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tratto da altalex.com

Stranieri: principio della traduzione vale anche per gli atti di indagine preliminare

di Carlo Alberto Zaina

L’ordinanza resa dalla Sezione Riesame del Tribunale di Bologna, che si allega alla presente nota, appare autorevole presa di posizione, riguardante un’annosa vicenda, rispetto la quale non paiono, purtroppo, tuttora sopiti rigurgiti di disapplicazione di principi non solo costituzionali, ma addirittura di diritto internazionale.

Come si è già avuto modo di esporre anche recentemente1, con grande fatica, ma irresistibilmente l’orientamento, che impone la traduzione di qualsiasi atto giurisdizionale che abbia forza di incidere su di un diritto soggettivo del destinatario del provvedimento, di modo che l’atto deve essere reso in modo che questi lo possa comprendere appieno, sta finalmente trovando solide e reiterate conferme giurisprudenziali.

Ergo, viene riconosciuta la necessarietà che l’atto giudiziario venga tradotto in un idioma effettivamente intelligibile da parte del cittadino straniero.

Nel caso di specie, il particolare interesse della pronuncia che sancisce inequivocabilmente il principio e, per tale motivo, annulla un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P di Rimini, nei confronti di indagati accusati di numerosi furti e di associazione per delinquere, che in questa sede si annota, attiene a tre profili giuridici.

1. In prima battuta balza all’evidenza il fatto che l’obbligo di traduzione dell’atto in favore dello straniero, recepito, si ribadisce con estrema ritrosia dalla giurisprudenza vigente, sino ad oggi si è indirizzato in maniera del tutto circoscritta, venendo ammesso esclusivamente nei confronti di provvedimenti definitori di fasi del vero e proprio processo (decreto di giudizio immediato, richiesta di rinvio a giudizio e decreto fissazione l’udienza preliminare, decreto che dispone il giudizio, solo per citare gli atti di maggiore rilievo processuale, etc.). Così, sino alla decisione del Tribunale della Libertà, ben poche, come d’altronde affermano gli stessi giudici felsinei, sono state le prese di posizione indirizzate alla tutela cognitiva dello straniero indagato.

Vale, infatti, a dire che la fase delle indagini preliminari è stata, agli occhi della prevalente (ma non per questo condivisibile) giurisprudenza, zona franca e di palese esclusione dei principi giuridici propugnati.

Tale contestata posizione giurisprudenziale è derivata da una visione assolutamente restrittiva della portata effettiva dell’ordinanza cautelare, atto che veniva considerato solo mezzo giuridico privativo della libertà e, sotto tale esclusivo profilo, insuscettibile di svolgere funzione di strumento atto all’esercizio di diritti soggettivi in capo all’indagato.

Si trattava di una impostazione dommatica del tutto infondata, perchè tradiva un approccio al problema dell’esercizio del diritto della difesa naturale e tecnica da parte di qualsiasi soggetto sottoposto ad indagine, di natura estremamente giustizialista e giuridicamente monocola.

Così opinando, infatti l’indagato catturato e posto in carcere (o in arresto domiciliare) veniva ritenuto soggetto meritevole di soggiacere all’esproprio di qualsivoglia sua prerogativa personale, apparendo legittima la di lui privazione di quel minimum elementare di diritti (e quindi di dignità) che ogni ordinamento giuridico che si fondi sulla democrazia deve, invece, salvaguardare ad ogni costo e con assoluta intransigenza e vigore.

A contrario, un provvedimento così fortemente incisivo verso uno dei diritti fondamentali della persona – la libertà – non può essere valutato solo nell’ottica retributiva dell’assolvere solo alla funzione di integrare un trattamento sanzionatorio, che seppur interinale, appare come naturale ed impropria anticipazione di una pena detentiva, al momento del tutto in nuce.

L’ordinanza cautelare, siccome espressione di un’ipotesi processuale del tutto residuale ed eccezionale (incarcerare qualcuno non può essere fatto consuetudinario) deve essere, invece, e soprattutto, valutata e considerata anche in relazione alla sua fondatezza fattuale e giuridica, nonché alla rispondenza della misura adottata alle emergenze indiziarie e cautelari di natura processuale.

Consegue, quindi, che l’ordinanza custodiale, quale drammatico momento di esercizio della giurisdizione piena, determina e provoca, quanto meno, (a tutto volere escludere) l’insorgenza – in capo al soggetto indagato e di essa destinatario – il diritto alla verifica in fatto e diritto di tutti i presupposti che abbia sotteso all’emissione della stessa.

Questa visione – confliggente con quella originariamente imperante – ha preso inesorabilmente terreno sino alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 5052, del 24 Settembre 2003, che molto pertinentemente il Collegio bolognese richiama.

Specifica peculiarità dell’intervento dei Supremi Giudici è stata, però, nell’ambito di un forte riconoscimento del diritto di difesa, quale diritto primario della persona, quella di focalizzare con precisione i limiti entro i quali si debba ritenere vulnerato l’indagato non posto a conoscenza dell’ordinanza cautelare, per omessa traduzione della stessa.

La Corte, infatti ebbe, con la sua decisione, ad escludere che sussistesse una sorta di automatismo correlato allo status soggettivo di cittadino straniero dell’indagato, in quanto l’aspetto qualificato del problema attiene, in realtà, alla effettiva incapacità della persona non italiana di comprendere i concetti trasfuso nell’atto giurisdizionale ed alla circostanza che di tale situazione personale vi sia stato accertamento materiale da parte del giudice.

I Giudici del Tribunale di Bologna, quindi, rifacendosi alla soluzione adottata dalla Suprema Corte, hanno, pertanto, ritenuto che “l’obbligo di traduzione dell’ordinanza applicativa sussiste, fin dal momento della sua emissione, soltanto qualora risulti da tale momento – con accertamento che si risolve in un’indagine di fatto – la non conoscenza da parte dell’indagato della lingua italiana”.

Si è, così, operata una distinzione fra tale ipotesi e quella in cui l’ignoranza della lingua italiana – in capo all’inquisito – emerga in una fase successiva all’esecuzione dell’ordinanza privativa la libertà personale, quale il più classico degli esempi è quello dell’interrogatorio di convalida o di garanzia.

In quest’ultima fattispecie, il giudice può sopperire alla mancata traduzione (ma forse di mancata traduzione non si può parlare, proprio perché la situazione personale dell’indagato può essere scusabilmente ignorata dal giudice n.d.a.) con la nomina di un interprete che illustri il contenuto del provvedimento e spieghi il valore e l’accezione degli atti che si svolgono, salvo che non sia già intervenuto ex art. 94 disp att. il direttore del carcere o suo delegato (ipotesi difficile a verificarsi).

Nella fattispecie concreta, i giudici del riesame hanno potuto appurare che fosse circostanza notoria che gli indagati non conoscessero la lingua italiana, giacchè costoro, raggiunti in precedenza da ordinanza custodiale emessa da un giudice dichiaratosi incompetente per territorio, avevano fruito della traduzione della stessa.

Una volta che il procedimento era stato trasmesso al giudice competente, questi nel reiterare la misura ai sensi dell’art. 27 c.p.p., aggiungendo, peraltro, anche – a richiesta del P.M. – nuove contestazioni di reato, era certamente in grado di comprendere la necessità che la nuova ordinanza dovesse essere tradotta nella lingua degli indagati, tant’è che ordinava espressamente siffatto adempimento, rimasto, peraltro, inspiegabilmente, inevaso.

Il Tribunale del Riesame, quindi, ha colto nella concreta fattispecie, non solo la ontologica lesione del diritto degli indagati a conoscere gli addebiti nella loro interezza, gli indizi su cui ci si fonda e le esigenze cautelari addotte, ma anche la rilevanza di tale vulnus sul piano della configurabilità di una nullità assoluta ed insanabile ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p. .

Priva di pregio sarebbe, pertanto, (e giustamente) l’affermazione del G.I.P. – contenuta in una ordinanza reiettiva la richiesta di revoca della misura, per la verificazione della dedotta nullità – secondo la quale la traduzione, nella fattispecie, sarebbe stata inutile, anche perché del tutto contraddittoria proprio con quell’ordine di tradurre emesso vanamente dal medesimo giudice.

2. Il secondo aspetto di rilievo attiene al fatto che la presenza dell’interprete all’interrogatorio reso ex art. 294 c.p.p. al G.I.P. (delegato dal giudice emittente la misura) non sia affatto significativa di una intervenuta sanatoria della nullità assoluta così verificatasi.

La contestazione dei fatti – effettuata dal G.I.P. delegato agli indagati nella descritta sede procedimentale dell’interrogatorio – con l’assistenza dell’interprete, (al di là della mancata specifica indicazione degli elementi di prova) non assolve in alcun modo – neppure supplettivamente – al dovere di illustrare all’indagato, in toto, il contenuto dell’ordinanza, anche perché, nella fattispecie, essa è, evidentemente, avvenuta attraverso una forma assolutamente sintetica di riassunto, assolutamente inadeguata rispetto ad una vicenda processuale di particolare importanza, nella quale erano stati contestati 24 distinti capi di imputazione tra cui il reato di cui all’art. 416 c.p. .

Deriva, pertanto, il principio che, provata la mancata effettiva esplicazione della previsione di cui al citato ‘art. 94,comma 1 bis, disp. att. c.p.p.., la traduzione sommaria dell’ordinanza cautelare effettuata dall’interprete, in sede di interrogatorio di garanzia, in forma riassuntiva, non può tenere luogo della traduzione, siccome impedisce all’indagato di conoscere in ogni suo aspetto il provvedimento privativo della libertà e di approntare un’adeguata difesa, nella fase dell’interrogatorio, che è strumento sia di contestazione dell’accusa, sia di esplicazione delle ragioni della difesa, non altrimenti manifestabili al giudice.

3. Il terzo profilo che suscita particolare interesse e merita indicazione specifica, riguarda il fatto che l’intera ordinanza sia stata dichiarata nulla e che il vizio non abbia, invece, attinto solo la parte della stessa in cui si contesta ex novo tutta una serie di reati.

Per migliore comprensione, infatti, va detto che l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. di Rimini, annullata dal Tribunale di Bologna, si connotava di due parti.

La prima concerneva nove reati e, in pratica, reiterava, ai sensi dell’art. 27 c.p.p., la precedente ordinanza emessa dal G.I.P di Ravenna, (tradotta nella lingua di origine degli indagati stranieri) che, successivamente a tale pronunzia, si dichiarava incompetente per territorio.

La seconda, invece, atteneva tutta una serie di altri reati (14) mai prima di allora contestati agli indagati.

Il Tribunale di Bologna ha ritenuto che il vizio dedotto abbracci ed incida su tutta la complessiva ordinanza e non già solo in relazione alla parte contenente gli addebiti che, in precedenza non erano stati contestati.

Il ragionamento dei giudici della cautela è chiarissimo e lineare.

Escluso, infatti, ogni dubbio in ordine a tutti quei reati per la prima volta oggetto di contestazione, con l’ordinanza non tradotta, in relazione ai quali si esplicita in pieno e totale il principio della lesione del diritto di difesa, per mancata comprensione dell’accusa e degli elementi a sostegno della stessa, si deve, inoltre, rilevare che non vi è prova alcuna che gli indagati abbiano compreso che l’ordinanza del G.I.P. di Rimini, per quanto concerne i reati già contestati in precedenza, siccome “emessa ai sensi dell’art. 27 c.p.p., si sovrapponesse in parte all’ordinanza del GIP dichiaratosi incompetente”.

Con tale osservazione si privilegia, al di là di qualsiasi elemento genericamente valutativo, la primaria ed indefettibile necessità che sussista piena sicurezza in ordine alla complessiva comprensione del tenore del provvedimento ablativo la libertà personale.

Tale necessità assume, ovviamente, una pregnanza direttamente proporzionale al grado di invasività che l’atto giurisdizionale manifesta nei confronti del destinatario.

Si tratta di un principio guida della Convenzione dei diritti dell’uomo di New York (art. 6 co. 3° lett. A) della CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO, recepita con L.4.8.1955 N. 848) e del PATTO INTERNAZIONALE RELATIVO I DIRITTI CIVILI E POLITICI, (art. 14 co. 3° lett. A recepito dalla L. 25.10.77 N. 881.).

La comprensione della struttura e della portata di un’accusa mossa nonchè delle ragioni che sottendono ad un provvedimento giurisdizionale, di qualunque natura (ma soprattutto se incisivo sulla persona in uno dei suoi diritti fondamentali) appare, quindi, quale linea guida per una corretta applicazione dei principi del nostro ordinamento processualpenalistico.

Ad essa si abbina il contestuale rifiuto giurisprudenziale del ricorso ad escamotage, od a forme sostitutive quei comportamenti dovuti, che finiscono per ledere inequivocabilmente la certezza del diritto.

Nota di Carlo Alberto Zaina

24 maggio 2006