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Soccorsi in mare, quando i migranti sono solo una macchia sul radar

di Giacomo Zandonini, Repubblica - 2 aprile 2017

Pozzallo (a bordo della nave “Golfo Azzurro”) – Sono appena passate le tre di notte, e Asier Martinez sta staccando dal turno di sorveglianza. Il buio del ponte di comando è spezzato dai bagliori degli schermi dei radar. I soccorritori siedono silenziosi, una radio passa musica rock d’annata. Tutto intorno, la notte scura e ventosa del Mediterraneo centro-meridionale. Quando il telefono squilla, gli sguardi si appiccicano a Michele Angioni, marinaio, fra i pochi italiani a bordo della Golfo Azzurro. “E’ il centro di coordinamento della Guardia Costiera italiana, abbiamo un target, a un’ora da qui”. Pochi minuti, e il messaggio arriva sottocoperta, rimbalza di letto in letto fra i 18 membri dell’equipaggio, inclusi due giornalisti.

Una macchia sul radar. Hanno chiamato che erano a quattro miglia dalla costa, li stiamo rintracciando”, dice Angioni al resto del gruppo. Mezz’ora dopo si ha una prima posizione. I motori della Golfo Azzurro, la nave con cui la ong spagnola Proactiva Open Arms svolge operazioni di ricerca e salvataggio a largo della Libia, dal dicembre 2016, vanno a pieno ritmo. Angioni indica una macchia sul radar: “sono loro, viaggiano a circa 5 nodi, fra poco saranno fuori dalle acque libiche”. Martinez, che nella vita lavora per una multinazionale delle costruzioni, ma ha in tasca un brevetto di soccorso in mare e con elicotteri, è pronto in muta integrale, frontalino e casco illuminato. I due gommoni semirigidi si staccano dolcemente dalla Golfo Azzurro.

Una barca nella notte. Un puntino luminoso attrae l’attenzione, dopo una decina di minuti di navigazione a motore spiegato. “Sono loro”, urla Martinez, indicando la direzione al pilota. Avvicinandosi accende il faro. La barca, uno scafo di legno di circa 17 metri, si muove ancora, disegnando cerchi concentrici e oscillando pericolosamente sui lati. I due semirigidi di Proactiva Open Arms si avvicinano a fatica. “Stay calm, stay calm”, urla Martinez, chiedendo se ci sono minori a bordo. La comunicazione sembra impossibile. Si inizia a lanciare i giubbotti salvagente, partendo da quelli per bambini. Le navi delle Ong tedesche Jugend Rettett e Life Boat Minden, da poco allertate, arrivano sul posto.

Fuori dalla violenza libica. Quasi cinque ore dopo, con decine di trasbordi e un sole che scalda e rassicura, tutti i passeggeri sono trasferiti dalla barca in legno, su cui avevano lasciato la Libia attorno alla mezzanotte, alla coperta della Golfo Azzurro. Infreddoliti, nauseati, assetati. Spaventati ma vivi. “Non voglio più pensare alla Libia”, dice Sainey, giovanissimo cittadino del Gambia, addosso solo una maglietta e jeans rotti. “Non sai cosa ho visto lì, quanta cattiveria, quanta follia… non voglio pensarci ma non posso farne a meno”. Il gesto più comune, a chiedere della vita in Libia, è quello di una pistola, mimata con tre dita. Osman, un 36enne marocchino, racconta di come gli hanno “rubato tutto, compreso il passaporto e i soldi portati da Agadir, la mia città di origine”.

Più di quattrocento. Saranno 428 le persone contate nelle ore successive, dalla piccola Marwa – 4 anni – a Fatima, 50 passati da un po’. Una barca abitata da marocchini, 325 circa, 44 bengalesi e poi cittadini libici, algerini, di Gambia, Guinea, Nigeria, Mali, Siria, Pakistan. Michael, un nigeriano dal volto quadrato, occhi scurissimi, dice di essere partito mesi fa dalla sua città nello stato del Delta, attraversando Niger e Libia. “A Warri, e in altre località, ci sono stati scontri etnici, in cui entrambi i miei genitori sono stati uccisi; ho vissuto nascondendomi, braccato, fino a decidere di scappare”. August, suo concittadino e compagno di viaggio, annuisce con preoccupazione.

Andate e ritorni. Camminando fra i corpi esausti, che occupano ogni millimetro di spazio della nave, l’italiano e lo spagnolo sembrano di casa. Per molti giovani uomini è il primo viaggio in Europa, dopo anni di tentativi. E si illuminano a sentire la parola “harraga”, ‘quelli che bruciano’ in dialetto marocchino. Finalmente hanno ‘bruciato la frontiera’ anche loro, e un’Europa sognata sembra a portata di mano. Per altri, di 40 anni e più, è invece una seconda volta. Abdelkrim ha lavorato per dieci anni come commerciante, “fra Cosenza, la Sicilia e la Lombardia”, tornando in patria per problemi familiari. “Sono rimasto bloccato in Marocco, e l’unico modo per rivedere i miei parenti, che vivono a Torino, era questo… Certo non mi aspettavo un viaggio così duro”.

Una nave di marocchini. Fra i marocchini, gran parte dei quali ha ricevuto un decreto di espulsione subito dopo l’identificazione, all’interno dell’hotspot di Pozzallo, anche 19 donne, quasi tutte sole. Come Khadija. Suo marito è stato ucciso in Libia, poco dopo l’arrivo dal Marocco, e lei sequestrata per giorni insieme alla figlia Marwa. Il mare era l’unica, precaria, salvezza. “Sequestri, violenze, lavoro forzato per mesi… sono le esperienze di tutti qui, chiedi in giro e capirai”, dice Osman. Come molti concittadini, è partito in aereo dal Marocco, transitato dalla Tunisia e arrivato in Libia. “C’è chi ha pagato mille dinari per tutto il viaggio [680 euro, ndr], chi duemila o più”. Le pagine Facebook dei trafficanti, tornate a animarsi con la buona stagione, offrono pacchetti ad hoc per i marocchini.

Le Ong reagiscono agli attacchi. Mentre le operazioni di soccorso proseguono, grazie a Ong, Guardia Costiera italiana e con interventi di Frontex e delle navi militari targate UE, le organizzazioni umanitarie attive nei salvataggi reagiscono agli attacchi degli ultimi mesi, da parte della stessa Frontex, di alcuni mezzi di comunicazioni e della Procura di Catania. Venerdì 31 marzo, Sos Mediterranée e Medici Senza Frontiere, che gestiscono due navi, hanno indetto una conferenza stampa nel porto etneo per chiedere di “fermare la criminalizzazione delle Ong”. Sophie Beau, vicepresidente di Sos Mediterranée, suggerisce che “lo scopo di questi attacchi sia quello di confondere i cittadini e i media, influenzare l’opinione pubblica e screditare le nostre missioni di salvataggio di così vitale importanza”.

La dichiarazione di Proactiva Open Arms. Una dichiarazione, firmata da Proactiva Open Arms e da altre otto Ong, supportate da Human Rights At Sea, è stata diffusa in contemporanea dalla sede del parlamento UE, chiedendo di “mettere subito fine alle critiche immotivate all’azione umanitaria in mare, che – se proseguiranno – metteranno a rischio in modo significativo le operazioni di ricerca e salvataggio”. Le ong respingono con forza qualsiasi accusa di complicità con network criminali, o di rappresentare un fattore di richiamo per i migranti in viaggio. “Se abbandonassimo queste persone, negheremmo i valori di base del progetto europeo, e la nostra stessa umanità”, ha detto Sophie Beau.

Trenta ore di lavoro senza sosta. Stremato ma soddisfatto, dopo quasi 30 ore di lavoro senza sosta, Asier Martinez si concede una pausa brevissima sul ponte di comando della Golfo Azzurro. Fra pochi giorni tornerà a casa, a una quotidianità fatta di lavoro che, però “non sarà più la stessa”. Con la convinzione “di avere fatto qualcosa per lasciare un mondo migliore, perché mia figlia – 9 anni – sappia un giorno che suo papà non è stato sul divano a sentire le notizie dei morti, a cui siamo ormai abituati, ma è andato dove c’era bisogno e l’ha fatto anche per lei”.