Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Stranieri e diritto di accesso al pubblico impiego

di Mariateresa Poli

1. Premessa sistematica

La questione del diritto di accesso ai concorsi per il pubblico impiego è già da qualche tempo oggetto di numerose e contrastanti pronunce giurisprudenziali. Negli ultimi anni, in virtù dell’incremento numerico degli ingressi dei cittadini di paesi terzi accanto ad un aumento progressivo degli indici di scolarizzazione anche universitaria, si è presentato in modo più sempre più eclatante il problema della possibilità, anche per chi è privo del requisito della cittadinanza, di partecipare ai concorsi pubblici e, più specificatamente, ai concorsi per l’accesso agli impieghi alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Per offrire una panoramica generale, ma al contempo compiuta, della problematica in esame, sembra opportuno procedere secondo il seguente schema:

· delineare, in primo luogo, il quadro delle fonti normative che oggi l’interprete ha a disposizione in tema di diritto di accesso al pubblico impiego, coordinando la normativa vigente con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali;

· passare in rassegna, pur se rapidamente, le più importanti pronunce giurisprudenziali che negli ultimi anni si sono avute sulla posizione soggettiva in questione. Si tratta di pronunciamenti della Corte Costituzionale, della giurisdizione ordinaria (di legittimità e di merito), nonché della giurisdizione amministrativa.

· da ultimo, essenzialmente in un’ottica de iure condendo, il tentativo sarà quello di esprimere un’opinione sulla strada percorribile in futuro da parte del legislatore.

2. Il quadro normativo

In questo paragrafo verrà esaminata la disciplina del diritto al lavoro ed, in particolare, del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione pubblica nonché le diverse caratteristiche che la stessa assume quando i destinatari risultino essere cittadini c.d. extracomunitari (intendendosi, una volta per tutte con tale dizione, tutti gli stranieri che pur soggiornando regolarmente nel territorio dello Stato italiano, non siano né cittadini italiani, né cittadini di paesi appartenenti alla comunità europea).

La posizione degli stranieri extracomunitari è regolamentata da una serie consistente di principi e regole provenienti da fonti sopranazionali e nazionali. L’Italia ha, infatti, recepito tutte le norme internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, così da giungersi ad una protezione (a livello primario e secondario) forse anche maggiore di quella che non fosse già contenuta a livello costituzionale.

L’articolo 4 della Costituzione sancisce il diritto al lavoro inserendolo fra quei principi fondamentali caratterizzanti il tipo di Stato che il Costituente ha voluto porre in essere. Esso integra una norma di carattere programmatico che pur non implicando un diritto soggettivo al singolo posto di lavoro, impegna lo Stato ad attuare un programma di politica sociale che persegua l’obiettivo di condizioni ottimali di occupazione. Va osservato, come si evince dalla formulazione letterale della norma[1], che essa non attribuisce un diritto soggettivo pieno ed azionabile ad ottenere (dallo Stato, da un ente pubblico o da un privato) un posto di lavoro. Spetta alla Repubblica promuovere le migliori condizioni per rendere effettivo tale diritto che, pertanto, ex se non risulta possedere questo requisito[2]. L’articolo 4 è immediatamente riferibile a tutti i cittadini e soltanto ad essi i quali, così, godrebbero di una tutela prioritaria nell’accesso alle occasioni di lavoro rispetto ai non cittadini. Fermo restando che una tale impostazione risulta costituzionalmente legittima (rispetto ad un controllo interno di costituzionalità), nessuna discriminazione è però ammissibile una volta instaurato il rapporto con il lavoratore straniero[3]. La tutela che la Repubblica riconosce al lavoro, infatti, non consente delimitazioni soggettive di sorta. Una volta ammesso al lavoro il cittadino extracomunitario rileva per l’ordinamento giuridico non in quanto straniero, bensì nella sua qualità di lavoratore.

E’ così immediatamente percepibile una prima grande distinzione nella disciplina del diritto al lavoro. Da un lato il diritto prioritario all’accesso alle procedure concorsuali o di scelta del lavoratore; dall’altro il diritto, una volta divenuto lavoratore, anche per lo straniero, al medesimo trattamento del lavoratore cittadino. Nessuno pone dubbi sul contenuto della posizione del lavoratore, essendo ormai normativa dello Stato quella contenuta nelle direttive comunitarie che via via nel tempo si sono succedute proprio con l’intento di creare omogeneità nel trattamento delle categorie di lavoratori cittadini o stranieri, vietando ogni tipologia di discriminazione in materia[4].

Tornando leggermente indietro negli anni e richiamando gli atti internazionali più rilevanti, va menzionata certamente la Convenzione OIL n. 143 sulla tutela dei lavoratori migranti del 24 giugno 1975 (ratificata dall’Italia con la l. 10 aprile 1981, n. 158).

La Convenzione mira chiaramente a tutelare la posizione dei lavoratori immigrati clandestini, anche agendo a livello preventivo contro gli organizzatori di traffici umani di manodopera. In ogni caso, però, quando viene disciplinata la posizione lavorativa, il legislatore internazionale sancisce la parità di trattamento rispetto ai “cittadini nazionali” in materia di sicurezza, riqualifica, lavori di assistenza e reinserimento, ecc. Ed infatti, come indicato nel preambolo della Convenzione, il concetto di discriminazione in materia di occupazione e professione, non include obbligatoriamente le distinzioni basate sulle nazionalità. Il principio, come vedremo, si troverà ribadito sino alle direttive comunitarie più recenti in materia di discriminazioni. Lo Stato può scegliere di non rendere accessibile il mercato del lavoro (pubblico) agli stranieri extracomunitari, senza che ciò comporti, almeno apparentemente, un fattore discriminante. L’articolo 14 della Convenzione, alla lettera c), in modo particolare, sancisce il principio in base al quale lo Stato può respingere l’accesso a “limitate categorie di occupazione e di funzioni, qualora tale restrizione sia necessaria nell’interesse dello Stato”. Il requisito della cittadinanza assume rilievo non come condizione generale per l’accesso al pubblico impiego, cosa che introdurrebbe un elemento stabile di differenziazione incompatibile con il principio di parità di trattamento enunciato dalla fonte internazionale, ma come possibile deroga di tale principio, di volta in volta enunciabile.

A livello nazionale accanto alla legge di ratifica della Convenzione n. 143, lo Stato italiano con la l. 30 dicembre 1986, n. 943 (emanata proprio in attuazione dei principi contenuti nella Convenzione OIL) ha disciplinato la materia del collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati ed ha così garantito a “tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti in Italia e alle loro famiglie parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto agli italiani”.

Accanto al diritto al lavoro la stessa norma riconosce eguaglianza nel diritto di accesso ai servizi sociali, alla scuola ed all’abitazione. Ma la disciplina contenuta nella l. n. 943 del 1986 cit., delimita il proprio campo di applicazione al lavoro subordinato privato ed infatti, all’articolo 14, comma 4, si stabilisce come rimangano ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività.

Altre successive fonti normative, unitamente alla predetta, confluiranno poi e troveranno una razionalizzazione nella l. 6 marzo 1998, n. 40 recante disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Il testo della legge è stato coordinato poi nel testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, che costituisce la principale fonte in materia di rapporto di lavoro con gli stranieri extracomunitari.

Uno dei principi portanti della disciplina è, appunto, contenuto all’articolo 2, comma 3, del d.lgs. n. 286/98 che in espressa attuazione della Convenzione OIL n. 143, garantisce, ancora una volta, a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti ed alle loro famiglie, parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. Allo straniero (questa volta anche se clandestino sul territorio nazionale) è riconosciuto il godimento dei diritti fondamentali della persona (secondo il diritto interno ed internazionale), oltre ai diritti civili, al diritto alla parità di trattamento e piena eguaglianza come lavoratore rispetto ai cittadini, al diritto di partecipazione alla vita pubblica ed alla parità di trattamento per la tutela giurisdizionale. Ma pur riconoscendo parità nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi, si fissa una riserva di legge per la regolamentazione di tali ultime situazioni.

L’articolo 27, comma 3, fa salve, così, le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività. Come peraltro ribadito di recente anche dalla Corte di Cassazione[5], sembra chiara la necessità della cittadinanza italiana quale requisito ineludibile per ogni forma di impiego pubblico (come previsto già dall’articolo 2 del d.P.R. n. 3 del 1957 in materia di accesso agli impieghi civili dello Stato, nonché dall’articolo 38 del più recente d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 in materia di pubblico impiego). Anche a volere effettuare un ragionamento a contrario, il principio è ribadito dalla previsione, inserita come eccezionale, di cui all’articolo 27, comma 1, lett. r-bis, dello stesso testo unico (come modificato dalla l. 30 luglio 2002, n. 189) laddove è stata prevista la possibilità di assunzione, a tempo determinato, degli infermieri professionali da parte di strutture anche pubbliche. La previsione è contenuta nell’articolo 27 intitolato Ingresso per lavoro in casi particolari, così risultando chiara la portata eccezionale della norma stessa.

D’altro canto il testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, al capo II recante ammissione agli impieghi, articolo 2, esplicita la necessità di possedere il requisito della cittadinanza italiana per poter accedere agli impieghi civili dello Stato. Il principio è stato poi ribadito, indirettamente, dalla previsione contenuta all’articolo 38 del d.lgs. n. 165/2001 cit., recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. E’ stato infatti riconosciuto il diritto di accesso agli impieghi pubblici ai cittadini degli Stati membri della Unione europea, quando il posto di lavoro o le funzioni da svolgere non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengano alla tutela dell’interesse nazionale. Attraverso l’emanazione di un d.P.C.M. ai sensi dell’articolo 17 della l. 23 agosto 1988, n. 400[6] vengono individuati con chiarezza i posti e le funzioni per i quali non può mai prescindersi dal possesso della cittadinanza. La norma viene a confermare l’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Giustizia sulla interpretazione restrittiva dei limiti alla libertà di circolazione dei lavoratori contemplati dall’articolo 39, ultimo comma, del trattato dell’Unione europea proprio con riferimento agli impieghi nella pubblica amministrazione[7]. Anche se è pur vero che la norma non si occupa degli stranieri extracomunitari, in ogni caso risulta rilevante l’approccio sistematico con il quale è affrontato l’argomento. Non parte, infatti, da un divieto assoluto di accesso degli stranieri comunitari a tutte le pubbliche amministrazioni, bensì da una generalizzata ammissibilità, con il rinvio ad un’altra fonte per i casi per i quali tale ammissibilità è esclusa (dove cioè non si può prescindere dalla cittadinanza).

Anche l’Unione europea si è interessata affinché nel territorio comunitario vi fossero omogeneità di trattamento e garanzie idonee in tutti gli Stati membri, per il rispetto dei principi di non discriminazione e promozione della parità di trattamento. L’obiettivo è grandemente raggiunto con l’emanazione delle direttive “antidiscriminazione” del 2000: la n. 43 per le discriminazioni su base etnico razziale; la n. 78 per ogni altra forma di discriminazione (al là di razza, etnia e genere). Le direttive, attuate in Italia dai decreti legislativi 9 luglio 2003, n. 215 e n. 216, costituiscono oggi l’ossatura principale della disciplina antidiscriminatoria, ancorché rimanga ancora applicabile pienamente il testo unico del 1998 (e, per alcuni aspetti, solo questo).

In realtà entrambi i decreti ancorano la disciplina al rispetto della parità di trattamento, avendo come destinatari le persone in quanto soggetti della collettività nazionale in senso ampio. Si ricostruisce in maniera più ampia il concetto di discriminazione (per razza, etnia, età, opinioni religiose e così via) facendo riferimento alla persona ed ai suoi diritti fondamentali. Per ciò che riguarda l’ambito del lavoro – pubblico e privato – disciplinato in parte dal d.lgs. n. 215 (per ciò che concerne etnia e razza) ed in parte dal d.lgs. n. 216 (per tutti gli altri fattori discriminanti, al di là di etnia, razza e genere) sono chiari al tempo stesso ampiezza e limiti della disciplina: nessuna distinzione fra i lavoratori di diversa razza, età, fede religiosa, ecc. quando il rapporto è già in atto o ancora in itinere; i decreti però non riguardano le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudicano le disposizioni nazionali e le condizioni relative a ingresso, soggiorno, accesso all’occupazione, assistenza e previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti. Ecco che si può cogliere dalla lettura dell’articolo 3, in entrambi i decreti, la volontà di sancire eguaglianza e non discriminazione ma nelle posizioni già affermate degli stranieri-lavoratori. La regolamentazione del diritto di accesso agli impieghi pubblici rimane prerogativa del legislatore, così come precisato dalla Costituzione all’articolo 51. Tutti i cittadini hanno diritto di accedere agli uffici pubblici o alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza e la legge, può, per l’ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. L’articolo che di recente ha subito una modifica ad opera della l. cost. 30 maggio 2003, n. 1, non ha però visto mutare il suo impianto principale con riferimento alla spettanza dei diritti ai soli cittadini italiani.

Una norma di importanza non secondaria è quella contenuta all’articolo 2 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 e successive modificazioni, recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi. Essa stabilisce che possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggano, fra gli altri, il requisito della cittadinanza italiana. Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al d.P.C.M. n. 174/1994 cit. La norma “legificata” dall’articolo 70 del d.lgs. n. 165/2001 cit., va coordinata con quanto disposto all’articolo 38 dello stesso d.lgs. n. 165 (per ciò che concerne, come già detto, gli stranieri comunitari secondo i criteri già ricordati) e per i c.d. “casi particolari” di cui si è parlato ricordando l’articolo 22 del testo unico immigrazione. Essa si inserisce nel complesso delle disposizioni che regolano la materia particolare dell’impiego pubblico, materia fatta salva, appunto dal d.lgs. n. 286/1998. Non può accettarsi l’ipotesi della abrogazione implicita dalla lex posterior, come parte della giurisprudenza aveva immaginato, in quanto i due contesti normativi non risultano affatto incompatibili l’uno con l’altro ed in ogni caso perché le disposizioni normative precedenti rivestono carattere di specialità (regolando la specifica materia dei concorsi) rispetto a quelle posteriori (che attengono alla posizione dei cittadini extracomunitari)[8].

Da qui se ne deve dedurre, in via generale, che de iure condito gli extracomunitari non possano essere ammessi ai rapporti di lavoro di natura pubblica.

3. Gli interventi della giurisprudenza

L’argomento in esame è stato spesso oggetto di pronunce da parte della giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, sia di merito che di legittimità.

Anche la Corte costituzionale è stata chiamata più volte a decidere della legittimità di norme che, a vario titolo, venivano tacciate di incostituzionalità rispetto ai parametri degli articoli 3, 4 e 51 Cost.

La Corte ha affrontato, anche se in modo indiretto, la questione dell’impiego presso le amministrazioni pubbliche, con la sentenza 30 dicembre 1998, n. 454[9]. Nella decisione riteneva non fondata la questione di costituzionalità degli articoli 1 e 5 della l. n. 943/1986 cit., a proposito del collocamento dei lavoratori extracomunitari immigrati, per l’assenza di una norma che affermasse il diritto degli stessi quando invalidi e disoccupati ad ottenere l’iscrizione negli elenchi degli aspiranti al collocamento obbligatorio. In pratica non essendo presente nell’ordinamento interno alcuna norma che negasse a tali categorie il diritto in questione, non poteva ritenersi esistente la denunziata omissione. Con la sentenza la Corte ha così logicamente affermato che parità ed eguaglianza di trattamento previsti dall’articolo 2 del testo unico immigrazione trovano immediata applicazione nell’ordinamento. La garanzia legislativa equiparerebbe, secondo una comune interpretazione, l’extracomunitario al cittadino non solo con riferimento ai diritti attinenti allo svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche con riguardo al diritto di aspettativa occupazionale[10].

Ancor prima, la stessa Corte costituzionale con la sentenza 16 giugno 1995, n. 249[11], aveva affermato, sotto il vigore della l. n. 943 che grazie al principio di parità si applicassero agli extracomunitari anche i principi derivanti dalla legislazione comunitaria. Così la Corte riteneva che parità ed eguaglianza di diritti trovassero immediata applicazione nell’ordinamento, non essendo necessaria una norma specifica che affermasse il diritto del lavoratore extracomunitario a godere di singoli diritti, in quanto la garanzia legislativa già di per sé equiparava gli extracomunitari ai cittadini. Ma il ragionamento della Corte si attagliava ai soli problemi relativi alla fase del rapporto e non anche a quella dell’aspettativa occupazionale.

Accanto alle pronunce della Corte costituzionale, vanno richiamate le più importanti sentenze della Corte di Cassazione in materia.

Di recente emanazione e di rilievo per il tenore della statuizione con essa assunta è la sentenza 13 novembre 2006, n. 24170[12], emessa dalla sezione lavoro della Suprema Corte. Con la decisione viene ribadita l’esclusione per i cittadini extracomunitari, ancorché regolarmente residenti nel territorio dello Stato, del diritto ad essere assunti da parte della pubblica amministrazione. In base a questo assunto veniva ritenuto legittimo il rifiuto opposto dall’amministrazione provinciale di Siena ad un cittadino albanese di procedere alla sua iscrizione nelle liste riservate ai disabili per l’accesso al lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ai sensi della l. 12 marzo 1999, n. 68. A questo risultato la Corte perviene affermando da un lato la vigenza delle norme regolamentari di cui al d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, cit.; dall’altro il fondamento costituzionale del requisito della cittadinanza, di cui all’articolo 51 Cost. A seguito di un ragionamento molto articolato la Corte afferma in buona sostanza come il requisito della cittadinanza non possa essere superato proprio a seguito della lettura della Convenzione OIL n. 143 (dalla quale derivano e si ispirano tutte le norme interne sin qui richiamate). Ed infatti proprio l’articolo 14 della citata Convenzione dispone che ogni Stato membro può respingere nell’interesse dello stesso, l’accesso degli stranieri al pubblico impiego, ma solo con riferimento a determinate categorie di occupazioni e di funzioni. Secondo i giudici, inoltre, le norme sulla cittadinanza “formalmente in vigore”, non possono essere invocate per la tutela antidiscriminatoria in quanto la discriminazione è un comportamento illecito non configurabile, ovviamente, se tenuto in esecuzione di disposizioni normative. In pratica, in materia di rapporti di pubblico impiego, viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini assoluti e totali ma nei limiti e nei modi previsti dalla legge e ciò non comporta incompatibilità con le disposizioni costituzionali perché non rientra fra i diritti fondamentali garantiti l’assunzione alle dipendenze di un determinato datore di lavoro[13].

Accanto alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, vanno menzionate le sentenze emesse dai giudici amministrativi.

La giustizia amministrativa sembra aver subito oscillazioni sull’argomento, almeno sino al 2004, quando il Consiglio di Stato con il parere n. 2592[14] analizzava in modo chiaro la problematica, ponendo fine ad una serie di pronunciamenti contrastanti da parte dei Tribunali amministrativi regionali.

Il Consiglio di Stato stabilisce il principio per cui la parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri come sancita dal d.lgs. n. 286/1998 opera solo in una fase successiva all’instaurazione del rapporto di lavoro. L’accesso al pubblico impiego continua ad essere regolato dal d.P.R. n. 487/1994 secondo il requisito della cittadinanza italiana o degli Stati membri dell’Unione europea[15]. Il fatto che ha dato luogo al parere prende origine dal supposto superamento e dalla lamentata illegittimità del d.P.R. n. 487/1994 nella parte in cui limita ai cittadini italiani o dei Paesi membri dell’Unione europea la partecipazione “ad un pubblico concorso per l’assunzione temporanea in un Ente pubblico”. Secondo la visione della parte ricorrente la norma contrasta, infatti, con quanto indicato dall’articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998 laddove è previsto che lo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale goda in materia civile degli stessi diritti riconosciuti ai cittadini ed al lavoratore straniero vada riconosciuta piena parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. Secondo tale visione limitare la parità ai soli rapporti di natura privatistica sarebbe illogico ed in palese contrasto con il principio di eguaglianza e con la più recente disciplina di privatizzazione del pubblico impiego. Nell’esaminare la questione il Consiglio di Stato richiama la sentenza 4 febbraio 1985, n. 43 emessa dalla sez. VI, con riguardo alla legittimità della riserva operata all’articolo 2 del d.P.R. n. 3/1957 cit., laddove si indica, fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi pubblici, quello del possesso della cittadinanza italiana. Secondo il massimo organo della giustizia amministrativa, infatti, la riserva non operava al fine di dare protezione al mercato interno del lavoro, ma per garantire che i fini pubblici, che nel cittadino si suppongono naturalmente compenetrati nei fini personali, siano meglio perseguiti e tutelati. Anche nei confronti dei cittadini comunitari, verso i quali di recente v’è stata una consistente apertura, esistono espressi limiti all’accesso agli impieghi presso la P.A.[16]

Il ragionamento che il Consiglio di Stato effettua per arrivare a ritenere infondata la tesi del ricorrente parte proprio dall’errore nel far rientrare nell’ambito della materia civile i rapporti di lavoro. La tutela del lavoro entra a livello costituzionale fra i rapporti economici. Richiamare, infine, il comma 3 dell’articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998, non è corretto in quanto si effettua un salto logico ingiustificabile, equiparando i lavoratori stranieri (coloro cioè che siano già titolari di un rapporto di lavoro) con i cittadini stranieri (in attesa di occupazione). Solo dopo l’instaurazione del rapporto di lavoro non possono tollerarsi disparità di trattamento fra italiani e stranieri. Tanto ciò risulta vero che il comma 5 dello stesso articolo 2, continua il Consiglio di Stato, prevede che allo straniero è sì, questa volta, riconosciuta parità piena con il cittadino per ciò che concerne la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi, nei modi e limiti previsti dalla legge. Dove ha voluto il legislatore ha reso chiara l’equiparazione fra l’individuo cittadino e l’individuo straniero, a prescindere dalla sua qualità di lavoratore. Poiché il citato comma 3 non afferma che a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio italiano è garantita parità di trattamento e piena eguaglianza con il cittadino in materia di diritto al lavoro (cosa che non poteva comunque essere detta, letto il divieto posto dall’articolo 51 Cost.), ma si limita ad affermare la parità di trattamento fra i lavoratori stranieri ed italiani, è evidente che occorre intendere che ciò si verifica nei casi in cui lo straniero non comunitario abbia in atto un rapporto di lavoro nei settori in cui tale rapporto può essergli attribuito. D’altro canto la piena vigenza della norma contenuta nel citato d.P.R. del 1994 è ancor una volta affermata dallo stesso d.lgs. n. 286/1998 laddove all’articolo 27, comma 3, precisa come rimangano ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività. Il richiamo al concetto di disposizione e non di norma, legittima l’interpretazione più favorevole per il d.P.R. del 1994.

Ad aprire la strada su quanto successivamente espresso dal citato parere del Consiglio di Stato, si esprimono anche due sentenze di I grado (espressamente richiamate nel parere): le sentenze del T.A.R. Veneto n. 782 del 2004 e del T.A.R. Toscana n. 38 del 2003[17]. In entrambe le pronunce i giudici amministrativi hanno ritenuto di non poter condividere la portata abrogatrice dell’articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998, né che potessero esservi dubbi di costituzionalità in merito alle vigenti disposizioni che richiedono il possesso della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego. In particolare il T.A.R. Veneto, con riferimento al riparto di giurisdizione, afferma che l’attuale sistema regolante l’impiego presso le pubbliche amministrazioni vede una regolamentazione privatistica sì, ma solo del rapporto di lavoro e non anche dei profili di interesse pubblico inerenti la fase della sua formazione, per i quali non a caso permane la giurisdizione del giudice amministrativo (articolo 63 d.lgs. n. 165/2001).

Più risalente nel tempo e sostanzialmente superata dalle decisioni successive già citate, la sentenza del T.A.R. Liguria 13 aprile 2001 n. 129[18] secondo il quale l’articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998 riconosce ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale lo stesso trattamento riservato ai lavoratori italiani sia nella fase precedente all’instaurazione del rapporto di lavoro sia in costanza di rapporto senza prevedere differenze in relazione alla natura giuridica del datore di lavoro. Viene così accolto il ricorso in quanto, seguendo il ragionamento del giudice di I grado, la norma contenuta nel d.P.R. n. 487/1994 sarebbe stata implicitamente abrogata dal successivo articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998, che attribuisce allo straniero, come già detto, piena parità di trattamento. Il ragionamento è stato superato successivamente dalle pronunce del T.A.R. Toscana e Veneto e definitivamente dal parere del Consiglio di Stato del 2004, anche con riferimento alla privatizzazione del comparto del pubblico impiego.

La giurisprudenza di merito ha registrato, negli ultimi anni un’apertura verso gli stranieri, nel senso di ritenere ammissibile l’impiego presso le amministrazioni pubbliche.

Nel 2005 numerose le pronunce che hanno sancito la possibilità per gli stranieri extracomunitari di accedere agli impieghi pubblici. A parte la sentenza del Tribunale di Venezia 12 gennaio 2005, con la quale attraverso l’applicazione del principio temporale di successione delle leggi nel tempo si giunge a ritenere implicitamente abrogate tutte le norme che contrastano con quanto stabilito dal d.lgs. n. 165/2001 (ed, in particolare, le norme incompatibili del d.lgs. n. 286/1998), molte altre pronunce sanciscono principi completamente opposti.

La Corte d’Appello di Firenze, con il decreto 30 settembre 2005 n. 11333, effettua un ragionamento ancorato ancora una volta ai principi della successione temporale, per giungere però ad una decisione favorevole alla ammissione agli impieghi pubblici. Secondo il giudice di II grado, infatti, qualunque norma giuridica interna non può contrastare con principi dettati da norme internazionali, quali quelle contenute all’interno della Convenzione OIL. Essi sarebbero insensibili ad ogni eventuale successiva norma interna anche se di rango legislativo, se in conflitto con essi[19].

Diverso ma conducente al medesimo risultato, il ragionamento portato avanti dal Tribunale di Pistoia con l’ordinanza 6/7 maggio 2005, secondo la quale è discriminatorio il provvedimento di esclusione al concorso per medico cardiologo presso una amministrazione pubblica di un cittadino extracomunitario. Risulterebbe, per il Tribunale, assolutamente illegittima tale esclusione in quanto l’articolo 2 del d.lgs. n. 286/1998 pone un principio di carattere generale relativo alla materia del lavoro sancendo l’illegittimità di ogni discriminazione perpetrata ai danni di un extracomunitario sia nella fase della scelta del dipendente che in quella successiva del rapporto di lavoro. Ciò in quanto il diritto al lavoro sarebbe un diritto soggettivo perfetto che va garantito anche allo straniero, né la professione di cardiologo può essere catalogata fra quelle per le quali si incida su uno degli interessi basilari della collettività. Analogamente alle pronunce richiamate potrebbero citarsi numerosi altri provvedimenti dei giudici di merito[20] che, spesso in relazione a posti messi a concorso presso strutture sanitarie, hanno visto la propria esclusione venire annullata dalla decisione del giudice. In ogni caso non può non tenersi conto del palese contrasto fra la visione del problema in capo alla giurisdizione amministrativa e quella portata avanti dalla maggioranza dei giudici di merito. Il contrasto di recente risolto, anche se probabilmente non in modo definitivo, dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 24170/2006 cit., lascia perplessi gli studiosi dal punto di vista della opportunità, vista la attuale illimitata possibilità per gli stranieri di svolgere studi universitari in Italia e, soprattutto vista l’apertura, anche se eccezionale, per gli stranieri agli impieghi pubblici in casi particolari.

3. Prospettive di riforma

Sinora si è tracciato il quadro della problematica, partendo da un duplice punto di vista. Da un lato il sistema normativo che, a partire dai principi costituzionali, non sembrerebbe lasciare adito a dubbi circa l’impossibilità, de iure condito, di aprire le porte dell’impiego pubblico a chi sia sprovvisto del requisito della cittadinanza (nazionale o, entro certi limiti, dell’Unione europea). Dall’altro, il grado di incertezza che tale sistema normativo genera, viste le differenti interpretazioni che gli operatori del diritto nel tempo hanno reso agli utenti ma, soprattutto, considerate le richieste di intervento che risultano essere sempre più numerose e che lasciano intendere l’importanza di un intervento riformatore in materia.

Sgombrato il campo, perciò, da interpretazioni azzardate delle norme vigenti e, consci dell’impossibilità attuale di un’apertura verso tutti gli stranieri extracomunitari privi del requisito della cittadinanza, non resta altro che aprire ad un discorso riformatore agganciato, eventualmente ma non necessariamente, ad un progetto di riforma costituzionale. In ogni caso il sistema riformato dovrebbe, da un lato rispondere ai principi stabiliti dalla Carta costituzionale in materia di diritti fondamentali e non entrare in contrasto con essi; dall’altro garantire un sistema equo, paritario e certo nella scelta dei criteri di selezione e dei requisiti richiesti in capo ai soggetti interessati all’impiego pubblico.

Che un simile progetto sia possibile ed effettivamente realizzabile, lo si ricava, indirettamente, dal fatto che nei confronti dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, si sia giunti ad un’apertura molto ampia attraverso quanto disposto dall’articolo 38 del d.lgs. n. 165/2001 più volte citato. Essi, infatti, in presenza di alcuni requisiti stabiliti dalle disposizioni contenute nel d.P.C.M. emanato ai sensi dell’articolo 17 della l. 23 agosto 1988, n. 400, possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche. E’ logico che tale apertura trova la propria essenza nella emanazione del Trattato istitutivo della Comunità ed in esso va ricercata la ragione dell’apertura ai cittadini comunitari[21].

Il discorso nei confronti degli extracomunitari non può trovare aggancio in analoghe fonti internazionali, dovendo perciò effettuarsi una scelta da parte del legislatore che sia ancorata a motivi di opportunità socio-politici. Tali motivazioni si rilevano proprio dalla sempre maggiore quantità di richieste in tal senso, specie da parte di quei soggetti che hanno conseguito i titoli di studio sul territorio nazionale, fruendo di servizi scolastici od universitari accessibili indistintamente ad italiani e non. Ora, se è pur vero che la chiusura, il diniego d’accesso, secondo le norme vigenti sopra richiamate, non costituisce un atto o comportamento discriminatorio posto in essere dalle istituzioni proprio per la ragione già richiamata della “legittimità” del provvedimento, emanato in base a quanto dalla legge disposto[22], è pur vero che proprio la scelta del legislatore appare oggi “fuori tempo”, non adeguata alle richieste del mercato internazionale ed alla globalizzazione del sistema lavorativo. Non ha molto senso escludere aprioristicamente alcune categorie di possibili lavoratori nel settore pubblico, quando si accetta di fornire loro istruzione universitaria o di includerli nei programmi di specializzazione. Il problema, probabilmente, risiede ancore nella difficoltà di accettare ai livelli più intimi della società, la possibilità che un lavoro per il quale è richiesto senso di responsabilità e fedeltà alla Repubblica, possa essere svolto da chi non possiede innato quel senso di appartenenza allo Stato.

Le difficoltà probabilmente risiedono più nel far accettare il concetto alla società che nell’elaborare una soluzione normativa che sia corretta ed al contempo rispettosa di alcuni requisiti. La necessità che vi sia una norma di rango primario a stabilire la possibilità di accesso, è stato chiarito in modo ampio. La soluzione potrebbe essere accompagnata da norme di dettaglio maggiormente selettive a livello di requisiti, rispetto a quanto stabilito nei confronti dei cittadini comunitari (conoscenza della lingua italiana, della storia, dei principi fondamentali della Carta costituzionale e del funzionamento dell’apparato amministrativo, e così via). Ferma restando, per l’accesso agli impieghi che implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o che attengano alla tutela dell’interesse nazionale[23], la necessità comunque di essere cittadini italiani.


[1] L’articolo 4 Cost. riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e pone in capo alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

[2] Sul punto vedi, ex pluribus, T. MARTINEZ, Diritto Costituzionale, Milano, 2005, 579 e ss.

[3] La distinzione è molto chiara in Cons. di Stato, sez. II, parere 31 marzo 2004, n. 2592, in www.meltingpot.org.

[4] La materia è stata da ultima trattata e disciplinata dai decreti legislativi 9 luglio 2003 n. 215 e n. 216 che, nel dare attuazione alle direttive comunitarie 2000/43 e 2000/78, hanno esteso ad ogni ambito, non solo quello lavoristico, la disciplina antidiscriminatoria comunitaria.

[5] Vedi Cass. Civ., sez. lav., 13 novembre 2006, n. 24170 in Corriere Giur., 2007, 3, 357.

[6] Vedi il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, già emanato in base all’articolo 37 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 recante razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421.

[7] Vedi: sent. 17 dicembre 1980, n. C-149/79, Commissione, c. Belgio, in Racc., 1980, 3881; sent. 20 novembre 1997, n. C-90/96, Petrie, ivi, 1997, I, 6527; sent. 12 marzo 1998, n. 187/96, Commissione, c. Grecia, ivi, 1998, II, 1095.

[8] Così TAR Toscana, sez. II, 24 gennaio 2003, n. 38, in www.meltingpot.it, richiamato e condiviso dal Consiglio di Stato nel parere n. 2592/03 cit.

[9] Corte costituzionale, 30 dicembre 1998, n. 454, in GC, 1999, I, 645. Il fatto riguardava il diniego opposto dal Ministero del Lavoro all’iscrizione dei cittadini extracomunitari invalidi civili alle liste del collocamento obbligatorio.

[10] In pratica secondo il Giudice delle leggi il testo unico del 1998 prevede appositi decreti per fissare le c.d. quote di ingresso. Una volta che i lavoratori siano stati autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, così risultando posti in condizioni di parità con i cittadini, essi devono poter essere iscritti nelle liste ordinarie di collocamento ed al contempo godere di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani. Tra questi diritti senza dubbio rientra quello di iscriversi avendone i requisiti, negli elenchi per il collocamento obbligatorio degli invalidi. Ma in questo caso la parità di trattamento deriva anche dalla speciale natura del collocamento obbligatorio, forma di protezione speciale di categorie svantaggiate di cittadini.

[11] Corte costituzionale, 16 giugno 1994, n. 249, in DL, 1995, II, 1364.

[12] Cass. Civ., sez. lav., 13 novembre 2006, n. 24170, cit.

[13] Per un commento sulle problematiche affrontate dalla Corte ed, in parte, ancora irrisolte, v. F. DI PIETRO, Pubblico impiego solo per i cittadini U.E., in Dir. e Giust., 2006, n. 44, 19.

[14] Cons. di Stato, sez. II, parere 31 marzo 2004, n. 2592, cit. Il parere è richiamato e condiviso anche nella sentenza della Cassazione n. 24170/2006, cit.

[15] Il parere si colloca nell’ambito della procedimento per ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da un ingegnere, cittadino extracomunitario, avverso il provvedimento, emesso dal dirigente scolastico di un Istituto superiore, di esclusione dalle graduatorie di istituto per il conferimento delle supplenze per l’anno scolastico in corso.

[16] L’articolo 38 del d.lgs. n. 165/2001 cit., stabilisce, infatti, come i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possano accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengano alla tutela dell’interesse nazionale.

[17] Entrambe le pronunce possono leggersi in www.giustiziaamministrativa.it.

[18] TAR Liguria, 13 aprile 2001, n. 399, in DL, 2002, II, 80, con nota di NOTARI ed in D&L, 2001, 643, con nota di GUARISO.

[19] Secondo il ragionamento della Corte d’Appello risultava così illegittimo il d.P.R. n. 483/1997 che prevede la cittadinanza italiana quale requisito necessario per l’ammissione ai corsi del personale dirigenziale del Servizio Sanitario Nazionale.

[20] Fra le tante, Corte di Appello di Firenze, sez. I volontaria, ord. 2 luglio 2002, in RIDL, 2003, II, 272, con nota di MAMMONE. La decisione rileva per la duplicità degli aspetti affrontati: da un lato stabilisce la giurisdizione ordinaria nel caso di controversia promossa ai sensi del combinato disposto degli articoli 2 e 44 del d. lgs. 25 luglio 1988, n. 286 che abbia ad oggetto l’accertamento del comportamento discriminatorio di un’azienda pubblica ospedaliera, in caso di mancata ammissione alla procedura concorsuale per l’assunzione, di un cittadino extracomunitario, per mancato possesso del requisito della cittadinanza. Dall’altro riempie di contenuti il ricorso riconoscendo il requisito della discriminazione (che rientra, pertanto, nella previsione di cui all’articolo 43 d.lgs. n. 286/98) al comportamento del direttore generale dell’azienda pubblica risoltosi nella esclusione da selezione concorsuale per l’assunzione di operatori tecnici addetti all’assistenza, del ricorrente extracomunitario privo della cittadinanza. Ancora Tribunale di Milano 31 gennaio 1997, in OGL, 1997, 275.

[21] L’evoluzione dell’ordinamento ha portato all’estensione verso una formazione politica sovrastatale, alla stregua di uno Stato federale. Il perdurare di barriere quanto all’accesso ai pubblici uffici di uno qualsiasi degli Stati membri non avrebbe alcuna giustificazione, spingendo l’integrazione progressiva dell’Unione europea proprio all’eliminazione di simili barriere.

[22] Come già sopra si è chiarito, non può parlarsi di discriminazione fra cittadino e non cittadino laddove il trattamento differenziato e lamentato dinanzi al giudice, costituisca ottemperanza a disposizioni di legge, peraltro mai dichiarate incostituzionali.

[23] Il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 cit., provvede ad individuare i posti e le funzioni per i quali è necessario comunque il possesso del requisito della cittadinanza. Identifica i primi in particolari amministrazioni ed in relazione alle posizioni ordinamentali specificate ed indica le seconde in base alle competenze riconducibili alla nozione comunitaria di pubblica amministrazione. Così nella prima categoria rientrano i posti di livello dirigenziale ex articolo 6 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29; i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, ecc.; i posti di tutte le magistrature ordinaria e speciali; i posti di avvocato dello Stato; i posti dei ruoli civili e militari delle Amministrazioni dello Stato (Presidenza del Consiglio, Interno, Affari esteri, Giustizia, Difesa, Finanze, e Corpo forestale dello Stato). Con riferimento alle tipologie di funzioni, invece si individuano quelle che comportano l’elaborazione, decisione, esecuzione, di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; nonché le funzioni di controllo di legittimità e di merito.