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da QuadrantEuropa del 18 settembra 2006

Spagna. Le pene europee e spagnole con l’immigrazione africana

Solo degli inguaribili ottimisti possono vedere unicamente del bene nelle ondate di migrazioni africane verso l’Europa. Non è positivo vedere che l’Europa resta la stella polare per l’Africa e gli africani, un luogo verso cui fuggire la disperazione e la noia?
Se il vecchio continente è il luogo arrivo dei sogni di vita migliore per centinaia di migliaia di africani, non è questa la prova che l’Europa è rimasta uno spazio attraente per vivere e lavorare?
Non si contrappone forse l’immigrazione alla pericolosa tendenza europea a diventare una colossale casa di riposo, nella quale alla lunga il numero dei giovani non sarà più in grado di coprire il bisogno di forza lavoro, e dove le persone in età lavorativa saranno sempre meno in grado di arginare il numero crescente di pensionati?
In realtà, così il coro degli ottimisti, gli europei dovrebbero essere contenti che i loro problemi demografici vengano risolti dall’Africa e dagli altri continenti.

Tali considerazioni sembrano però lontane dalla realtà.
Il mondo politico, nonostante l’Onu e altre organizzazioni sopranazionali, si concepisce ancora nei termini degli Stati nazionali. Gli Stati hanno delle frontiere che devono far rispettare ai propri cittadini, come a quelli degli altri paesi.
Non esiste ancora un diritto mondiale alla migrazione, nessuna libertà di insediamento cui si possano estendere i diritti previsti dalla comunità internazionale per la tutela dalle persecuzioni politiche, religiose o razziali.

Gli immigranti non sono rifugiati politici protetti da convenzioni internazionali.
L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani, parla certo del diritto di abbandonare gli Stati, ogni Stato, compreso il proprio; il diritto però a stabilirsi nel paese che si è scelto, non esiste ancora.

L’attuale carovana dei boots people provenienti da Senegal e Gambia verso le isole Canarie, mette davanti agli occhi del mondo, le conseguenze negative di un esodo incontrollato e caotico.
Secondo valutazioni fatte nei paesi di origine, tra il 20 e il 40% dei passeggeri pagano con la vita viaggi pericolosi che possono durare anche nove giorni. Ciò nonostante nell’anno in corso già 20mila africani sono riusciti a mettersi in salvo sulle coste delle isole Canarie.

Le possibilità delle autorità locali, non essendo più in grado di ospitare né di identificare le persone, sono allo stremo. La maggioranza dei protagonisti di queste odissee arrivano senza documenti ben sapendo che senza essere identificati, non saranno rispediti nei rispettivi paesi d’origine.
Come dimostrano le crescenti dichiarazioni xenofobe, questa pressione di massa sta facendo venir meno anche la pazienza e l’ospitalità degli abitanti dell’isola.
Non tutti gli spagnoli vogliono ricordare i tempi, quando erano loro a doversi affidare alla generosità dei paesi da cui volevano farsi accogliere.
Mai interpellati, presi di sorpresa e impreparati, i residenti reagiscono agli esodi con riflessi condizionati di difesa, impregnanti di emozionalità razzista.

Il governo spagnolo, i conservatori come i socialisti, guidato dalla convinzione di dover combattere l’economia sommersa che trae profitto dalla presenza di forza lavoro illegale, negli ultimi anni ha legalizzato quasi tutti i rapporti abitativi e di lavoro illegali.
La “regularización” corrispondeva anche al punto di vista che non è possibile risolvere il problema dell’immigrazione illegale con mezzi unicamente polizieschi. Con ciò Madrid ha però creato inconsapevolmente, nuovi stimoli all’immigrazione illegale.
Oggi questa prassi del governo socialista, che nell’ultimo anno ha messo in regola circa 100mila lavoratori illegali, viene messa sotto accusa dalla Commissione europea. Ciò impedisce a Madrid di trovare un forte sostegno delle istituzioni europee al suo desiderio di liberarsi dalla pressione migratoria africana. Le recenti dichiarazioni dei politici socialisti indicano che si è compreso il meccanismo perverso delle legalizzazioni di massa e in futuro si troveranno altre strade.

L’argomento più stringente contro le migrazioni incontrollate di persone senza identità non sta nell’incapacità di gestirle, nella paura di importare criminalità o nel timore di perdere la propria coscienza culturale, ma nelle condizioni politiche ed economiche dei paesi di origine degli emigranti.
Per molti governi africani l’esodo rappresenta un doppio sollievo. Da una parte si liberano di giovani uomini, persone senza lavoro e prospettive che affollano le periferie delle proprie città. Dall’altra ritengono che con le rimesse degli emigranti, riusciranno a far calare una pressione sociale che monta rabbiosa.
Se sarà possibile esportare la disoccupazione, così pensa buona parte della classe dirigente del continente nero, la creazione di nuovi posti di lavoro sarà meno impellente e la questione dello sviluppo potrà essere messa in secondo piano.

La connessione tra i lacunosi sforzi per lo sviluppo e la migrazione di massa, è chiaramente visibile in Senegal, terra di partenza della maggioranza degli emigranti che al momento puntano verso la Spagna.
Le condizioni naturali della popolazione, circa il 60% lavora nell’agricoltura, non sono minacciate solo dal super sfruttamento delle terre e dal loro disboscamento, ma anche da fattori climatici come l’incostante quantità delle piogge, tendenzialmente in fase calante.
Dei 100mila giovani di Dakar che quest’anno hanno fatto pressione sul mercato del lavoro, solo in pochi troveranno un’occupazione. Ciò ha sicuramente però anche a che fare con il pessimo clima degli investimenti, su cui porta dirette responsabilità il governo del presidente Wade.
Le agenzie economiche internazionali danno nome e cognome a queste responsabilità: infrastrutture nel settore dei trasporti pari quasi a zero, cattivi rifornimenti idrici e pessime condizioni sanitarie, deficit nell’istruzione scolastica, pubblica amministrazione in condizioni caotiche, rapporti clientelari, corruzione e lacune nelle condizioni della sicurezza pubblica.

L’enorme dipendenza della maggioranza dei paesi africani dagli aiuti allo sviluppo, mette nelle mani degli europei una leva con cui è possibile combattere alle radici le cause dell’immigrazione illegale.
Le politiche allo sviluppo devono andare strettamente legate a quelle sulle migrazioni.
Gli aiuti allo sviluppo devono essere mirati a quei progetti, che creano maggiori di posti di lavoro. Dai paesi beneficiari bisogna attendersi un aiuto a combattere l’emigrazione illegale, soprattutto impegnandosi a riaccogliere gli espulsi.
La richiesta di una migrazione legale offre ad ogni modo strumenti per una politica dello sviluppo – a condizione che non sia solo la forza di lavoro qualificata ad essere assorbita, ma una chance la abbiano anche lavoratori meno qualificati.

Il piano d’azione deciso a luglio in una conferenza dei ministri africani ed europei a Rabat, va proprio nella direzione dell’auspicato collegamento tra le politiche di migrazione e quelle dello sviluppo.
Servirà però ancora tempo per far sì che nei paesi di origine degli emigranti, le condizioni dell’occupazione migliorino sostanzialmente.
Nel breve periodo alla Spagna non resta niente di meglio da fare, che tentare di puntare alla cooperazione con il Senegal e pattugliare insieme a Dakar le coste da dove partono tanti giovani senza lavoro.