Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Peacereporter on line dell'11 aprile 2006

Stati Uniti d’America latina

I repubblicani sono spaccati tra inflessibili e pragmatici. Gli immigrati ispanici e i loro figli, spesso già cittadini americani, fanno sentire la loro pressione scendendo in piazza a centinaia di migliaia. La popolazione vorrebbe misure più severe contro i clandestini, ma riconosce che senza di loro il Paese si fermerebbe. Su questo sfondo si sta sviluppando negli Usa il più grande dibattito sull’immigrazione dai tempi di Reagan. Nel Paese, si calcola, vivono 12 milioni di persone senza documenti, ogni anno ne arriva un altro milione: come vanno trattati? Quali diritti concedere agli immigrati e quanti accoglierne? Sono solo alcune delle domande che dividono gli Usa e la classe politica, chiamata a risolvere questo rebus con un occhio alle elezioni che il prossimo novembre rinnoveranno il Congresso.

Le proteste. Il pomo della discordia è la proposta di legge Hr4437, o legge Sensenbrenner, approvata in dicembre dalla Camera dei rappresentanti. Il provvedimento renderebbe un reato grave la presenza illegale negli States, punirebbe chi dà aiuto o lavoro ai clandestini, aumenterebbe le multe nei confronti di chi è senza documenti, e darebbe il via alla costruzione di oltre 1.000 chilometri di muro sul confine tra Stati Uniti e Messico, con l’obiettivo di arrivare un giorno a far correre la barriera dal Pacifico all’Atlantico. Un vero e proprio giro di vite voluto dall’ala più conservatrice dei repubblicani, contro cui si è schierato anche il presidente Bush, favorevole a permessi temporanei per gli immigrati che lavorano. A fine marzo, prima che la discussione sul tema riprendesse al Senato, i latinos hanno fatto sentire in massa la loro voce. Le manifestazioni di Los Angeles (500mila persone) e Chicago (300mila) non sono passate inosservate. La scorsa domenica, a Dallas, altri 350mila ispanici sono scesi nelle strade. E ieri, lunedì 10 aprile, manifestazioni di protesta sono andate in scena in circa 60 città degli States, portando in piazza centinaia di migliaia di persone.

La nuova proposta. Dal Senato è subito arrivata una proposta alternativa, approvata dalla commissione Giustizia con 12 voti a 6 (quattro repubblicani si sono schierati con i democratici). Oltre a raddoppiare le green card (i permessi di soggiorno), la bozza prevedeva la legalizzazione dei clandestini e al tempo stesso offre un percorso – lungo fino a 11 anni – verso l’acquisizione della cittadinanza. Se avranno un lavoro, dimostreranno di conoscere l’inglese, non si saranno macchiati di reati, pagheranno multe e tasse, gli immigrati illegali usciti allo scoperto diventeranno cittadini americani. Una parte del Partito repubblicano l’ha subito bollata come un’amnistia. “Sarebbe come una campana che suona per annunciare: venite, venite tutti”, ha detto Bob Beauprez, un deputato del Colorado. E la settimana scorsa il Senato non è riuscito ad approvare il testo preparato dalla Commissione. Ora ritorna tutto in gioco: il Congresso – dove i lavori ricominceranno solo tra due settimane – dovrà trovare per forza un compromesso. Materia spinosa per il partito di Bush, diviso tra una componente più conservatrice, sensibile alla questione dell’identità, e una parte più vicina agli imprenditori, che sa benissimo come il Paese non possa fare a meno della manodopera a basso costo fornita dai clandestini.

Il voto di novembre. Il fatto che tra sette mesi ci siano le elezioni per il Congresso complica il dibattito: i politici sanno che in ballo ci sono i voti della crescente popolazione ispanica, ormai più numerosa di quella afro-americana (oltre un cittadino su otto è latino, e nel 2004 il 40 per cento degli ispanici ha votato per Bush). Ma devono coniugare il desiderio di accaparrarseli con l’esigenza di non deludere gli elettori che auspicano frontiere più sicure. E non sono pochi: secondo un sondaggio, l’82 per cento della popolazione crede che il governo non stia facendo abbastanza per chiudere le frontiere ai clandestini.

Una grana per Bush. Cosa possa fare, però, non lo sa nessuno. Solo un americano su tre pensa che un muro alla frontiera fermerebbe gli irregolari, e un recente rapporto del Pew Hispanic Center, un istituto di ricerca sul mondo degli immigrati, ha demolito l’equazione “clandestino uguale messicano che ha attraversato il deserto a piedi”: la maggioranza degli irregolari sono immigrati che restano negli Usa dopo la scadenza del visto. L’ultima riforma dell’immigrazione, nel 1986, sperava di aver tappato la falla, promettendo di punire i datori di lavoro che impiegavano clandestini e offrendo una sanatoria per gli irregolari che risiedevano negli Usa da almeno cinque anni. Lungi dall’essere risolto, il problema dell’immigrazione illegale esplose nel decennio successivo. Vent’anni dopo, i clandestini sono più che triplicati. E se Bush stavolta non ha colpe, la responsabilità di trovare una soluzione ora tocca a lui. Sempre che una soluzione ci sia.

Alessandro Ursic