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Status di rifugiata: la giovane donna è esposta al rischio di persecuzione, legato all’appartenenza di genere oltre che ad un gruppo sociale altamente vulnerabile

Tribunale di Catanzaro, ordinanza del 18 ottobre 2020

Il Tribunale di Catanzaro ha riconosciuto la più ampia forma di protezione internazionale, lo status di rifugiata, ad una cittadina nigeriana vittima di sfruttamento a sfondo sessuale e di tratta.
La pronuncia è da segnalare anzitutto dal punto di vista processuale e “metodologico”: il Giudicante fa proprio il principio di cooperazione istruttoria ormai consolidato nella giurisprudenza interna di legittimità (da ultimo Cass. 15797/2019 e 16028/2019) ed in quella sovranazionale (CGUE nella sentenza M. vs. Ministero della Giustizia Irlanda C- 277/11 del 22 novembre 2012), che trova fondamento negli artt. 3 del D. Lgs. n. 251/2007, nonché 8 comma 3 e 27 comma 1-bis del D. Lgs. 25/2008.
In particolare, secondo il Collegio: “la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, che però subisce una attenuazione, nel senso che se è onere del richiedente asilo indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio, è dovere del giudice quello di cooperare nell’esame della individuazione degli elementi essenziali della stessa. L’attenuazione del principio dispositivo (…) trova il suo fondamento nello squilibrio che esiste tra le parti del processo a causa delle oggettive difficoltà per il richiedente di procurarsi le prove dei fatto che pone a base della sua domanda”.
Sulla scorta di tale approccio poi, entrando nel merito della domanda, è stato possibile il mai facile accertamento delle vicissitudini patite dalla ricorrente poste a fondamento del ricorso, già accennate, ritenute rilevanti dal Giudicante più precisamente e schematicamente nei seguenti punti:
a) Le caratteristiche soggettive della donna adescata: giovane età, priva di scolarizzazione, di bassa estrazione sociale, proveniente dall’Edo State e da villaggio rurale, in cerca di migliori condizioni di vita;
b) Le condizioni della famiglia di origine: inidoneità a garantirle il sostegno, affidamento ad un’estranea che non l’ha fatta studiare ma lavorare fin dalla più tenera età;
c) Le modalità di adescamento: avvicinata nel suo ambiente di lavoro da uomini che la convincono ad ottenere migliori condizioni di vita in Libia;
d) L’organizzazione della tratta: con il ruolo della c.d. “madam” – donna che si presenta ben vestita e curata nell’aspetto, immaginata come colei che ha raggiunto una certa posizione sociale a cui le ragazze adescate aspirano – che organizza il viaggio attraverso la rotta delle migrazioni illegali affidando la giovane donna a diversi trafficanti nei punti di contatto (BeninCity, Kano, Saba, Tripoli) fino a condurre la giovane nella c.d. “connection house”;
e) La non opposizione della famiglia di origine: nell’aspettativa di ricevere un ritorno economico dalla ragazza “sacrificata”;
f) La scarsa credibilità e la poca chiarezza nel racconto, in contrapposizione alla facilità con la quale la r.a. riesce a liberarsi dalla situazione di sfruttamento sessuale;
g) Il giuramento di fedeltà: la sussistenza di un giuramento mediante un rito magico, “voodoo” o “juju”, accompagnato da minacce all’incolumità della vittima e/o a quella dei propri familiari rimasti nel paese di origine. Le vittime considerano il giuramento pronunciato in una cerimonia juju come un giuramento solenne e quindi non lo infrangono facilmente. Il giuramento, inoltre, non si può rinegoziare ed è considerato vincolante, indipendentemente dal luogo in cui si trovano le vittime.

Sono stati quindi ritenuti sussistenti tutti gli elementi previsti dalla normativa invocata (il fondato timore di subire atti di persecuzione, i suoi motivi e responsabili, nonché l’impossibilità di chiedere protezione al Paese d’origine), atteso che “In definitiva deve ritenersi che la richiedente è esposta al rischio specifico di persecuzione, legato all’appartenenza di genere oltre che ad un gruppo sociale altamente vulnerabile (giovane età, scarsa scolarizzazione, ceto sociale basso)”, così da permettere il riconoscimento della massima forma di protezione internazionale.

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Tribunale di Catanzaro, ordinanza del 18 ottobre 2020

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