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Rubrica: Un mondo, molti mondi

Šid, Serbia: "Due dei nostri amici sono morti"

Un testo di Nassim Abiza dalla pagina di No Name Kitchen

- Link al post originale (ESP)

Vai alla pagina dedicata alla rotta balcanica
Traduzione a cura di: Wilma Gheza

28 agosto 2020 - È molto difficile per me cominciare a scrivere questo post. La speranza che condividendo queste terribili storie la situazione potesse in qualche modo migliorare è svanita. Eppure, sono qui a provare, non so bene perché o per cosa.

Dopo essere stato deportato illegalmente dalla Croazia in Bosnia, un gruppo di sei persone ha deciso di tornare in Serbia. Come riferisce No Name Kitchen da Velika Kladusa, centinaia di insediamenti informali in Bosnia sono stati sgomberati nelle ultime settimane, lasciando migliaia di persone per strada.

Dopo aver visto le terribili condizioni delle persone in transito in quella regione, alle quali vengono confiscati con la forza i propri telefoni, i vestiti, sacchi a pelo e tende, i nostri amici hanno pensato che sarebbero stati più al sicuro nelle "jungle" serbe.

Solo dopo molti giorni di cammino e infiniti viaggi in autobus, il gruppo è arrivato a Zvornik, una cittadina bosniaca sulla riva sinistra del fiume Drina e di fronte alla città di Malo, già in territorio serbo.

Il 13 agosto i nostri amici si sono svegliati all’alba per attraversare il fiume prima che le autorità potessero vederli. Esausto dopo settimane, se non mesi, di notti insonni attraverso i Balcani, il gruppo si è lentamente fatto strada verso l’acqua. Ben presto, tuttavia, il fiume si dimostrò molto più profondo e la corrente più veloce di quanto sperato.

Mentre tre dei ragazzi stavano per raggiungere il lato serbo, gli altri due lottavano freneticamente per rimanere a galla. I nostri amici hanno cominciato a gridare e a chiedere aiuto a un gruppo di persone che si trovava sul lato bosniaco ma nessuno rispose alle loro richieste disperate, secondo quello che ci hanno detto i sopravvissuti. Pochi secondi dopo due dei nostri amici erano spariti. Annegati.

Dopo aver raggiunto la parte serba, i tre ragazzi hanno trovato un agente di polizia e hanno spiegato l’accaduto. Il poliziotto li derise, li spinse e disse loro di andarsene o li avrebbe arrestati. La stessa cosa è successa dalla parte bosniaca, dove uno dei nostri amici, spaventato dopo aver visto i suoi compagni annegare, ha chiesto aiuto alle autorità, che però si sono rifiutate di prestargli attenzione.

In preda alla disperazione, i nostri amici ci hanno chiamato (i volontari NNK) per denunciare l’incidente.
Dopo aver informato il nostro assistente legale serbo, al quale saremo sempre estremamente grati, ci siamo diretti a Loznica per incontrare i sopravvissuti. Abbiamo trovato centinaia di persone riunite per onorare i loro amici defunti.

Lì abbiamo trovato centinaia di persone - persone in movimento - riunite per onorare i loro amici scomparsi.

Successivamente, siamo andati alla stazione di polizia e solo dopo molte ore siamo riusciti a far ascoltare la nostra storia alle autorità e ottenere la promessa di cercare i corpi.

Un agente di polizia ci ha colpito quando ha detto che avvengono in continuazione casi di annegamento nel fiume Drina ma che questa era la prima volta che uno è stato segnalato. Ci sono voluti due bianchi con un passaporto europeo per fare in modo che le autorità ascoltassero e credessero a ciò che era accaduto.

Tornati allo squat, i nostri amici hanno insistito per invitarci al Saddaq - una cena commemorativa preparata dai ragazzi per onorare i loro amici. Ci siamo seduti accanto a loro, onorati dell’invito, ma tristi e arrabbiati per un mondo che sembra aver perso ogni significato. Quel pasto ci ha ricordato quello che avevamo mangiato dieci giorni prima, per la festa di Eid, quando uno dei ragazzi annegati era ancora vivo tra noi.

Nonostante il tentativo di pubblicare notizie positive, quel giovedì 13 agosto ci ricorda che le frontiere non sono solo luoghi dove si distribuiscono vestiti e cibo, ma anche luoghi di morte. I nostri amici dello "squat" ci hanno detto che non era la prima volta, né probabilmente sarà l’ultima, che alcuni dei loro compagni perderanno la vita.

Due famiglie, a migliaia di chilometri dalla Serbia, in paesi devastati da continue guerre, hanno dovuto ricevere la notizia che i loro figli, i loro fratelli, i loro cugini, hanno perso la vita alle porte dell’Europa. Sono morti in pace, senza che cadessero bombe intorno a loro, senza il continuo rumore delle armi che gli martellavano nelle orecchie. Non hanno perso la vita a causa di un nemico fisico. Sono semplicemente annegati, perché un’istituzione come l’Unione Europea, composta da 28 Stati, e in definitiva composta dai suoi cittadini, li ha giudicati - e ancora li giudica - inferiori e indegni di essere in Europa.

Due famiglie, a migliaia di chilometri dalla Serbia, in paesi devastati dalla guerra, hanno dovuto ricevere la notizia che i loro figli, fratelli e cugini hanno perso la vita alle porte d’Europa. Sono morti in uno stato in pace, senza bombe e senza mitragliatrici. Non hanno perso la vita contro un nemico fisico. Sono semplicemente annegati perché un’istituzione come l’Unione Europea, formata da 28 stati, in ultima analisi composta dai suoi cittadini, li ha giudicati - e ancora li giudica - inferiori e indegni di essere in Europa.

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[ 2 settembre 2020 ]
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Balcani, Est Europa, Europa, Serbia e immigrazione, Solidarietà e attivismo, Violenze e abusi
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Bosnia ed Erzegovina, Serbia
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