntualmente rinviata. Quanto all’accordo di Schengen, si va di sospensiva in sospensiva per gli Stati del Nord Europa: insomma, stanno a poco a poco ritornando visibili le frontiere interne. Dal settembre 2015 il “corretto funzionamento” della libera circolazione dentro l’UE viene assoggettato alla «gestione efficace delle frontiere esterne».

Ogni Stato si muove sullo scenario geopolitico globale come attore singolo, solo la dichiarazione congiunta UE-Turchia del 18 marzo 2016 ha visto una sola voce levarsi dai Governi nell’attribuire alla Turchia il ruolo di gendarme esterno alle frontiere comunitarie. L’urgenza era dettata dalla necessità di bloccare la rotta balcanica. I rimpatri sono oggetto di accordi bilaterali tra Stati, e vale la pena di ricordare l’esperienza acquisita dal Gentiloni ministro degli Affari Esteri: pochi giorni prima di lasciare la Farnesina per Palazzo Chigi ha compiuto una visita in Niger, Mali e Senegal, allo scopo di «ridurre la pressione migratoria sul Mediterraneo Centrale». Dieci giorni prima a Roma incontrava il presidente del maggior partito di governo tunisino, al quale confermava «il determinato sostegno dell’Italia, sul piano bilaterale ed europeo».

Nella visione di Gentiloni Migration Compact e cooperazione internazionale sono indissolubili: ecco come l’impraticabilità di una “accoglienza europea” apre le porte ad un altro schema di relazioni internazionali, che mescolano migranti e commesse industriali realizzate da aziende controllate o partecipate dal Governo, basti come esempio un elettrodotto euro-mediterraneo dal Maghreb all’Italia che attraversa la Tunisia.

Insomma Gentiloni intende fare un uso politico della questione migratoria molto diverso da quanto fatto da Renzi: non più elemento di contrattazione tra Italia ed UE, ma pedina da muovere nello scacchiere euro-mediterraneo, dove l’Italia gioca la sua partita come player indipendente.
Rimettere in campo i CIE e le espulsioni dunque è funzionale all’ apertura di trattative bilaterali con gli Stati di provenienza dei migranti, con i quali sottoscrivere accordi di sviluppo industriale: «aiutiamoli a casa loro», e facendo pure buoni affari. In questo il governo guidato da Gentiloni potrebbe avere una caratura inaspettata, taciuta nella cronaca politica mainstream.

C’è un ultimo aspetto su cui non possiamo fare a meno di porre l’attenzione, sebbene non ci appassioni affatto. Sul terreno dell’accoglienza e delle politiche migratorie si sta iniziando la battaglia per la successione a Renzi alla guida del PD. Non ci soffermeremo sull’ipocrisia di funzionari di partito che forse nemmeno hanno mai visitato una struttura di “accoglienza” o assistito ad una operazione di salvataggio in mare, eppure esibiscono vergogna a comando o si vantano della millenaria tradizione di accoglienza degli Italiani. Le manovre, piccole e grandi, sono già iniziate, e la macchina micidiale dell’infotainment televisivo inizia a proporre dibattiti dove improvvisamente l’ospite presentato come «candidato alla segreteria PD» sciorina soluzioni e prospettive immediatamente attuabili. Tutte basate, guarda caso, sulla separazione tra “rifugiati” e “clandestini“, tutte giocate sul filo delle definizioni formali. Nessuno che ponga come punto di partenza la materialità inoppugnabile: ci sono duecentomila esseri umani che etichettiamo come “migranti” o “profughi“; esistono ed interagiscono con i “residenti” nelle città, nei paesini di campagna. Ci sono centinaia di migliaia, forse un milione di persone sulla sponda africana del mediterraneo, disposte a rischiare la vita nella traversata verso l’Europa.

Sulla loro pelle continua inarrestabile un vergognoso teatro di dichiarazioni, proclami e ospitate in tv. Simmetricamente, nella pancia del Belpaese si sta sviluppando una reazione pericolosissima contro la loro stessa esistenza, montata a neve dalle bordate di pura retorica esibita in tv. Secondo Minniti, le migrazioni stanno innescando «un problema di ordine pubblico, che mette a prova la tenuta del tessuto democratico del Paese». Ebbene, è ora di prendere posizione ed affermare con forza che sono proprio dichiarazioni come queste a fomentare odio nella società e distrarre l’attenzione dall’analisi delle dinamiche globali di cui il flusso migratorio in Italia è solo una piccola parte.

La morte di Sandrine ci impone di dire la verità sui migranti e di agire di conseguenza: perché non ci siano mai più dispersi in mare, perché non ci siano mai più strutture d’emergenza degradate e avvilenti, perché l’accoglienza sia fatta nei territori mettendo in relazione i migranti con gli abitanti in quanto stessi cittadini di un territorio.