Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Šid (Serbia) – Come la violenza ultranazionalista si è scagliata contro migranti e volontari

Di Eloisa Pantano, No Name Kitchen

L’alba livida di un giorno invernale. Tra le nebbie del mattino, in Serbia, un folto gruppo di persone si muove lentamente tra le sterpaglie che costeggiano le rotaie del treno. I vagoni sfrecciano lì di fronte, veloci e minacciosi. Dall’altra parte, a pochi chilometri , si scorge la Croazia, la prossima (ma non l’ultima) tappa di quel lungo e difficoltoso viaggio. Per raggiungerla bisogna nascondersi, non farsi notare ed essere più veloci di chi ti segue…

Le rotte intraprese ogni giorno dalle persone in transito, dirette verso i paesi dell’UE, sono molteplici e diversificate ma spesso convergono in determinati punti lungo le frontiere nazionali. In questo momento ci troviamo a Sid, piccola cittadina serba al confine con la Croazia, luogo di confluenza in cui si ritrovano forzatamente a stazionare, per settimane o mesi, migliaia di persone con la speranza di varcare, un giorno, quella frontiera spazialmente tanto vicina ma, allo stesso modo, tanto invalicabile.

Questa città così anonima e desolata, circondata da estesi campi di grano che si confondono all’orizzonte con i colori e le luci del tramonto, risulta essere un luogo obbligato di passaggio per tutti coloro che desiderano raggiungere uno dei paesi della “fortezza Europa”.
Sebbene nei giornali e nei media internazionali abbiano un impatto mediatico minore le notizie riguardanti il costante flusso di persone provenienti dalla rotta balcanica, la situazione a Sid, come in altre città di frontiera, è cambiata parzialmente solo su alcuni aspetti negli ultimi anni, a partire dal 2016, quando è esplosa la così detta “crisi migratoria”: la frontiera continua ad essere chiusa, le persone arrivano, rimangono o partono in una condizione di perenne precarietà, le discriminazioni da parte degli organi istituzionali e dei cittadini locali persistono, così come gli sgomberi, le retate e le violenze quotidiane della polizia.

Il numero di persone in transito in questa città di frontiera subisce fluttuazioni basate su ritmi stagionali così come in seguito ai nuovi arrivi dalla Grecia e anche agli sgomberi effettuati quotidianamente dalla polizia serba. Uno degli ultimi grandi sgomberi è stato messo in atto alla fine di gennaio presso un grande stabile occupato da circa 100 persone migranti (probabilmente di più). Queste persone avevano deciso di insediarsi in questo luogo mettendo in atto pratiche che, potremmo dire, mostrano il rifiuto di essere assoggettati a dispositivi disciplinari posti dallo Stato. Attraverso l’occupazione di quella che era una vecchia fabbrica abbandonata, veniva espresso il desiderio di affermare un altro modo di essere e di vivere, libero di autodeterminarsi.

Una semplice occupazione, con il passare del tempo, aveva iniziato a trasformarsi in uno spazio auto organizzato, con una propria quotidianità. Le relazioni interpersonali che si erano create con i volontari, accorsi nel frattempo per garantire solidarietà e diritti, avevano fatto nascere un tessuto sociale dinamico dove una comunità di giovani ragazzi, prevalentemente afghani, si riconosceva, si organizzava e tentava di creare uno spazio abitabile, vivibile, nonostante il persistere di un orizzonte di perenne precarietà ed esclusione. Lo squat era un luogo sperimentale abitato da diversi gruppi, costretti a convivere nel medesimo spazio; un luogo in cui si era venuta a formare una vita sociale totalmente autonoma, seppur non priva di attriti.

Quest’alternativa, che ridefiniva il vivere ai margini della società, il 25 gennaio purtroppo ha cessato di esistere. Quel giorno, un gruppo di utranazionalisti serbi (i Cetnici), munito di bastoni e manganelli, iniziò con l’avvallo della polizia locale lo sgombero dello stabile e di tutte le persone che vi risiedevano all’interno. Alcuni cetnici hanno dato fuoco agli effetti personali e alle tende dei migranti, aggredendo alcuni attivisti dell’associazione spagnola “No Name Kitchen” che, fino a quel momento, avevano operato in supporto alle persone che risiedevano all’interno del grande stabile.

La presenza sul territorio di questi squadroni nazionalisti, che si considerano alla stregua delle forze di polizia, desta molta preoccupazione sia per l’ideologia fascista a cui si ispirano, sia per il sostegno che ricevono dalle forze dell’ordine e dalle autorità locali. Nello specifico i cetnici nascono come gruppo di truppe irregolari, di carattere panserbo e fortemente nazionalista, in supporto al potere monarchico nel 1918 per poi diventare, durante l’occupazione tedesca della Jugoslavia, collaborazionisti dei nazisti .

A Sid, come del resto in altre città della Serbia, questo gruppo ha ottenuto un forte consenso e sostegno da parte della popolazione locale che, aggrappata alla propria “identità nazionale”, etichetta lo straniero come una minaccia da cui bisogna proteggersi. Questi sentimenti (sempre più frequenti anche in tutta Europa), hanno, come conseguenza, la messa in campo di comportamenti xenofobi e discriminatori che alimentano un immaginario distorto, sempre più diffuso, secondo cui “l’integrità della società” rischia di essere intaccata dall’arrivo di persone provenienti da paesi differenti.

A seguito di questa vicenda, si sono susseguiti altre numerose azioni intimidatorie da parte della polizia e dei locali nei confronti sia delle persone in transito, sia dei solidali di No Name Kitchen. In diverse occasioni il muro della casa in cui alloggiano i volontari della ONG, è stato imbrattato da messaggi intimidatori inneggianti al disprezzo nei confronti delle persone in transito e di coloro che le supportano (“Serbia hates you“, “Refugees go home“…), arrivando pure ad imbrattare il van, con cui abitualmente si conducono le distribuzioni di cibo, con delle svastiche. Ciò mette in luce come non si tratti esclusivamente di messaggi estemporanei, insiti d’odio ma di messaggi con una chiara connotazione politica di carattere nazi-fascista.

They pointed a gun in my face, I was really scared. One of them punched me in the face and knocked me down. I started screaming and screaming…“, racconta con voce flebile, lo sguardo chino e con l’occhio ancora tumefatto Majid, ragazzino iraniano di soli 15 anni, riferendosi all’aggressione da parte di un gruppo di serbi a cui era stato vittima il giorno prima.
Purtroppo questo episodio drammatico si colloca all’interno di uno scenario più ampio che vede le persone in transito vittime di quotidiani attacchi ed incursioni da parte di gruppi e singoli locali.

Dal giorno dello sgombero, la situazione in città è cambiata notevolmente; da allora non esiste più un luogo stabile e “sicuro” in cui le persone riescano a rifugiarsi.
I migranti, ritrovatisi in una situazione ancora più precaria, cominciarono a riorganizzarsi; molti di loro si recarono verso altri confini, verso l’Ungheria o la Bosnia, con la speranza di avere maggiori possibilità di raggiungere i paesi dell’UE mentre altri ancora, si stanziarono nella campagna circostante la città, ricreando dei piccoli accampamenti informali, definiti “jungles“. In queste aree le condizioni igienico-sanitarie sono pessime, aggravate dal clima estremamente rigido e dalle piogge che creano un terreno melmoso e poco abitabile in cui è facile la proliferazione di malattie ed infezioni. Queste difficili e precarie condizioni incidono profondamente sulla psiche e sulla salute fisica. Infatti, è possibile riscontrare in molti ragazzi, infezioni batteriche e malattie cutanee come la scabbia, peggiorate dalla totale assenza di servizi igienici e dall’impossibilità di accedere ad una fonte di acqua potabile.

Questa situazione è resa ancora più difficile dalla violenza perpetrata dalle istituzioni e dal clima di ostilità nei confronti di queste persone. Quasi giornalmente, infatti, i ragazzi in transito sono soggetti ad ogni tipo di violenza e maltrattamento:
They burnt my tend“, ripeteva con voce sconsolata Zahid, ragazzo afghano ormai bloccato a Sid da alcuni mesi. “They burned everything I had“, ripeteva guardando fisso l’orizzonte. Con una certa ingenuità gli domandai cosa avesse con sé, “everything“, rispose. Quella tenda, quel “rifugio” che lo aveva riparato dalle piogge degli ultimi giorni rappresentava tutto per lui, non aveva altro con sé, se non quella tenda. Da quelle sue parole, cariche di rammarico e sconforto, trapelava un senso di smarrimento, “they burned my tend“, ripeteva con lo sguardo rivolto verso quel posto in cui, fino a qualche ora prima, vi era tutto ciò che possedeva.

#Lesvoscalling

Una campagna solidale per la libertà di movimento
Dopo il viaggio conoscitivo a ottobre 2019 a Lesvos e sulla Balkan route, per documentare e raccontare la drammatica situazione sull'isola hotspot greca e conoscere attivisti/e e volontari/e che si adoperano a sostegno delle persone migranti, è iniziata una campagna solidale lungo la rotta balcanica e le "isole confino" del mar Egeo.
Questa pagina raccoglie tutti gli articoli e il testo di promozione della campagna.
Contatti: [email protected]