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Commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 78 del 5 marzo 2007

Soggiorno irregolare – Ammissibilità delle misure alternative al carcere

a cura dell' Avv. Marco Paggi

La sentenza n. 78 del 5 marzo 2007 emessa dalla Corte Costituzionale, è stata depositata il 16 marzo scorso e si esprime in merito alla questione di legittimità costituzionale della normativa in materia di ordinamento penitenziario (legge 354/75 e successive modifiche ed integrazioni) che disciplina anche la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, in relazione alla condizione giuridica dello straniero.
Una ordinanza del 24 maggio 2005 del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della normativa vigente con riferimento particolare alla esclusione dalla possibilità di fruire di misure alternative da parte di cittadini stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno.

L’ ordinanza della Corte di Cassazione
Secondo una ordinanza della Corte di Cassazione, che aveva ritrasmesso gli atti al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, la condizione di straniero irregolarmente soggiornante sarebbe incompatibile con la possibilità di fruire delle cosiddette misure alternative, in questo caso dell’affidamento in prova al servizio sociale, perché si tratta di una forma di espiazione della pena che non viene scontata fisicamente all’esterno del carcere.
La questione di diritto, molto interessante, sta proprio nella supposta discriminazione che è stata ravvisata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari tra i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, i cittadini italiani, i cittadini comunitari, ed invece i cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno che sarebbero, a giudizio della Corte di Cassazione, esclusi dalla possibilità di fruire delle misure alternative alla detenzione in quanto la condizione di irregolarità del soggiorno sarebbe concettualmente incompatibile con la possibilità di soggiornare, seppur temporaneamente, in territorio italiano, allo scopo di attuare la misura alternativa alla detenzione.
La sentenza afferma che il “clandestino” può stare in carcere, pur non avendo diritto al soggiorno in Italia, mentre nel momento in cui risulta ammessa la misura alternativa alla detenzione, questa, sarebbe incompatibile con la condizione di irregolarità.
Questa forma di espiazione della pena, regolata in via generale dalla legge, non sarebbe ammissibile per lo straniero irregolare, che potrebbe stare in Italia solo in condizione di detenzione e non potrebbe invece fruire di nessuna misura ad essa alternativa.
Secondo la Corte di Cassazione, la condizione di soggiornante irregolare, sarebbe di per sé, senza particolari motivazioni aggiuntive, incompatibile con la ammissione alle misure alternative.

La garanzia del principio della funzione rieducativa della pena
Il Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, con ordinanza del 24 maggio 2005, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ovvero, si è rivolto alla Corte Costituzionale chiedendo di pronunciarsi sulla compatibilità tra le norme che regolano il trattamento penitenziario e le misure alternative, rispetto a quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione, che sancisce il principio della funzione rieducativa della pena.
La condanna da scontare, nelle varie forme previste dalla legge, ha una funzione rieducativa, questa verrebbe pregiudicata nei confronti dello straniero irregolare che non potesse fruire, con le stesse modalità e le stesse forme degli altri cittadini condannati, delle misure alternative alla detenzione.
Numerose sentenze della Corte di Cassazione, che è il massimo organo della giurisdizione in Italia, hanno trattato questo argomento con orientamenti difformi.
Le Sezioni Unite della Cassazione si sono successivamente pronunciate nel senso esattamente opposto rispetto alla sentenza che, invece, ritenendo incompatibile con la condizione di irregolare soggiorno la fruibilità di misure alternative, aveva dato luogo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari.

La questione di legittimità costituzionale
La Corte di Cassazione Sezione Unite, con la successiva sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006, è tornata sull’argomento, riconoscendo invece, con maggiore autorevolezza, che la condizione di irregolarità del soggiorno non osterebbe, in linea di principio, alla concessione di misure alternative.
La questione di legittimità costituzionale precedentemente sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Cagliari è comunque pervenuta all’esame dalla Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla questione con la Sentenza del 5 marzo 2007 depositata il 16 marzo.
La sentenza merita un commento in quanto la Corte Costituzionale ha messo un punto fermo, aggiungendo la propria interpretazione, e confermando quella già fatta propria dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge 354/75 ove risultino interpretati nel senso che, allo straniero entrato irregolarmente nel territorio dello Stato, o comunque privo di permesso di soggiorno, siano precluse le misure alternative da essi previste.
Nessuna autorità giudiziaria, in seguito a questa sentenza, potrà più affermare l’impossibilità di ammettere lo straniero, condannato e detenuto, alle misure alternative, per il solo fatto che egli risulti irregolarmente soggiornante fin dall’inizio del suo soggiorno in Italia, o che, come più spesso accade, sia divenuto irregolarmente soggiornante anche a seguito dei trascorsi giudiziari che lo hanno portato in carcere.
In nessuno di questi casi si potrà escludere, in linea di principio, l’ammissibilità alle misure alternative, pertanto, lo straniero extracomunitario che sia privo o meno di permesso di soggiorno, avrà la stessa legittimazione a proporre, tramite il proprio difensore, la domanda di applicazione di una misura alternativa o di più misure alternative, alle stesse condizioni previste per un cittadino italiano.

Rimangono difficoltà pratiche
Nella pratica si verifica che, per lo straniero in condizione irregolare, è molto più difficile ottenere il riconoscimento di una misura alternativa, perché, normalmente, ha una minore possibilità di difesa tecnica, cioè minori possibilità di pagare un avvocato e di essere assistito in maniera puntuale, meno radicamento nel territorio, meno riferimenti esterni rispetto al carcere, con conseguenti maggiori difficoltà, ad esempio, a trovarsi un’occupazione o un alloggio, condizioni essenziali per l’ammissibilità della richiesta di alcune misure alternative.
Non sono ammissibili discriminazioni nell’applicazione delle misure alternative di espiazione della pena
A prescindere da questi problemi pratici, seppur non di poco conto, dal punto di vista giuridico, questa sentenza mette fine alle controversie sull’ammissibilità o meno delle persone senza documenti alle misure alternative, riconoscendo che il principio garantito a livello costituzionale, della funzione rieducativa della pena, si deve applicare totalmente, ed in piena coerenza, anche ai cittadini stranieri privi di un regolare permesso di soggiorno.
La Corte Costituzionale, in una delle ultime frasi della sentenza, precisa che il legislatore potrebbe in linea teorica diversificare le forme sanzionatorie previste, nel caso di stranieri entrati irregolarmente nel territorio dello Stato, o privi di permesso di soggiorno, ma senza potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative nei termini automatici della cosiddetta incompatibilità concettuale, fatti propri dalla Corte di Cassazione nella sentenza citata e che aveva dato luogo al procedimento. Un simile divieto contrasterebbe, secondo la Corte Costituzionale, con i principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla base del principio dell’uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena, non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento, sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale.

La Corte precisa inoltre che non può trovare spazio nel nostro ordinamento costituzionale una incompatibilità concettuale tra le misure alternative e il soggiorno irregolare, dal momento che la mancanza di un titolo abilitativo al soggiorno, di per sé, non è sintomatica in modo univoco né di una particolare pericolosità sociale, che sarebbe quindi incompatibile con il perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi misura alternativa, né della sicura assenza di un collegamento col territorio, che garantisca la proficua applicazione della misura medesima.
In conseguenza di questo automatismo che sarebbe stato applicato dalla Corte di Cassazione vengono quindi ad essere accomunate situazioni eterogenee; in altre parole, se fosse vero, come ha sostenuto la Corte di Cassazione, che la condizione di irregolarmente soggiornante è incompatibile con qualsiasi misura alternativa, si verrebbe ad assoggettare alle stesse misure esclusive una serie di situazioni soggettive diversificate, come ad esempio, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzonale, quella dello straniero entrato clandestinamente nel territorio in violazione del divieto di reingresso, e detenuto proprio per questo motivo, o quella dello straniero che abbia semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per un reato che non riguarda la normativa in materia di immigrazione.
Si tratta di situazioni completamente diverse, che verrebbero appiattite in un identico trattamento di esclusione, e questo non avrebbe nessuna ragione dal punto di vista delle misure alternative che è appunto quello di rieducare e non quello di affliggere o punire ulteriormente lo straniero detenuto.

La condizione di persona soggetta all’esecuzione di una pena costituisce il titolo di soggiorno
In merito alla incompatibilità tra la normativa e il Testo Unico sull’immigrazione, ovvero tra la condizione di straniero irregolarmente soggiornante e l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, che costituirebbe l’argomento fondante di questa esclusione disposta a suo tempo dalla Corte di Cassazione, proprio la condizione di persona soggetta all’esecuzione della pena costituisce il titolo di soggiorno. Secondo quando affermato dalla Corte Costituzionale, quando una persona è sottoposta all’espiazione di una pena in Italia è obbligata a soggiornarvi.
Il fatto di essere sottoposti all’espiazione della pena, nel tempo della sua durata, comporta un obbligo di soggiorno sul territorio nazionale.

La pena stessa costituisce il titolo di soggiorno che, non solo autorizza, ma obbliga al soggiorno sul territorio italiano. Se questo è vero, secondo la Corte Costituzionale, non vi sarebbe un’incompatibilità fra la condizione di irregolare e la condizione di soggetto che chiede l’applicazione di misure alternative, poiché i presupposti che giustificano la detenzione in carcere sono gli stessi che dovrebbero giustificare, di fronte ai requisiti previsti dalla legge, la fruizione delle misure alternative.
La Corte Costituzionale ha con questa sentenza messo fine a qualsiasi controversia al riguardo e si può dire che lo straniero irregolare non è escluso dalle misure alternative.
La decisione riporta la situazione ad un minimo di parità di trattamento dal punto di vista dello straniero condannato rispetto ai cittadini italiani o rispetto ai cittadini regolarmente soggiornanti, nel senso che tutti, almeno in astratto e salvo i problemi pratici e sostanziali ai quali si è fatto riferimento, potrebbero essere ammessi alle stesse misure.

Dopo l’espiazione della pena riprende il procedimento di espulsione
È utile specificare che, nel momento in cui la pena cessa, e con essa la misura alternativa, con completa espiazione della pena, lo straniero che si trovava in condizione di irregolare soggiorno prima di essere arrestato e condannato, rimane irregolarmente soggiornante.
Il fatto di aver compiuto un reato ed espiato la relativa pena non innesca una procedura di regolarizzazione; a quel punto può riprendere corso il normale trattamento sanzionatorio previsto dalla legge per lo straniero irregolarmente soggiornante, quindi l’espulsione.
Naturalmente, la sentenza si occupa soltanto di stabilire un principio di non discriminazione, di fronte alla Costituzione, tra cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno e cittadini con permesso di soggiorno o italiani, sotto il profilo dell’uguale trattamento nell’ambito della espiazione della pena, sia quella scontata in condizioni di detenzione, ma anche quella scontata secondo le misure alternative disciplinate dalla legge. La questione riguarda solo questo aspetto, non può cioè far sollevare allarme a chi volesse sostenere che la Corte Costituzionale intenda favorire la permanenza di stranieri irregolari sul territorio italiano.
Resta infatti chiaro che, una volta terminata l’espiazione della pena, anche sotto forma alternativa, la condizione di irregolarità del soggiorno non può che dar luogo al provvedimento di espulsione.

I casi particolari di inespellibilità
L’espulsione non può essere eseguita solo nei casi particolari e rari previsti dalle legge, in cui vi siano condizioni oggettive o soggettive dello straniero che consentano la permanenza sul territorio italiano.
In base all’art.19 del T.U., uno straniero irregolarmente soggiornante è inespellibile nel caso in cui corra il rischio di subire persecuzioni, trattamenti disumani o degradanti, nel proprio paese di origine, o nel paese in cui dovrebbe essere inviato a seguito del provvedimento di espulsione.
Ancora, l’espulsione non può avere luogo nel caso di persone che siano conviventi con cittadini italiani, o coniugi, o parenti entro il quarto grado. Nel caso in cui vi sia convivenza con persone aventi queste caratteristiche, l’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione, prevede il divieto di espulsione, salvo che la persona non risulti pericolosa per la sicurezza dello Stato, o l’ordine pubblico. In questo caso, nonostante la condizione irregolare di soggiorno, l’applicazione di questa norma, che prevede il divieto di espulsione in relazione a particolari rapporti di parentela o di matrimonio con cittadini italiani e alla convivenza con questi, permette di autorizzare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di famiglia valido anche per lavoro.
La giurisprudenza, sia pure in pochi casi sinora, ha anche elaborato in via interpretativa la inespellibilità per motivi di salute, quando l’esecuzione dell’espulsione potrebbe esporre lo straniero al rischio di morte o aggravamento della malattia, a fronte della particolare condizione condizione di salute e della necessità di cure non disponibili nel paese di destinazione (ad es. persone affette da AIDS o in attesa di trapianto di organi).
Inoltre, il D.Lgs. n°5/2007, che recepisce a direttiva UE n°86/2003, avrebbe fatto venir meno l’automatismo dell’espulsione, cui si dovrebbe sostituire una attenta valutazione caso per caso, nel caso di persone che abbiano altri familiari in Italia, sicché anche nel caso di stranieri condannati per delitti, la valutazione della presenza di altri familiari e del loro grado di integrazione nel territorio potrebbe comportare una decisione favorevole sulla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno come pure la revoca del provvedimento di espulsione, nonostante le specifiche circostanze ostative previste dall’art.4 comma 3 del T.U.. Va detto, però, che l’interpretazione di questa norma di recentissima introduzione nel nostro ordinamento non è ancora chiara, come poco chiare risultano pure le scarne circolari al riguardo, e soprattutto la sua applicazione non risulta ancora “assimilata” dalle questure, quindi non è possibile per il momento tracciare con qualche seria approssimazione la sua portata effettiva dal punto di vista pratico.
Escludendo questi rari casi, la condizione del cittadino irregolare, terminata l’espiazione della pena, riprende il suo normale corso dal punto di vista dell’applicazione del sistema sanzionatorio.

Il procedimento di espulsione e la vanificazione dei processi di reinserimento
La condizione dello straniero che viene condannato e incarcerato e poi partecipa a un programma di rieducazione con attività partecipativa valutata positivamente, e che successivamente beneficia di misure alternative, comportandosi bene, e dimostrando capacità e volontà di reinserimento nel territorio, anche nei casi di persone da molti anni in Italia, in possesso di regolare permesso di soggiorno perso proprio a causa di successive vicende giudiziarie, preoccupano chi opera all’interno della struttura penitenziaria.
In particolare, chi opera nei servizi sociali e nei progetti di reinserimento sociale, ritiene che, questo sistema, faccia venir meno gli strumenti di governo del fenomeno e anche di incentivo alla rieducazione dei soggetti.
E’ evidente che, se non c’è la possibilità di prospettare ad una persona che si comporta bene, e che partecipa a un progetto di rieducazione, non solo la possibilità ma nemmeno la speranza di continuare a vivere nel territorio in cui ormai si è radicato, dove il soggetto ha stretto una rete di relazioni umane, affettive e di lavoro, ben difficilmente si potrà sperare nella collaborazione di ampi strati della popolazione penitenziaria.
Se non per motivi di giustizia per lo meno per motivi di pragmatismo, gli operatori del settore si sentono fortemente a disagio perché vedono vanificato il lavoro di facilitazione e di promozione del reinserimento sociale e della rieducazione del detenuto, ogni qual volta il percorso viene interrotto, ed una volta espiata la pena lo straniero si trovi ad essere espulso.
L’ auspicio è che si possa almeno prendere in considerazione, nell’ambito di una valutazione discrezionale da parte degli stessi servizi dell’amministrazione penitenziaria che sono preposti all’applicazione delle misure alternative, la possibilità di misure pur discrezionali di reinserimento e di risocializzazione dei condannati, che consentano di regolarizzare, in particolari condizioni, la situazione di soggiorno; in particolare nei casi in cui la persona viva da molti anni in Italia, non conservi più alcun legame con familiari, parenti e la comunità del proprio paese, che, dopo un episodio giudiziario che lo ha portato a una condanna, abbia partecipato fattivamente e con buoni risultati valutati dall’amministrazione penitenziaria a un processo di riabilitazione.
Al riguardo si registra un diffuso disagio a tutti i livelli degli operatori dell’amministrazione penitenziaria, che sarebbe bene fosse espresso e debitamente portato a conoscenza dell’amministrazione centrale.

Revoca del pds in seguito a condanna penale
La legge Bossi-Fini ha ulteriormente appesantito le conseguenze per il permesso di soggiorno a fronte di condanne penali, introducendo un vero e proprio automatismo: infatti, il nuovo testo che è stato introdotto dalla legge Bossi Fini nel 2002 (art. 4, comma 3 del T. U. sull’Immigrazione) prevede che, in via automatica, lo straniero che risulti condannato per una serie di reati, con sentenza definitiva, non possa più rinnovare il permesso di soggiorno e anzi, che questo, se in corso di validità, debba essere revocato da parte dell’autorità di polizia.
Questa norma, stabilita dalla legge Bossi-Fini, legge 189 del 2002, ha suscitato serie preoccupazioni proprio perché, a fronte di questo automatismo, in caso di condanna, anche a seguito di semplice patteggiamento, automaticamente e senza possibilità di effettuare una valutazione caso per caso, si prevede di fatto l’ingresso nella clandestinità e la successiva espulsione.
Da un lato, dunque, chi era clandestino al momento dell’arresto, o lo è divenuto successivamente, una volta espiata la pena deve essere espulso. Dall’altro abbiamo una norma che, in caso di condanna, automaticamente produce la clandestinità dello straniero, nel senso che comporta obbligatoriamente la revoca dell’eventuale permesso di soggiorno che precedentemente fosse in suo possesso.
Quando uno straniero entra in carcere, se prima era clandestino rimane tale, e successivamente all’espiazione della pena viene espulso. Se invece non era clandestino lo diventa, e quindi viene comunque espulso una volta espiata la pena. Questo in relazione ad una lunga serie di reati, senza distinguere nemmeno in relazione alla loro gravità. Addirittura reati che di fatto non comportano una effettiva detenzione, reati per i quali si applica la sospensione condizionale della pena, possono esporre lo straniero, a seguito della sentenza divenuta definitiva, alla perdita del permesso di soggiorno e alla successiva espulsione.

L’elenco dei reati che viene contemplato dall’art. 4, comma 3, del T.U. è molto lungo, comprende anche reati di modestissima entità, anche sottoposti ad un accertamento puramente formale, ad esempio nel caso di patteggiamento: in questo caso, la condanna non viene irrogata dopo un effettivo accertamento compiuto nel dibattimento, bensì in base al meccanismo della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato (talvolta incautamente consigliata dal difensore, magari nominato d’ufficio, senza tener conto delle conseguenze sul piano amministrativo).
La lista dei reati che comportano questa conseguenza della perdita del permesso di soggiorno una volta venuta definitiva la sentenza di condanna, è molto lunga. Sono tutti i reati previsti dall’art. 380 commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale, che comprende tutti i reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, è sufficiente la condanna per un reato di modestissima entità (furto con scasso di una bicicletta) per subire come effetto automatico, in base al nuovo testo introdotto dalle legge Bossi- Fini, la perdita del permesso di soggiorno e la successiva espulsione. In questa lista rientrano anche reati di maggiore gravità, come quelli in materia di stupefacenti, in materia di libertà sessuale, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e in materia di sfruttamento della prostituzione, che, ovviamente, possono avere diverse intensità e gravità. In questi casi appunto, la legge ora prevede una sorta di automatismo.
È un automatismo che suscita qualche perplessità, proprio riguardo alla indiscriminata applicazione dello stesso trattamento, a prescindere dalla gravità del fatto commesso, e soprattutto senza che vi sia alcun potere o dovere di valutazione del caso concreto, ma un’applicazione semplicemente e puramente automatica.