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Storie In & Out – Donne tra integrazione e quotidianità a Ravenna

Un documento video di Aurora De Simoni

Il perché di questo documento video?
Intervistare 5 donne che si occupano d’ immigrazione a Ravenna, e farle parlare di loro per un’ora di fila mi è sembrato l’unico modo per cogliere elementi soggettivi di solito poco conosciuti. La TV italiana pone l’accento esclusivamente sui mezzi per contenere e gestire l’immigrazione, con un discorso troppo spesso generale, superficiale e soprattutto monolitico.
“Ogni cosa è fiction” e anche l’ individuo esplorato nelle sue viscere, sezionato e spiato nei suoi gesti è oggetto, corpo, merce e eroe da vetrina. Sul tema dell’immigrazione a questo scenario di marionette si aggiunge il chiaro intento di distorsione della realtà a scopi propagandistici.
Cercare di entrare nella quotidianità delle donne è stato un modo per ricostruire (tinteggiare) la realtà di un’identità perduta e mostrare il volto di donne forti e dolci, accompagnate dalle loro emozioni e scelte di vita. Ne è venuta fuori un racconto collettivo di stili di vita e pratiche al femminile, in cui la dimensione pubblica e la ricerca d’integrazione dimora innanzitutto in una condizione più intima e privata.

Perché ha così tanto valore parlare di donne immigrate?
A differenza di quanto si pensi più che gli individui sono le famiglie ad esser il nuovo attore strategico, sia dei processi migratori che in quelli d’ integrazione. Il contributo delle donne è prezioso nei processi di mediazione sociale fra la propria identità e quella della famiglia, garantisce stabilità nell’insediamento e, allo stesso tempo, è molla per il rinnovamento.
Spesso è proprio la donna il soggetto principale di congiunzione con i figli, divenendo un soggetto aggregante nella composizione familiare e del territorio.
Inoltre un elemento che caratterizza i percorsi migratori al femminile è la forte valenza emancipatoria e anche la creazione di sinergie tra culture differenti.
Sappiamo che, insieme alla situazione economica svantaggiata, il minor grado di integrazione accresce la propensione degli immigrati a commettere reati. La condizione femminile dunque dovrebbe essere al primo posto in ragionevoli politiche per la sicurezza, a maggior ragione con la progressiva femminilizzazione dei flussi migratori. Come ad esempio un provvedimento urgente dovrebbe essere quello del riconoscere nei più brevi tempi possibili i ricongiungimenti familiari.

Qual’è il significato del titolo?
In & Out, è da intendere come il contrasto tra lo spazio privato, intimo e lo spazio pubblico, sociale, la contrapposizione tra la potenziale sfera di inclusione e di esclusione che uno straniero può vivere nella propria vita. Nelle donne entrambe le condizioni entrano in gioco nella sfida per l’integrazione, visto che la maggior parte dei lavori che una straniera può trovare sono spesso all’interno di una famiglia, come domestica, assistente familiare o in un’attività di lavoro autonomo nella casa del datore di lavoro o nella propria abitazione.

E’ un documentario femminista?
La rivendicazione del pieno esercizio dei diritti umani e dell’uguaglianza nell’accesso alle risorse, ai servizi pubblici e ai processi decisionali delle donne straniere, impone alla ricerca una prospettiva sensibile alla questione di genere. Questo è dovuto pricipalmente al fatto che è facile trovare all’interno dei processi d’integrazione al femminile un tipo di discriminazione, definita multipla o incrociata: sia legata al concetto di razza, sia a quello di genere.
Ma anche nel metodo scelto questo documentario fa proprie le critiche di quelle ricercatrici femministe nei confronti delle analisi sociali costruite attraverso l’abuso delle ricerche di tipo quantitativo che hanno reso le donne, le loro storie, vissuti e istanze, invisibili. Queste interviste invece hanno l’ambizione di privilegiare la conoscenza esperienziale e la riflessività, contribuendo a narrare le persone, considerate nella loro interezza, come “esseri che creano e scoprono il significato delle loro azioni”, poco omologabili e per niente fisse nel tempo. La dimensione privata può rappresentare sempre più uno spazio intimista nel quale rivolgere le proprie emozioni e il proprio immaginario. E’ proprio di questo spazio che sono andata alla ricerca. A tratti, molto intensi ci sono riuscita!

Cosa dicono le donne, cosa è emerso?
Le protagoniste sono in Italia per i motivi più differenti, non solo attribuibili a bisogni economici. Tina se n’ è andata dalla Nigeria per scappare a persecuzioni dei figli albini (malauguranti nella tradizione popolare); Marga andata via dalla Colombia per essersi innamorata di un italiano; Elettra, greca divenuta italiana a 18 anni, ora Assessore all’ Infanzia di Ravenna, aveva i genitori esuli politici. Poi c’è Marisa che sarebbe pure italiana, ma convertita all’Islam si ritrova a vivere a tratti una condizione da “straniera”.
Per tutte un elemento d’emancipazione passa attraverso la conquista di un’autonomia lavorativa. Tina dopo 10 anni di corsi e lavori è riuscita ad aprire un negozietto d’alimentari a S. Agata per poter dedicare tempo alle sue due figlie e finalmente avere un po’ d’autonomia. Marga, racconta la sua frustrazione quando da avvocato contro il narcotraffico in Colombia, si è trovata davanti come unica possibilità lavorativa in Italia quella di cameriera. Marisa invece da quando indossa il velo riscontra ostilità e difficoltà nei lavori, soprattutto da dipendente: “La donna con l’ hijab – racconta – è vista come oppressa, ma l’uomo che impone il velo non impone solo quello e questo dipende dai conflitti di genere presenti ovunque. Voler liberare la donna dal velo è nascondere il vero problema”. Elettra prosegue “viviamo in una società maschilista con un’apparenza di regime emancipatorio alto, nonostante la realtà di dati terrificanti che mostrano l’alto tasso d’ istruzione delle donne ma non d’occupazione”.
Queste donne tanto diverse tra loro, si accomunano perché interpretano dalle loro scelte di vita la speranza, e non come sospensione o alibi, bensì sono esse stesse un messaggio di emancipazione e cambiamento.
Marinela Ciochina, rumena, per anni badante, ora Presidente dell’Associazione Romania Mare, gestisce una casa in cui ospita sia italiani che stranieri e promuove un mutuo soccorso reciproco, basato sulla conoscenza. Marinella Gondolini, l’altra intervistata nata in Italia, ha fatto l’impiegata, divenuta socia fondatrice di Città Meticcia ha ritrovato slancio e passione. Si occupa di molte cose, tra cui lo Spazio Ababa, un’associazione interculturale con lo scopo di costituire un laboratorio di progettazione sull’immigrazione. Tina combatte quotidianamente a Sant’Agata contro le lamentele e i pregiudizi del vicinato, poco tollerante, a suo dire, della diversità dei modi di stare insieme degli Africani. “Se ci incontriamo per la strada noi non diciamo solo ciao – ci tiene a spiegare Tina – raccontiamo a lungo, invitando altri connazionali, a volte in modo rumoroso, ma non per questo violento. Se poi succedono episodi incresciosi, gli stessi potrebbero accadere tra italiani”. Elettra vede queste storie di ordinaria quotidianità non tanto legate al razzismo ma alla povertà che l’immigrazione economica genera: “la vetrina di un negozio povero non piace a nessuno, allontana, infastidisce”. Sant’Agata, insomma è la pietra dello scandalo che tanto ci racconta del nostro Paese. Nata come conseguenza di un effettivo limite alloggiativo della città (gli stranieri non vedendosi affittata la casa in tutte le zone della città, si concentrano in un unico posto) rischia di divenire presto ghetto.
Ma numerose sono le difficoltà che le protagoniste hanno incontrato nel processo di inclusione sociale: isolamento sociale, scarse opportunità di apprendimento della lingua italiana, difficoltà di accesso al mondo produttivo e dei servizi, difficoltà di dialogo con le istituzioni.
Ma il loro primo impegno, la loro vita, è spesa prima di tutto per cambiare la mentalità delle persone e per questo è indispensabile convertire i luoghi comuni, affidarsi alla conoscenza reale. Speriamo di aver dato un utile contributo.

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