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Sentenza della Corte Costituzionale 8 – 21 luglio 2004 n. 257

Accertamento della conoscenza della lingua

**Consulta l’articolo di commento “L’accertamento della conoscenza della lingua onere del Giudice” dell’Avv. Mario Pavone


Testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 7 e 14, comma 5-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promossi con ordinanze del 3 dicembre 2002 dal Tribunale di Venezia – sezione distaccata di S. Donà di Piave, del 13 marzo 2003 dal Tribunale di Pescara, del 31 marzo 2003 dal Tribunale di Milano e del 22 maggio 2003 dal Tribunale di Pescara rispettivamente iscritte ai nn. 172, 361, 449 e 870 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 14, 25, 28 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2004 il Giudice relatore Fernanda Contri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, con ordinanza emessa il 3 dicembre 2002, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui non prevede l’obbligatorietà della traduzione del decreto di espulsione notificato allo straniero nella sua lingua madre, ovvero in una lingua che risulti, in base ad elementi certi, a lui conosciuta, per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione.

Il giudice a quo è investito del giudizio nei confronti di uno straniero, arrestato per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

Il rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, osserva che la disposizione impugnata, nel prevedere che il decreto di espulsione possa essere notificato al cittadino extracomunitario anche se redatto in una lingua diversa da quella conosciuta (e cioè in inglese, francese o spagnolo), introduce una presunzione iuris et de iure in materia di libertà personale, nella quale le presunzioni non sono ammesse, entrando esse in conflitto con i principi di legalità e tassatività della legge penale. In base a detta presunzione di conoscenza, prosegue l’ordinanza, vi è la possibilità che una persona venga arrestata e sottoposta a restrizione della libertà personale senza che la stessa abbia cognizione precisa dei motivi del provvedimento e delle disposizioni di legge violate, in quanto l’esistenza del reato dipende dal non aver adempiuto le prescrizioni di un atto amministrativo redatto in una lingua non conosciuta.

Sempre secondo il giudice a quo, ritenere che lo straniero possa comprendere il significato di un atto di tale importanza solo perché lo stesso è stato redatto in una delle lingue più diffuse costituisce una presunzione inammissibile in diritto penale ed in contrasto con i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.), legalità (art. 13 Cost.) e tassatività della legge penale.

Ad avviso del rimettente occorre considerare l’ipotesi di scuola di un decreto di espulsione notificato ad un non vedente, indipendentemente dalla sua lingua o nazionalità, senza che l’atto venga preventivamente tradotto in caratteri a lui comprensibili e cioè in alfabeto braille; in tal caso non sarebbe possibile presumere che egli ne abbia avuto ugualmente cognizione, magari perché gli è stato letto e tradotto oralmente nella sua lingua madre. Allo stesso modo, sempre secondo il rimettente, si deve ritenere che ai fini dell’applicazione di norme che prevedono la restrizione della libertà personale come conseguenza diretta della violazione di disposizioni contenute in provvedimenti dell’autorità, vi è la necessità che l’interessato abbia compreso pienamente le prescrizioni contenute nell’atto notificatogli.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata.

Secondo l’Avvocatura, l’esigenza di porre lo straniero nella condizione di conoscere il contenuto del provvedimento di espulsione viene soddisfatta dalla previsione della traduzione in una lingua dallo stesso conosciuta e, solo ove ciò non sia possibile (ad es. quando manchi l’individuazione del paese di provenienza dello straniero o delle lingue a lui note, ovvero in caso di lingua rara o per il comportamento reticente dell’interessato), con la traduzione in lingua francese, inglese o spagnola, secondo la preferenza indicata dall’interessato, ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.

Dopo aver ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 227 del 2000, ha affermato che la garanzia della effettiva conoscibilità dell’atto viene assicurata, “nell’inevitabile limite del possibile”, dalla traduzione nella lingua conosciuta o comunque in una delle lingue internazionalmente più diffuse e più accessibili al destinatario, la difesa erariale ricorda come tale previsione soddisfi le condizioni previste anche dall’art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950 e dall’art. 14 del patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.

Sottolinea ancora l’Avvocatura che la traduzione deve essere fatta nella lingua effettivamente conosciuta dallo straniero, e non in quella nazionale del Paese di provenienza, ciò al fine di consentirgli di esercitare in concreto il suo diritto di difesa e di contestare il contenuto di un provvedimento che egli abbia potuto comprendere.

Sempre secondo la difesa erariale, la stessa permanenza dello straniero sul territorio italiano costituirebbe indizio della possibilità per lo stesso di capire il significato del provvedimento di espulsione, ciò che non costituisce, come invece ritiene il rimettente, una presunzione iuris et de iure di conoscenza, quanto una mera presunzione iuris tantum, suscettibile di essere confutata attraverso l’esercizio del diritto di difesa.

3. – Con due ordinanze di contenuto identico, emesse rispettivamente il 13 marzo 2003 ed il 22 maggio 2003, il Tribunale di Pescara ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 7, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui limita la necessità di tradurre l’ordine di espulsione in una lingua conosciuta allo straniero, consentendo la traduzione in una lingua – inglese, francese o spagnolo – non conosciuta dall’intimato, per violazione dell’art. 27 Cost.

In entrambi i giudizi il rimettente è investito della decisione sulla convalida dell’arresto, per violazione dell’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, di due cittadini stranieri ai quali era stato intimato di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni dalla notifica di decreti di espulsione redatti in italiano e tradotti in inglese, lingua che i due arrestati (assistiti all’udienza da interpreti madrelingua) dichiaravano di non conoscere.

Secondo il giudice a quo, nei casi in esame nulla consente di affermare che il questore che ha emesso l’intimazione abbia omesso la traduzione nelle lingue conosciute dagli arrestati; al contrario gli atti acquisiti fanno ritenere che la scelta della traduzione nella lingua inglese sia stata fatta nell’esercizio legittimo di una specifica facoltà attribuita dalla legge all’autorità amministrativa, quando ricorrano condizioni di pratica impossibilità di traduzione nella lingua materna.

Ad avviso del giudice rimettente la disposizione censurata viola l’art. 27 Cost. poiché, in contrasto col principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, consente la formulazione dell’ordine amministrativo la cui violazione concreta il reato, pur quando la comprensione del significato dell’intimazione e delle conseguenze della sua violazione è preclusa allo straniero.

4. – E’ intervenuto in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare le questioni inammissibili o infondate.

Osserva preliminarmente l’Avvocatura che, dalla sintetica esposizione contenuta nelle due ordinanze, non si ricavano elementi atti a collegare la disposizione impugnata con i profili di violazione dell’art. 27 Cost., dal momento che gli stranieri arrestati non rispondono né per fatti altrui, né per fatti loro estranei, ma della violazione di un provvedimento che è stato loro comunicato in una lingua comunque facilmente traducibile.

Rileva ancora la difesa erariale che lo straniero colpito da ordine di espulsione ha la possibilità di adire direttamente il tribunale, ai sensi dell’art. 13, comma 8, del d.lgs. n. 286 del 1998, per far valere in quella sede anche l’eventuale vizio di forma relativo alla comunicazione del provvedimento e che la conseguenza dell’inosservanza dell’ordine resta sempre e soltanto l’espulsione, sia pure aggravata dal trasferimento coattivo alla frontiera.

Quanto alla scelta del legislatore di non estendere a tutti gli idiomi della terra la traduzione degli atti relativi agli stranieri, la stessa deriva da evidenti ragioni pratiche; il legislatore ha trovato un “equilibrato compromesso” indicando le lingue maggiormente diffuse a livello mondiale, scelta questa non solo italiana, se si considera la proposta di direttiva del Consiglio dell’Unione europea, che reca norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo, il cui art. 5 prevede obblighi di informazione per iscritto e, “per quanto possibile”, in una lingua che il richiedente comprende.

5. – Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 31 marzo 2003, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 7, e dell’art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui non prescrivono la traduzione nella lingua del destinatario del provvedimento prefettizio di espulsione e del provvedimento del questore che intima l’allontanamento, per violazione dell’art. 24 Cost.

Il rimettente è investito del giudizio di convalida dell’arresto di un cittadino ucraino che si è reso inadempiente all’ordine del questore che gli intimava di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni, provvedimento che era stato tradotto in inglese, lingua che l’arrestato sostiene di non conoscere, avendo egli una limitata conoscenza solo della lingua francese.

Il giudice a quo, dopo aver descritto la fattispecie concreta sottoposta al suo esame e dopo aver riportato parte della motivazione della sentenza della Corte n. 198 del 2000, rileva che la legge n. 189 del 2002 ha modificato profondamente la disciplina dell’espulsione dello straniero, facendo seguire all’inottemperanza dell’ordine di allontanamento una sanzione penale.

Secondo il rimettente il principio della concreta conoscibilità da parte dell’interessato degli effetti del provvedimento espulsivo va inteso in modo rigoroso, ciò che implica la traduzione del provvedimento nella lingua del destinatario, non essendo sufficiente il ricorso, in caso di impossibilità, alle lingue più diffuse.

Ad avviso del giudice a quo, le conseguenze penali dell’inottemperanza al provvedimento fanno sì che l’omessa previsione dell’obbligo di traduzione integri la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in quanto l’interessato potrebbe subire conseguenze penali anche senza colpa.

Quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale di Milano osserva che nel procedimento a quo non sarebbe possibile riconoscere la buona fede e la non colpevolezza dell’imputato sul solo presupposto che non egli non abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento di espulsione.

6. – Anche in questo giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione manifestamente infondata.

Osserva l’Avvocatura che il diritto di difesa costituzionalmente garantito non viene conculcato, in quanto allo straniero viene richiesto unicamente di informarsi del contenuto di un provvedimento che lo riguarda e che gli viene comunicato in una lingua facilmente traducibile, tanto che il suo comportamento colposo ben può integrare gli estremi della contravvenzione prevista dalla legge.

Secondo la difesa erariale la scelta del legislatore di non estendere l’obbligo di traduzione in tutte le lingue deriva da incontestabili e giustificate ragioni pratiche, pervenendo ad un equilibrato compromesso tra esigenze di conoscenza e adozione delle lingue maggiormente diffuse a livello mondiale.

Inoltre, l’amministrazione si troverebbe in estrema difficoltà se fosse prevista la redazione di un atto, per sua natura urgente, in lingue per le quali non esistono, in ipotesi, traduttori facilmente disponibili.

Ricorda infine l’Avvocatura che la scelta del legislatore italiano trova conferma nella proposta di direttiva del Consiglio dell’Unione europea recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo che prevede obblighi di informazione scritta e, “per quanto possibile”, in una lingua compresa dal richiedente.

Considerato in diritto

1. – Tutti i rimettenti dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui non prevede l’obbligo di tradurre il decreto di espulsione notificato allo straniero nella sua lingua madre, ovvero in una lingua che risulti dallo stesso effettivamente conosciuta, e, ove ciò non sia possibile, consente invece la traduzione del provvedimento in lingua francese, inglese o spagnola.

Secondo il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, la disposizione viola gli artt. 3 e 13 della Costituzione, prevedendo un’inammissibile presunzione di conoscenza da parte dello straniero della lingua in cui è redatto il provvedimento di espulsione, in contrasto con quanto contenuto nei principi di eguaglianza, legalità e tassatività che presiedono alla legge penale.

Per il Tribunale di Pescara la disposizione impugnata viola l’art. 27 Cost., perché consente che il provvedimento di espulsione, dalla cui violazione discende un illecito penale, sia fonte di responsabilità penale anche quando è certo che la comprensione del significato dell’intimazione è preclusa allo straniero per ragioni linguistiche.

Il Tribunale di Milano, oltre a censurare la disposizione citata, dubita della legittimità costituzionale anche dell’art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui non prescrive la traduzione del provvedimento del questore che intima l’allontanamento, entro cinque giorni, dal territorio nazionale, nella lingua effettivamente conosciuta dall’intimato, per violazione dell’art. 24 Cost.; secondo il rimettente l’omessa previsione dell’obbligo di traduzione in una lingua effettivamente conosciuta dallo straniero impedisce a questi l’esercizio del diritto di difesa e può consentire che dalla condotta discendano conseguenze penali anche senza colpa.

2. – Tutte le ordinanze di rimessione censurano, sotto profili in parte diversi, disposizioni eguali o connesse del d.lgs. n. 286 del 1998; i giudizi di legittimità costituzionale vanno quindi riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

3. – Preliminarmente, sotto il profilo dell’ammissibilità, va rilevato che l’ordinanza del Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, risulta priva di un’idonea descrizione della fattispecie concreta; in particolare, il rimettente non dà atto né della nazionalità né della lingua madre dello straniero, non precisa se questi sia, in ipotesi, nella condizione di comprendere un’altra lingua fra quelle indicate dalla disposizione impugnata (inglese, francese o spagnola), né precisa in quale lingua sia stato tradotto il provvedimento di espulsione dalla cui violazione discenderebbe il reato contestato.

Questa Corte ha più volte affermato che le questioni di legittimità costituzionale sollevate con ordinanze prive di motivazione sulla rilevanza, o che contengono un’insufficiente descrizione della fattispecie concreta all’esame del giudice a quo, non consentono un’adeguata valutazione della rilevanza e sono quindi inammissibili (cfr., fra le ultime, le ordinanze n. 293 del 2003, n. 141 del 2003 e n. 61 del 2002).

La questione sollevata dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, deve essere pertanto dichiarata manifestamente inammissibile.

4. – Le censure svolte nelle altre ordinanze, del Tribunale di Pescara e del Tribunale di Milano, si appuntano sulla ritenuta necessità che il provvedimento di espulsione, che viene comunicato allo straniero unitamente all’indicazione delle modalità di impugnazione, venga sempre tradotto in una lingua da questi effettivamente conosciuta. Secondo i rimettenti non sarebbe sufficiente, in caso di impossibilità di traduzione nella lingua effettivamente conosciuta dallo straniero, l’utilizzazione di una delle lingue maggiormente diffuse previste dalla legge (francese, inglese o spagnola), perché in tal caso si determinerebbe la presunzione di conoscenza dell’atto amministrativo, dalla cui violazione discende la commissione del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

5. – Le questioni non sono fondate nei termini di seguito precisati.

Le previsioni legislative di cui alle disposizioni censurate, relative all’obbligo di traduzione dei provvedimenti riguardanti l’ingresso, il soggiorno e l’espulsione dello straniero “in una lingua a lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola”, rispondono a criteri ragionevolmente funzionali, e nella loro necessaria astrattezza idonei a garantire che, nella generalità dei casi, gli atti della pubblica amministrazione concernenti questa materia siano conoscibili dai destinatari, nel loro contenuto e in ordine alle possibili conseguenze derivanti dalla loro violazione.

Le disposizioni impugnate si limitano a regolare doverosamente le modalità attraverso le quali il contenuto del provvedimento di espulsione è, nella maggior parte dei casi, conoscibile dallo straniero, e l’art. 3 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), al comma 3 stabilisce che, se lo straniero non comprende la lingua italiana, il provvedimento deve essere accompagnato da una sintesi del suo contenuto, anche mediante appositi formulari redatti nella lingua a lui comprensibile o, se ciò non è possibile, in una delle lingue inglese, francese o spagnola, secondo la preferenza indicata dallo stesso interessato.

La valutazione in concreto dell’effettiva conoscibilità dell’atto spetta ai giudici di merito, i quali devono verificare se il provvedimento abbia raggiunto o meno il suo scopo, traendone le dovute conseguenze in ordine alla sussistenza dell’illecito penale contestato allo straniero.

Ciò è confermato dalla giurisprudenza di questa Corte che, già chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 8, del d.lgs. n. 286 del 1998 nella parte in cui non consente l’opposizione tardiva avverso il decreto prefettizio di espulsione dello straniero quando questi, senza sua colpa, non abbia avuto conoscenza del suo esatto contenuto, ha affermato che “è devoluta alla giurisdizione di merito la valutazione se nella vicenda in esame possa considerarsi conseguito lo scopo dell’atto, che è quello di consentire al destinatario il pieno esercizio del diritto di difesa: ciò postula che il provvedimento di espulsione sia materialmente portato a conoscenza dell’interessato, o gli sia comunicato con modalità che ne garantiscano in concreto la conoscibilità” (sentenza n. 198 del 2000). Ed ancora che, ferma l’esigenza che il contenuto del provvedimento sia effettivamente conoscibile, “affinché possano operare le ulteriori scansioni del procedimento previsto dalla legge, ove tale conoscibilità non vi sia occorrerà che il giudice, facendo uso dei suoi poteri interpretativi dei principi dell’ordinamento, ne tragga una regola congruente con l’esigenza di non vanificare il diritto di azione in giudizio, come del resto risulta dalla giurisprudenza dei giudici di merito i quali – per l’ipotesi in esame e sempre che la comunicazione dell’atto non abbia comunque raggiunto lo scopo – hanno ritenuto l’inefficacia del provvedimento non tradotto in lingua comprensibile e la sua inidoneità a far decorrere il termine per il ricorso. Possibilità interpretative di questo genere non sono affatto escluse dalla disposizione sottoposta a controllo, la quale risulta pertanto esente dal vizio di costituzionalità che le viene imputato” (sentenza n. 227 del 2000).

Nel confermare tale precedente orientamento questa Corte ritiene che spetti ai giudici di merito, di fronte ai casi concreti ed usando dei loro poteri, anche ufficiosi, di accertamento, verificare se l’atto ha raggiunto o meno lo scopo per il quale è preordinato ed in particolare se il provvedimento di espulsione sia stato tradotto in una lingua conosciuta o conoscibile dallo straniero. E ancora che, effettuate tali valutazioni, i giudici traggano le debite conseguenze, alla luce dei principi dell’ordinamento, in ordine alla sussistenza dell’illecito penale contestato allo straniero.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 13 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, con l’ordinanza in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 7, e 14, comma 5-bis, del medesimo decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Pescara e dal Tribunale di Milano con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2004.