Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sentenza del Tribunale di Pistoia

Assegno sociale

TRIBUNALE DI PISTOIA
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Pistoia, sezione lavoro, in persona del dott. Giuseppe De Marzo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in primo grado, iscritta al n. 532/2005 del Ruolo della Sezione controversie di lavoro

TRA
Nataliya Ksendzovska, con l’avv. Daniela Breschi
Ricorrente
E
INPS, con l’avv. Massimiliano Minicucci
Resistente

OGGETTO: Assegno sociale

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 26 maggio 2005, Nataliya Ksendzovska, premesso: di essere regolarmente soggiornante in Italia dal 16 febbraio 2001, data in cui aveva operato il ricongiungimento familiare con il figlio Mikhail Ksendzovsky; che l’INPS aveva respinto la domanda con la quale ella aveva chiesto l’attribuzione dell’assegno sociale maggiorato; che l’art. 80, comma 19 della l. 388/2000, nella parte in cui condiziona alla titolarità della carta di soggiorno la fruizione dell’assegno sociale e delle provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi, deve essere disapplicato per contrasto con l’art. 1 del regolamento CE 859/2003 del 14 maggio 2003, sia pure con riguardo al periodo successivo al 1° giugno 2003, ai sensi dell’art. 2 del medesimo regolamento; tutto ciò premesso, ha chiesto la condanna dell’INPS all’erogazione dell’assegno sociale maggiorato.
Nel costituirsi in giudizio, l’INPS ha contestato il fondamento della domanda.
All’udienza di discussione la causa è stata decisa come da separato dispositivo

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’art. 80, comma 19 della l. 23 dicembre 2000, n. 388 dispone: Ai sensi dell’articolo 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi, alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno; per le altre prestazioni e servizi sociali l’equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Sono fatte salve le disposizioni previste dal decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, e dagli articoli 65 e 66 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modificazioni.
L’art. 41 d. lgs. 286/1998, dal canto suo, dispone che gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti.
Il raccordo tra le due norme rende palese che la finalità perseguita dal legislatore è stata quella di innovare il quadro normativo previgente, riducendo la platea dei beneficiari delle prestazioni assistenziali e limitandola ai soli titolari di carta di soggiorno.
Alcuni giudici di merito (v. Trib. Verona 22 maggio 2006) hanno optato per un’interpretazione dell’art. 80, comma 19 cit., che ne restringe la portata alle sole prestazioni erogate nell’ambito di servizi sociali gestiti localmente dagli enti comunali e preordinati allo sviluppo economico e civile della comunità territoriale, che incidono negli ambiti scolastici, di quartiere e territoriali. Tale lettura, però, non appare convincente, perché introduce una distinzione non prevista dalla norma (la quale piuttosto valorizza la consistenza della posizione soggettiva riconosciuta allo straniero) e comunque non coerente con l’espressa menzione dell’assegno sociale, che certo non rientra nel quadro dei servizi sociali locali.
Peraltro, nel caso di specie, proprio dell’attribuzione dell’assegno sociale si tratta. E con riferimento a tale provvidenza, la stessa S.C. ha chiarito che l’art. 80, comma 19 cit. non ha efficacia retroattiva, con ciò implicitamente riconoscendo che i presupposti della misura in esame devono, per il futuro, ritenersi integrati dal requisito della titolarità della carta di soggiorno (Cass. 20 gennaio 2005, n. 1117).
Ciò posto, deve del pari escludersi che la disapplicazione della norma sia imposta dal regolamento CE n. 859/2003 del 14 maggio 2003.
In effetti, l’art. 1 del regolamento citato condiziona l’estensione delle previsioni dei regolamenti CEE 1408/71 e 574/72 ai cittadini di paesi terzi e ai loro familiari e superstiti al soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro e alla presenza di una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all’interno dello Stato medesimo.
La portata della previsione è chiarita dal dodicesimo considerando, in cui si ribadisce che non opera l’estensione quando la situazione di un cittadino di un paese terzo presenta unicamente legami con un paese terzo e uno Stato membro.
Il limitato risultato pratico conseguito attraverso tale interpretazione non può condurre ad ignorare l’univoco dettato normativo.
La domanda piuttosto appare meritevole di accoglimento, alla luce di considerazioni fondate sul rilievo diretto e prevalente che le norme internazionali spiegano a seguito del loro recepimento nell’ordinamento interno.
In particolare, viene in questione la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali (CEDU), resa esecutiva in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 14 CEDU dispone che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza alcuna discriminazione. E fra le ragioni discriminanti esemplificativamente previste dall’art. 14 cit. v’è proprio quella fondata sull’origine nazionale.
L’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto dei suoi beni. La Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata ad occuparsi dell’ambito oggettivo di operatività dell’art. 1 del Protocollo, ha, tuttavia, incluso senza esitazioni tra i diritti patrimoniali anche le prestazioni sociali, ivi incluse quelle di tipo non contributivo [si veda, in particolare, a coronamento di un’evoluzione iniziata nel 1996 con la sentenza resa nel caso Gaygusuz c. Austria (ricorso n. 17371/90), la sentenza del 30 settembre 2003, resa nel caso Koua Poirrez c. Francia (ricorso n. 40892/1998]. Proprio la sentenza appena citata ha riconosciuto che tali diritti soggiacciono al divieto di discriminazione su base esclusivamente nazionale e in assenza di giustificazioni – nella specie del tutto assenti – obiettive e ragionevoli.
In giurisprudenza è stato affermato (v., ad es., Cons. Stato, 9 aprile 2003, n. 1926/02) che, a differenza di quanto previsto nel Trattato CE (art. 244 e 256), nessuna norma della Convenzione europea rende le sentenze della Corte di Strasburgo direttamente eseguibili negli ordinamenti nazionali. In realtà, gli articoli richiamati riguardano l’efficacia esecutiva in relazione a provvedimenti da cui discende un obbligo pecuniario.
In effetti, la regola generale, secondo la quale i principi enunciati nelle decisioni della Corte di giustizia s’inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, assumendo valore di fonte del diritto e di jus superveniens (la regola enunciata da Corte cost. 23 aprile 1985, n. 113 è stata di recente ribadita da Corte cost. 20 aprile 2004, n. 125 e 14 marzo 2003, n. 62) trova il suo fondamento nell’esigenza di uniforme interpretazione del diritto comunitario nell’ambito territoriale definito dal Trattato, esigenza che si correla all’istituzione di una Corte chiamata ad assicurare il rispetto del diritto, nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato.
Ciò posto, senza pertanto ipotizzare una totale sovrapposizione tra problematiche legate all’applicazione del diritto comunitario e questioni poste dalle norme della Convenzione, è difficile sottrarsi all’idea che la medesima esigenza di certezza ed uniforme applicazione delle regole operi anche con riferimento alla Convenzione europea una volta che si considerino l’obbligo delle Alte Parti Contraenti di riconoscere ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo I della Convenzione stessa (art. 1 di quest’ultima), l’istituzione della corte europea, chiamata ad assicurare il rispetto degli impegni derivanti per gli Stati (ossia per tutti gli organi dello Stato, ivi inclusi i giudici) dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 19 della Convenzione), la competenza assegnata alla Corte, che si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione (art. 32 della Convenzione).
A fronte di tali indicazioni, si comprende che, per quanto generali possano essere le previsioni della Convenzione, esse sono destinate a divenire di stringente precettività a seguito delle puntualizzazioni interpretative della Corte europea.
A tal proposito, Cass. 19 luglio 2002, n. 10542 ha condivisibilmente puntualizzato che il “giudice nazionale, ove ravvisi un contrasto con la disciplina nazionale, è tenuto a dare prevalenza alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna” (nello stesso senso, si veda Cass. 11 giugno 2004, n. 11096). La vincolatività delle sentenze della Corte europea è stata ribadita di recente sia dalla giurisprudenza civile (v. Sez. Un. 23 dicembre 2005, n. 28507), sia la giurisprudenza penale (Cass., sez. I, 12 luglio 2006 – 3 ottobre 2006, n. 32678, Somogyi, la quale è giunta ad affermare che, in materia di violazione dei diritti umani il giudice nazionale italiano sia tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato; v. anche Cass, sez. I, 1° dicembre 2006 – 25 gennaio 2007, n. 2800, Dorigo).
Peraltro, se è vero che la norma di fonte internazionale, anche se non costituzionalizzata, gode pur sempre di una capacità di resistenza rispetto alla contraria previsione interna sopravvenuta (si veda, ad es., Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10, che ritiene trattarsi di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria. Agli stessi risultati, ma valorizzando il fatto che la norma internazionale è sorretta non solo e non tanto dalla volontà che certi rapporti siano regolati in un certo modo, quanto dalla volontà che gli obblighi internazionali siano rispettati, è giunta anche la dottrina), diviene consequenziale riconoscere che le indicazioni interpretative della Corte europea vincolano il giudice interno, senza che sussista alcuna necessità di sollecitare l’intervento della Consulta.
Tale risultato potrà anche essere raggiunto, valorizzando i parametri della legge fondamentale ed eventualmente sollecitandone una lettura conforme all’esegesi delle previsioni della Convenzione offerta dalla Corte. Tuttavia, esso rappresenta una mera eventualità che non elide in alcun modo il dovere del giudice di non dare applicazione alla norma nazionale che reputi (o che sia stata giudicata dalla Corte europea) contrastante con i dettami della Convenzione.
Va aggiunto che, in senso contrario, ossia nel senso della necessità di provocare il sindacato della Corte costituzionale non depone il novellato art. 117 Cost. Quest’ultimo oggi dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Tale norma, se per un verso, pare dissipare i dubbi sulla possibilità per il legislatore ordinario di sottrarsi ai vincoli internazionali manifestando la specifica volontà di disattendere l’obbligo pattizio, per altro verso, non appare dotata, anche per la specifica sedes, di alcuna efficacia innovativa quanto ai meccanismi di controllo della legittimità della norma interna. In particolare, l’accostamento delle norme costituzionali con quelle internazionali non rende necessario, in caso di ritenuto contrasto con queste ultime, lo scrutinio della Consulta. Se tale ricostruzione fosse esatta, ne dovrebbe discendere che, anche in caso di contrasto della disciplina con le norme comunitarie, occorrerebbe passare attraverso il filtro del giudice delle leggi, il che appare assolutamente contrastante con le acquisizioni raggiunte sul punto dalla stessa Corte costituzionale (Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170).
La ricostruzione appena operata dei rapporti tra corte di Strasburgo e giudici nazionali può creare disagio nella misura in cui, sviluppando potenzialità sinora poco avvertite persino nel rapporto con l’ordinamento comunitario, realizza un controllo polverizzato tra le corti di merito della legittimità delle leggi in un sistema caratterizzato dal sindacato centralizzato della Corte costituzionale. Tuttavia, essa appare consequenziale alla giuridicità del diritto internazionale quale si manifesta essenzialmente nella capacità degli operatori giuridici interni di dare concreta e stabile attuazione alle regole pattizie concordate dagli Stati.
In senso contrario rispetto a tale ricostruzione sono stati prospettati dalla S.C. con l’ordinanza 20 maggio 2006, n. 11887, i seguenti argomenti:
a) l’abrogazione della legge dello Stato si verifica nelle sole ipotesi di cui agli art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur quando quest’ultimo possa avvalersi dell’interpretazione del giudice internazionale; b)il giudice è soggetto soltanto alla legge, per cui ammettere un potere (o addirittura un obbligo) di disapplicazione significherebbe ammettere un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario che appare estranea al nostro sistema costituzionale; c) le norme della Convenzione europea sopra citata non possono ritenersi “comunitarizzate”, ossia assoggettate al medesimo regime che caratterizza le norme di derivazione comunitaria, in virtù del par. 2 dell’art. 6 del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in quanto il rispetto dei diritti fondamentali della Convenzione costituisce una direttiva per le istituzioni comunitarie, non una norma comunitaria rivolta agli stati membri; d) poiché anche le limitazioni della sovranità statale che consentono l’applicazione delle regole comunitarie incontrano i controlimiti rappresentati dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona umana, deve in ogni caso essere verificato il rispetto dei principi costituzionali.
Si tratta, tuttavia, di argomenti poco persuasivi, alla luce delle considerazioni sopra sviluppate, in quanto il potere diretto di disapplicazione è talmente poco contrastante con il nostro ordinamento da essere attribuito al giudice, in presenza di regole interne contrastanti con quelle comunitarie. Inoltre, non è dato ravvisare alcuna violazione, nelle regole CEDU che vengono in applicazione nel caso di specie, di principi fondamentali del nostro ordinamento. Se così fosse, occorrerebbe piuttosto prospettarsi il dubbio della legittimità della norma interna che ha previsto il recepimento della fonte internazionale contrastante con tali principi.
Deve, pertanto, in relazione alle suesposte considerazioni, ritenersi prevalente l’operatività del principio di cui all’art. 14 CEDU che vieta la discriminazione per ragioni di origine nazionale in ordine al godimento del diritto alle prestazioni assistenziali.
Esclusa quindi l’operatività dell’art. 80, comma 19 sopra citato, deve prendersi altresì atto che, ai sensi dell’art. 3, comma 6 della l. 8 agosto 1995, n. 335, con effetto dal 1° gennaio 1996, in luogo della pensione sociale e delle relative maggiorazioni, ai cittadini italiani, residenti in Italia, che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle condizioni reddituali indicate dalla medesima norma è corrisposto un assegno di base non reversibile fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per il 1996, a lire 6.240.000, denominato “assegno sociale”.
Ora, nella specie, le dichiarazioni prodotte dalla ricorrente attestano il possesso del requisito reddituale. La ricorrente è nata nel 1920, per cui sicuramente integrato è anche il requisito anagrafico. Ella inoltre risiede legalmente in Italia.
L’accoglimento della domanda è limitato al periodo anteriore alla data del riconoscimento in via amministrativa del trattamento richiesto, in ragione dell’avvenuto conseguimento della carta di soggiorno, ai sensi dell’art. 9, comma 2 d.lgs. 286/1998.
Le spese seguono la soccombenza. Tenuto conto della natura e del valore della controversia nonché delle questioni trattate, si liquidano come da dispositivo. Tenuto conto che la ricorrente è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, le competenze devono essere versate in favore dello Stato.

P.Q.M.

Il giudice, dott. Giuseppe De Marzo, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Nataliya Ksendzovska nei confronti dell’INPS, l’accoglie e, per l’effetto, condanna l’INPS al pagamento dell’assegno sociale maggiorato, con decorrenza dal 1° luglio 2004 sino alla data del riconoscimento in via amministrativa dello stesso trattamento (dicembre 2006), oltre interessi legali dalla maturazione dei singoli ratei sino al saldo, nonché al pagamento delle spese del processo, liquidate in euro 1.400,00 (euro 700,00 per diritti, euro 700,00 per onorari), oltre accessori di legge, da versare, ex art. 133 d.p.r. 115/2202 in favore dello Stato.

Pistoia, 23 marzo 2007