Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 9 aprile 2006

«Siamo perduti nel deserto»

Decine di migranti sub-sahariani respinti dal Marocco sono da sei mesi bloccati nel Sahara occidentale. In attesa che qualcuno si interessi della loro sorte e li riporti a casa

«Fate qualcosa per noi. Siamo ancora bloccati in mezzo al deserto!». La voce di Moussa giunge concitata e intermittente attraverso il telefono satellitare. Dietro di lui, si percepiscono le grida dei suoi compagni di sventura, altri 44 immigranti sub-sahariani sospesi da quasi sei mesi tra le sabbie di Bir Lahlou, un avamposto sperduto in mezzo al Sahara Occidentale. Deportati dalla polizia marocchina dopo gli assalti alle recinzioni di Ceuta e Melilla nell’ottobre scorso e abbandonati in un deserto pieno di mine anti-uomo, tratti in salvo dagli uomini del Fronte Polisario – l’organizzazione che si batte per l’indipendenza di questa ex colonia spagnola – sono ancora lì, a contare i giorni sotto un sole cocente. Non hanno contatti con il mondo – la comunicazione con chi scrive è resa possibile solo dalla disponibilità di un raro passante munito di telefono satellitare. E il mondo non si cura più di loro. Sopravvivono grazie all’assistenza del Polisario, che fornisce loro un po’ di farina, olio e acqua; quel poco che può permettersi un popolo di profughi che a sua volta dipende dagli aiuti internazionali.

Naufraghi sospesi in un mare di sabbia e disperazione, non godono di alcuna assistenza; solo una piccola infermeria del Polisario provvede a offrire loro cure minime («Molti sono malati; hanno la febbre», assicura Moussa). Ma, soprattutto, non ne possono più: quasi tutti si erano già sobbarcati viaggi sfiancanti e lunghissimi per poter abbracciare il sogno europeo; poi hanno trascorso mesi nascosti in Marocco in attesa della buona occasione; ora sono bloccati in un presente senza orizzonti. «Vogliamo solo tornare a casa. Aiutateci», grida al telefono il ghaneano Rashid, tre anni di Marocco e due tentativi falliti di saltare i recinti di Melilla. «Stiamo soffrendo troppo, non sappiamo più che fare». All’epoca dei fatti, speravano tutti in una soluzione rapida della crisi. La vicenda era stata ampiamente mediatizzata. Diversi giornalisti – perlopiù spagnoli – erano arrivati in fondo al deserto per incontrare i dannati di Bir Lahlou; alcune Ong si erano interessate al loro caso; persino una delegazione della Minurso, la missione dei caschi blu dispiegati nella zona per vigilare sul cessate-il-fuoco era venuta a dispensare rassicurazioni e buone parole. Poi, spente le telecamere, è calato il silenzio. «Da novembre, non è venuto più nessuno; gli uomini della Minurso non si sono più visti. Noi continuiamo a vivere qui, tagliati fuori dal mondo», si lamenta ancora Moussa.

Il loro dramma è che si trovano nel mezzo di una sorta di no man’s land dai contorni indefiniti. La zona orientale del Sahara occidentale è sotto l’autorità del Fronte Polisario, che non ha i mezzi né le forze per provvedere al loro rimpatrio. La Minurso, dal canto suo, «non ha il mandato per trattare casi di questo tipo», come ripete al telefono il portavoce della missione Enrico Magnani. Che aggiunge: «È il Polisario che deve chiedere all’Onu di intervenire». Nessuno prende l’iniziativa e, in questo rimpallo di responsabilità, i 45 sub-sahariani si ritrovano abbandonati a se stessi.

Il loro caso non è in realtà una novità assoluta per il Sahara occidentale: nei due anni scorsi vari gruppi di immigrati – per lo più asiatici – sono stati ritrovati sperduti nel mezzo del deserto e sono stati soccorsi dagli uomini del Polisario. Anche in quelle occasioni, erano trascorsi diversi mesi prima che qualcuno, ossia l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), si interessasse al loro caso e provvedesse al rimpatrio. Ma gli africani di Bir Lahlou appaiono ancora più dimenticati: l’ufficio dell’Oim di Rabat non era al corrente della loro situazione. Una volta informato, il responsabile ha assicurato che l’organizzazione – segnatamente l’ufficio di Dakar – si farà carico della loro situazione. Loro, per il momento, aspettano una sola cosa: che qualcuno li tiri fuori di lì e permetta loro di tornare al mondo.

Stefano Liberti