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da Il Manifesto del 16 aprile 2004

Strage al cpt di Trapani “Nessun colpevole” di Patrizia Abbate

Non ci sono colpevoli per la morte dei sei giovani tunisini bruciati vivi nel rogo del centro di permanenza temporaneo Vulpitta di Trapani. L’unico imputato al processo su quella orrenda strage, l’allora prefetto Leonardo Cerenzia, accusato di omicidio plurimo colposo per non aver predisposto adeguate misure di sicurezza nella struttura, è stato assolto ieri con formula piena. Tra le urla degli attivisti siciliani presenti all’udienza, che sono riusciti a gridare «vergogna, vergogna» prima di essere cacciati fuori dall’aula dalle forze dell’ordine. Una sentenza attesa, che si voleva soprattutto «simbolica», ma che ha gelato le attese di quanti in questi oltre quattro anni – l’incendio al Vulpitta scoppiò nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999 – hanno tenuto accesa la memoria su quei fatti organizzando presidi ad ogni anniversario e soprattutto prendendo parte al processo scaturito da un esposto delle associazioni di tutela degli immigrati, col Coordinamento per la pace di Trapani in prima fila e l’Asgi (associazione studi giuridici sull’immigrazione) che si è costituita parte civile con l’avvocato Giorgio Bisagna.

Ed è lui a rilasciare il primo commento a caldo sulla sentenza, «voglio fare soprattutto un commento politico», precisa. E aggiunge di non potersi dire amareggiato per l’assoluzione del prefetto, «ma soprattutto per non aver potuto avere sul banco degli imputati quei politici e quei governi che hanno fatto la scelta scellerata di istituire i centri di permanenza temporanea. Una scelta come quella di introdurre la detenzione amministrativa non può che portare a conseguenze nefaste – aggiunge Bisagna – Mi dispiace così che il tribunale non abbia aperto spiragli e nuove `porte investigative’ e che quindi dal processo siano rimasti fuori i principali imputati, cioé gli autori di questa scelta scellerata».

Unico elemento di «soddisfazione», se così si può dire, «che un’associazione di tutela degli immigrati abbia avuto voce e si sia potuta costituire parte civile: è la prima volta che questo accade, ed è un precedente che certamente rinfranca…». Per nulla rinfrancata invece Valeria Bertolino del Coordinamento per la pace trapanese, che ieri non riusciva a trattenere la rabbia per una sentenza «che è una sconfitta soprattutto per questo Stato che ha già perso dignità per il solo fatto di aver riaperto il Vulpitta… Una sentenza che conferma come in Italia ci siano vite che valgono più di altre, e quelle dei clandestini, soprattutto di quelli rinchiusi nelle carceri chiamate Cpo, non valgono evidentemente molto…».

Dello stesso tenore le dichiarazioni di Alessia Montuori che con l’associazione romana «Senza Confine» ha seguito soprattutto il processo – ancora in corso – sul «naufragio di Natale», su altri morti-fantasma che attendono giustizia. «La sentenza di Trapani è un brutto colpo per chi si batte per la chiusura di questi lager, denunciandone la disumanità. E’ evidente che quando si parla di immigrati la giustizia sembra impossibile da ottenere…».

Il prefetto Cerenzia, ieri presente in aula come in quasi tutte le udienze del processo, non ha quasi battuto ciglio alla lettura del dispositivo che lo ha assolto. «La giustizia ha fatto il suo corso», si è limitato a dire. Il suo difensore Francesco Crescimanno nell’arringa aveva contestato la richiesta di condanna a due anni del pm Marzia Castaldi, che aveva ritenuto Cerenzia colpevole di «omissioni gravissime» in merito agli apparati di sicurezza e ai soccorsi. Accuse indirettamente confermate dall’avvocato Crescimanno, che le ha però «girate» al governo e ai poliziotti che intervennero in quella terribile notte, con un ritardo inammissibile, chiedendo che «la giustizia proceda nei confronti dei veri responsabili».

Nella cella della morte erano stipati in dodici quando qualcuno pensò di dar fuoco ai materassi per approfittare del trambusto e riconquistare la libertà. Sei riuscirono a cavarsela, altri sei no. Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim morirono per soffocamento e per le ustioni, mentre – accusano le associazioni – chi doveva salvarli pensò soprattutto a mantenere il controllo dei «prigionieri» di quel campo d’internamento legalizzato che ancora «accoglie» decine di disperati.