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Strage di Pasquetta. Responsabilità italiane: esposto alla Procura di Roma

Presentato dal Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos e Open Arms: “L’Italia non sembra esente da gravi responsabilità”

Photo credit: Avvenire.it

Nei giorni della Pasqua 2020, tra il 10 e il 15 aprile, in acque della zona Sar maltese, si è consumata l’ennesima tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo: 12 ragazzi morti (dieci eritrei e due etiopi) e altri 51 profughi, tra i quali due bambini piccolissimi, riportati contro la loro volontà in Libia, dove sono stati rinchiusi nel centro di detenzione di Tarek al Sika, uno dei lager tra i più tristemente famosi di Tripoli e dell’intera Tripolitania.

Per queste vittime – che si aggiungono a migliaia di altre vite spezzate e di giovani consegnati a sofferenze indicibili nell’infero della Libia – il Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos (in persona del presidente Arturo Salerni e del coordinatore Emilio Drudi), la Fundacion Open Arms (Oscar Camps), l’Associazione Open Arms Italia (Riccardo Gatti), il senatore Gregorio De Falco, Flore Murard Yovanotovich, gli avvocati Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi e Stefano Greco hanno presentato un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedendo di accertare le eventuali responsabilità italiane.

Dalla ricostruzione della vicenda sono emersi subito due fatti inspiegabili e che prospettano condotte tali da configurare concrete ipotesi di reato e di violazione del diritto internazionale:

1 – L’enorme ritardo dei soccorsi: sono passati ben 5 giorni prima che si registrasse il primo intervento concreto.

2 – La deportazione dei naufraghi in Libia, paese che non può certamente definirsi un “porto sicuro” e che, per di più, dista quasi 150 miglia dal punto in cui si trovava il gommone in difficoltà con i 63 profughi a bordo, mentre le coste italiane di Lampedusa sono a meno di 30 miglia.

Essendosi la tragedia consumata nell’enorme zona Sar maltese, l’attenzione generale si è concentrata sul comportamento e sulle decisioni prese da La Valletta. In realtà, tuttavia, ad analizzare i fatti, l’Italia non sembra esente da gravi responsabilità.

I fatti

Il gommone con i 63 profughi (in maggioranza eritrei, qualche etiope ed alcuni sudanesi) parte la sera di giovedì 9 aprile dalla costa di Garabulli, a est di Tripoli, puntando verso nord. Già il giorno dopo, venerdì 10, si trova in difficoltà e lancia richieste di aiuto. Ad intercettarle sono gli operatori volontari di Alarm Phone, che avvertono immediatamente le centrali Mrcc di Malta e di Roma. Il gommone, inoltre, viene avvistato, insieme ad altri quattro grossomodo nello stesso tratto di mare, da un aereo da ricognizione dell’agenzia europea Frontex, la quale a sua volta ne segnala la presenza sia a La Valletta che a Roma, per gli interventi di competenza, essendo chiaro – come specificherà in seguito l’agenzia stessa – che il compito di organizzare eventuali operazioni di soccorso non spetta a Frontex ma alle autorità marittime competenti, debitamente avvisate.

La posizione del gommone – dal quale si moltiplicano le richieste di aiuto – è nota fin dall’inizio: è entrato nella zona Sar maltese ma si trova molto più vicino a Lampedusa che a Malta. Trascorrono le ore e i giorni ma non si registra alcun intervento per raggiungerlo e soccorrere i naufraghi. Nulla anche dopo che, nel primissimo pomeriggio di lunedì 13 aprile, giorno di Pasquetta, Alarm Phone comunica che dalle 14,25 circa ha perso ogni contatto con i naufraghi e non riesce a ristabilirlo. E’ evidentemente un “silenzio” che fa temere il peggio, ma neanche a questo punto vengono mobilitate unità di soccorso. Eppure, stando all’ultima segnalazione, il natante è ormai ad appena 25-30 miglia da Lampedusa, una distanza che una motovedetta può coprire in meno di un’ora.

La prima segnalazione dell’emergenza comunicata dalla centrale Mrcc di Malta a tutte le navi in transito nella zona arriva solo intorno alle 22,30 di martedì 14 aprile. Ad accogliere questo dispaccio è il cargo portoghese Ivan che, in navigazione da Khoms a Genova, devia la rotta e compie una serie di manovre per intercettare il gommone. Lo individua intorno all’una del mattino di mercoledì 15 aprile, ma si limita a monitorarlo, fino a che sul posto arriva uno strano peschereccio, il Dar El Salam, bandiera libica ed equipaggio egiziano ma con base a Malta, dove era registrato in precedenza con il nome di Mae Yemania. Ed è questo peschereccio, appunto, che deporterà a Tripoli i naufraghi superstiti.

Il culmine della tragedia si svolge proprio nelle 32 ore di inattività e silenzio assoluti che intercorrono tra le 14,25 del 13 aprile (ultimo contatto con il gommone) e le 22,30 del 14 aprile (dispaccio di allerta emanato da La Valletta). Un “buco temporale” enorme di silenzi, omissioni, scelte incomprensibili, scarico di competenze o, quanto meno, di colpevole indifferenza:

– Lunedì 13 aprile i 63 profughi, per quanto allo stremo, sono ancora tutti vivi, ma il gommone ha esaurito la benzina ed è ingovernabile. I primi tre scompaiono in mare nella tarda mattinata o nel primo pomeriggio, nel tentativo di raggiungere a nuoto una nave portacontainer panamense, la Medkon Gemlik, che in rotta per la Turchia passa a brevissima distanza, forse senza neanche sapere dell’emergenza in atto. Altri quattro si lasciano andare in mare nelle ore successive disperando ormai di poter essere salvati. Tra i 56 rimasti a bordo del gommone, alcuni stanno malissimo: hanno perso conoscenza, respirano a fatica e non danno quasi segno di vita. Non si vede nessuno in soccorso: deluse anche le speranze sollevate da un aereo che sembra aver avvistato il natante alla deriva.

– Verso l’una del mattino del 15 aprile arriva sul posto la Ivan. I naufraghi ne vedono distintamente le luci, ma restano in mare ancora per almeno tre ore, finché vengono presi a bordo dal peschereccio Dar El Salam. Nel frattempo due di loro sono morti di stenti e ipotermia e altri tre appaiono in condizioni disperate. I due cadaveri vengono caricati sulla nave insieme ai superstiti, in quel momento 54.

– Verso le 5 del mattino del 15 aprile il Dar El Salam fa rotta verso Tripoli. Non viene presa nemmeno in considerazione la possibilità di puntare sulla vicinissima Lampedusa.

– Nella tarda mattinata del 15 aprile il Dar El Salam arriva nella base militare del porto di Tripoli, tallonato dalla Gorgona, la nave della Marina Militar italiana dislocata nella rada di Tripoli che, uscita in mare domenica 12 aprile, sembra quasi scortarlo al rientro.

– Durante le lunghe ore di navigazione dalle soglie di Lampedusa all’Africa muoiono i tre naufraghi in condizioni peggiori. E’ lecito pensare che se il peschereccio si fosse diretto a Lampedusa probabilmente sarebbe stato possibile salvarli.

Il bilancio di morte sale così a dodici: tre annegati nel tentativo di raggiungere a nuoto la Medkom Gemlik; 4 che si sono abbandonati in mare per la disperazione; 2 morti prima dell’arrivo dei soccorsi; 3 morti di sfinimento a bordo del peschereccio Dar El Salam. I 51 compagni delle vittime vengono consegnati all’orrore di Tarek al Sika.

Gli interrogativi sull’Italia

Tutto questo avviene a meno di 30 miglia da Lampedusa. Nella fase culminante, anzi, probabilmente a poco più di 25 miglia. E’ proprio questo che tira in ballo le responsabilità italiane. Per questa serie di motivi:

1 – L’Italia era informata sin dall’inizio (segnalazioni di Alarm Phone e di Frontex) della situazione di emergenza in corso nella zona Sar maltese ma in acque molto più vicine alle coste italiane di Lampedusa che a La Valletta. Per il fatto stesso di aver ricevuto, in contemporanea con Malta, la richiesta di aiuto per decine di persone in pericolo di vita, sarebbe stato compito/obbligo delle autorità italiane accertarsi che La Valletta, come titolare della zona Sar, stesse intervenendo, tanto più che la situazione veniva aggiornata quasi ora per ora da Alarm Phone, confermando l’estrema gravità del caso. Constata poi l’inerzia maltese e persistendo il “silenzio assoluto” e la mancanza di disposizioni da parte di Mrrc Malta dopo i ripetuti Sos, sarebbe stato doveroso occuparsi direttamente dei soccorsi, tanto più che il gommone con i 63 naufraghi si trovava a meno di 30 miglia da Lampedusa, alle soglie delle acque di pertinenza italiane (24 miglia)

2 – Non risulta che Roma abbia contattato Malta per coordinare gli interventi e seguire ora per ora l’evolversi della situazione, intervenendo o mettendosi a disposizione in caso di necessità, pur avendo mezzi navali e aerei e personale disponibili in misura maggiore e più vicini di Malta al luogo dell’emergenza e, dunque, in grado di organizzare e condurre le operazioni di ricerca e soccorso in maniera più rapida ed efficace.

3 – Non risulta che l’Italia abbia dato la disponibilità di Lampedusa come porto di sbarco nonostante fosse, con chiara evidenza, il più vicino “porto sicuro”, autorizzando e rendendosi così complice, di fatto, della deportazione dei naufraghi a Tripoli.

4 – Con questo comportamento l’Italia si è resa complice o comunque ha avallato l’abbandono in mare per cinque giorni dei naufraghi; non ha preso alcuna decisione e non si è minimamente mossa neanche nell’arco delle 32 ore cruciali tra le 14,30 di lunedì 13 e le 22,30 del 14 aprile (quando i naufraghi hanno cominciato a morire); ha taciuto e, dunque, ha di fatto contribuito al respingimento di massa di 56 profughi, durante il quale sono morte tre persone.

L’esposto-denuncia

Alla luce di questa ricostruzione, l’esposto chiede alla Procura di accertare se nei fatti descritti siano ravvisabili fattispecie di reato. In particolare, di avviare una indagine finalizzata a verificare la violazione delle norme internazionali in materia dei diritti umani per la sorte riservata ai 63 naufraghi e la sussistenza dei reati di cui agli articoli 1158 (omissione di assistenza a navi o persone in pericolo) e 1113 (omissione di soccorso) del codice della navigazione e degli articoli 328 (rifiuto e omissione di atti d’ufficio), 593 (omissione di soccorso) e 613 bis (tortura) del codice penale e ogni altra ipotesi criminosa che si riterrà di ravvisare nella vicenda. Vicenda, è vene ricordarlo, costata la vita a 12 persone e il respingimento collettivo dei superstiti verso l’inferno della Libia nonostante da anni non solo le più prestigiose Ong internazionali ma, soprattutto, istituzioni come l’Unhcr, l’Oim e la stessa missione Onu in Libia chiedano continuamente di non riportare nei porti libici i naufraghi/migranti eventualmente intercettati nel Mediterraneo.