Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sentenza Tribunale di Imperia del 12 settembre 2006

Assunzione nel pubblico impiego di cittadina extracomunitaria

Ringraziamo l’Avv. Roberto Faure di Genova per la segnalazione e l’invio del materiale.

Continua l’assunzione di cittadini non comunitari nel pubblico impiego in forza di provvedimenti del Tribunale. Nel caso specifico si tratta di una assunzione avvenuta a Imperia, presso la ASL, di una cittadina del Camerun che già lavorava nella stessa sede tramite una agenzia di lavoro interinale. Il lavoro resta ovviamente lo stesso, cambia radicalmente lo “status”; un’altra vicenda che manifesta come lavoratori uguali siano trattati in modo diverso, per creare divisione e subordinazione che nei fatti non ha ragione di esistere.

Tribunale di Imperia

A*** B***

ricorrente

Contro

USL 1 Imperiese

convenuta

Il Giudice, a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 896, osserva:
in primo luogo appare opportuno chiarire che gli art. 43 e 44 D. L.gs. 28698 non richiedono che il comportamento da reprimere sia assistito da un intento discriminatorio fondato sulle ragioni ivi previste.
Ciò equivale a dire che nel caso di specie è indifferente che l’agire della p.a. sia stato eventualmente improntato a motivi di razzismo o nazionalismo, cosa che, peraltro, oltre a non essere stata affermata dalla ricorrente, non è in alcun modo dato rilevare.
L’odierna azione, infatti, può essere intrapresa in presenza della mera produzione d’un effetto discriminatorio (tant’è che l’art. 44 adopera il termine “produce”), ossia d’un dato oggettivo in base al quale ad una persona straniera sia stato precluso l’accesso ad un determinato servizio, attività o, comunque, ad un bene della vita a cagione d’un atto o comportamento posto in essere da un soggetto pubblico o privato.
Parimenti non può essere condiviso l’argomento dell’ente resistente secondo cui la pretesa discriminazione sarebbe fondata in ragione della diversa cittadinanza, ipotesi, come tale, non contemplata dalla norma che prenderebbe in considerazione i soli motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
La tesi si basa sull’assunto che l’ASL non avrebbe attribuito alcuna rilevanza alla nazionalità della ricorrente, nell’accezione dell’appartenenza ad un determinato gruppo etnico o culturale, ma, come s’è detto, alla cittadinanza, ossia alla condizione giuridica costituita dal far parte d’uno stato diverso da quello italiano.
Il tenore della disposizione depone in senso contrario, posto che la stessa contempla sia il motivo “etnico”, ossia quello che secondo la resistente andrebbe ricondotto alla nazionalità, sia il motivo “nazionale”, distinguendolo, pertanto, dal primo.
E’ evidente che il concetto di nazionalità non può che coincidere con quello di cittadinanza.
Che poi l’azione possa essere intrapresa nei confronti della p.a. soltanto allorché venga in rilievo un mero comportamento materiale e non anche un atto espressione di potestà pubblica, è intepretazione smentita sia dal richiamo al termine “atto” o “atti” contenuto nell’art. 43 e riferito ai p.u. ed agli impiegati di pubblico servizio, sia dallo stesso art. 44 laddove si ripete il termine in questione, riferendolo al datore di lavoro (peraltro senza distinzione del suo status).
Nel venire all’esame del corpus normativo involto dalle questioni trattate si ritiene si confermare integralmente le argomentazioni già svolte nel decreto.
In primo luogo si evidenzia che la persistente “disparità di trattamento” nell’accesso al pubblico impiego, ossia l’insussistenza d’una integrale equiparazione dello straniero regolarmente soggiornante al cittadino italiano o comunitario, è sancita dagli art. 27 D. Lgs. 28698 e (implicitamente) dall’art. 38 marzo 2001, n. 165 e risulta ragionevole (come tale conforme all’art. 3 della Costituzione), poiché attiene ai soli posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale.
Tuttavia non è questo il presente caso, posto che si controverte in ordine alla figura dell’operatore sociosanitario, ossia ad un’attività per il cui esercizio nessuna normativa richiede espressamente la cittadinanza italiana.
Non l’art. 2 D.P.R. 4871994, poiché è condivisibile l’opinione già espressa da numerosi Tribunali secondo cui la detta disposizione è stata abrogata implicitamente.
Come illustrato dalla stessa difesa dell’ASL, l’ipotesi d’un abrogazione implicita, espressamente prevista dall’art. 15 preleggi, è configurabile quando due (o più) diverse disposizioni disciplinano in termini confliggenti la stessa materia o lo stesso caso, si da potersi legittimamente concludere che la disposizione successiva superi, abolendola, la pregressa.
Nel caso di specie la normativa abrogante è costituta dall’art. 3 D. Lgs. 28698, nella parte in cui che riconosce allo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato i medesimi diritti in materia civile attribuiti al cittadino e dall’art. 27 marzo 2001, n. 220 che, nel concretizzare il principio in questione nell’abito del pubblico impiego, consente la partecipazione ai concorsi a coloro che possiedono la cittadinanza italiana o di uno dei Paesi dell’Unione europea, “salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti”.
Nella clausola di salvezza in questione va, pertanto, ricompreso lo status dello straniero non comunitario regolarmente soggiornante, quale è la B***., poiché equiparata proprio dall’art D. Lgs. 28698.
Conferma di ciò si ricava sia dalla previsione del relativo comma 4 in base al quale “lo straniero regolarmente soggiornante partecipa alla vita pubblica locale”, sia dall’art. 43, che, nel riferirsi ai soggetti potenzialmente discriminabili, non opera alcuna limitazione d’appartenenza degli stessi alla UE, li tutela in “in ogni altro settore della vita pubblica”, espressione, questa, così lata da abbracciare anche il lavoro pubblico.
Né, come s’è detto gli art. 43 e 44 contengono alcuna espressa esclusione della tutela dall’ambito del pubblico impiego.
In senso contrario al ragionamento che si espone non è suscettibile di giocare alcun ruolo il tenore dell’art. 38 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il quale, nell’assicurare ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea l’accesso ai posti di lavoro pubblici che non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attinenti alla tutela dell’interesse nazionale, parrebbe aver omesso di prevedere analogo diritto per qualsiasi straniero non comunitario.
La tesi della svista del Legislatore, ossia d’un difettoso coordinamento tra la normativa esaminata in precedenza e il succitato art. 38 che avrebbe fatto rivivere il dettato dell’ormai abrogato l’art. 2 D.P.R. 4871994, è stata sostenuta da numerose pronunce, apparendo come l’unica interpretazione in grado di conferire un senso univoco a disposizioni contraddittorie.
A voler ragionare diversamente l’art. 38 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 andrebbe sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale e ben difficilmente si sottrarrebbe alle relative censure, stante la palese irragionevolezza del disposto.
Invero apparirebbe ben incongruo che il legislatore dopo aver intrapreso un processo di positivizzazione di principi costituenti espressione dei valori di solidarietà ed eguaglianza consacrati nella Costituzione e nelle convenzioni internazionali, principi tra i quali v’è anche il progressivo avvicinamento tra lo status del cittadino italiano e quello dello straniero anche nella vita pubblica, abbia soltanto 3 giorni dopo l’emanazione del D.P.R. 27 marzo 2001, n. 220 (il D. Lgs. n. 165 è del 30 marzo 2001), operato un improvviso revirement, creando un corpus normativo intrinsecamente contraddittorio.
Peraltro, a ben vedere la rilevata insanabile inconciliabilità tra le due suddette normative pare, in realtà, non essere tale, in quanto l’art. 38 appare dettato al fine di disciplinare esclusivamente l’accesso al pubblico impiego dei cittadini degli Stati membri della Unione europea, nulla, pertanto, prevedendo (e, pertanto, nulla escludendo) per quanto attiene ai requisiti dei cittadini degli stati extracomunitari, e, nel far ciò, non pone alcuna una disciplina particolare circa le condizioni dell’impiego dei primi, (ossia a richiedere una serie di requisiti in termini, per così dire, prescrittivi, contenuti invece nell’art. 2 del D.P.R. 48794), limitandosi ad una prescrizione di segno negativo, facendo divieto agli stranieri comunitari di rivestire incarichi involgenti l’esercizio di pubblici poteri.
Un simile disposto, la cui ratio sembra risiedere nell’esigenza di puntualizzare che il cittadino italiano e quello europeo non possono essere totalmente equiparati qualora venga in rilievo un pubblico interesse particolarmente pregnante, non implica affatto la conclusione per cui ai cittadini extracomunitari, oltre ad essere precluso l’esercizio pubbliche potestà, sarebbe impedito in via assoluta l’accesso ai posti pubblici.
In buona sostanza non è dato comprendere la ragione per cui la parola “soli”, implicitamente compresa nel disposto, debba essere riferita ai cittadini dell’UE e non invece, come suggerisce l’interpretazione che consente di comporre l’apparente conflitto normativo, ai posti di lavoro enumerati nella disposizione.
Parimenti a nulla rileva il disposto dell’art. 3 D.p.c.m. 7 febbraio 1994, n. 174 il, quale, risale ad un epoca in cui non era stata ancora introdotta l’equiparazione di cui si discute, si limita a richiedere ai cittadini comunitari alcuni, così come ininfluente è la previsione degli arti 1 e 2, i quali si riferiscono a posti di lavoro delle amministrazioni pubbliche implicanti l’esercizio di attribuzioni e poteri estranei all’attività lavorativa alla quale la ricorrente aspira ed in relazione ai quali vige il divieto sancito dall’art. 38 marzo 2001, n. 165.
Il decreto reso il 1776 va, pertanto, confermato.
Deve, invece, disattendersi la domanda risarcitoria formulata dalla B*** ai sensi del comma 7, l’art. 44 D. Lgs. 18698.
In primo luogo pare utile puntualizzare che il risarcimento non consegue automaticamente all’accertamento ed alla repressione dell’atto discriminatorio; la norma recita: “il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale”, il che significa che la pretesa è accoglibile allorché sussistano i presupposti richiesti dai principi generali vigenti nel campo della responsabilità aquilana.
Per ciò che attiene al pregiudizio patrimoniale la ricorrente nulla ha allegato e provato.
Quanto al danno non patrimoniale, si evidenzia che il carattere della novità rivestito dalla norma al tempo della sua emanazione, riconoscendo il ristoro del danno in questione anche nel caso in cui il fatto discriminatorio non concreti un reato, è venuta meno in seguito al mutamento dell’orientamento della Suprema Corte (si vedano in particolare Cass. n. 8827, 8828 e 12124 del 2003).
Al tempo attuale, pertanto, il danno non patrimoniale è sempre risarcibile in presenza della lesione d’uno dei diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Orbene, nel caso di specie non è dato ravvisare la commissione d’alcun illecito penale nell’emanazione del provvedimento d’esclusione della B***, non apprezzandosi alcuna strumentalizzazione dei pubblici poteri nel senso richiesto dall’art. 323 c.p., atteso che la decisione è stata presa sulla base d’un ragionamento tecnico-giuridico non condivisibile, ma non certo abnorme o pretestuoso, né connotato da un intento lesivo o di vantaggio personale.
Tantomeno, per le dette ragioni, sono riscontrabili nell’emanazione del provvedimento, modi, forme o, comunque, aspetti tali da connotare l’atto dei caratteri dell’offensività per l’onore eo il decoro della persona della lavoratrice.
Neppure, infine, è dato riscontrare la produzione del cd. danno esistenziale, ossia la verificazione d’uno stato di frustrazione, d’un turbamento dotato d’una apprezzabile intensità e persistenza, insorto nella ricorrente o, in ogni caso, d’un mutamento in peius d’uno qualsiasi degli aspetti della sua esistenza, la quale, a cagione dell’estromissione dalla graduatoria, possa dirsi che non sia, o non lo sia stata temporaneamente, la stessa.
Un simile pregiudizio, infatti, non può ritenersi sussistente, per così dire, in re ipsa, ossia indefettibilmente ricollegato al comportamento tenuto dall’ASL, ma avrebbe dovuto essere puntualmente allegato e descritto nei suoi caratteri, atteso che la reazione di colui che viene ingiustamente escluso dall’accesso al lavoro, può essere la più diversa, dipendendo dal contesto personale e relazionale in cui il fatto dannoso s’inserisce.
L’assenza d’un danno ingiusto rende, pertanto, superflua la disamina del carattere colposo o doloso del comportamento represso.
La soccombenza della ricorrente induce a compensare per 13 le spese di lite, ponendosi i residui 23 a carico dell’amministrazione resistente.

P.Q.M.

Conferma il decreto emesso in data.
Rigetta la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno
compensa per 13 le spese di giudizio, ponendo il residuo a carico della ASL 1 Imperiese, che si liquida in complessivi €. 750,00 di cui 450, 00 per onorari, oltre al 12,5 % per spese generali, IVA e CPA, come da legge.

Imperia
1296

Il Giudice
Dott. Fabio Favalli