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Test di italiano – La lettera di dimissioni di un coordinatore del CTP.

Il test non è una cosa seria. Inflessibili solo con i poveri. Non è la mia idea di accoglienza ed integrazione

Alla dirigente scolastica del CTP Alfieri – ISA 3
e per conoscenza alla direzione scolastica regionale
al prefetto della Spezia
al provveditore agli Studi della Spezia

Gentili signori,
con questa lettera mi dimetto dalla commissione della mia scuola che ha il compito di
preparare, far svolgere, correggere il “test di italiano”, cioè la prova che le persone immigrate
devono superare per ottenere il permesso di soggiorno“ lungo“ secondo il decreto del 4.6.10.

Vi spiego il motivo.
Mi ha fatto piacere che il ministro abbia dato questo incarico alle scuole pubbliche ma ho avuto
subito dubbi su alcune sue scelte. Prima di tutto mi è sembrato assurdo che al governo non
interessi che la persona immigrata riesca o no a dialogare visto che non è previsto un colloquio. I
candidati sono però costretti a svolgere una prova scritta, un’abilità che in lingua straniera si
acquisisce in modo soddisfacente in molti anni di scuola. Un altro dei tantissimi ostacoli di una
vita “a punti“ che sarebbe interessante vedere applicata ai cittadini italiani: il contratto di
affitto registrato, il lavoro in regola, nessuna sanzione a carico…

Eppure all’inizio ho pensato che il test fosse un passaggio a suo modo ragionevole e che si
trattasse di una cosa seria. Mi sono dovuto ricredere.
La posta in gioco per gli immigrati è alta, il permesso “lungo” dà loro finalmente la certezza di
rimanere in Italia dopo anni di vita e lavoro nel nostro paese. Il test perciò è stato attentamente
studiato e i CTP devono osservare molte delle regole previste per gli esami di lingua. Come
responsabile per le certificazioni della Società Dante Alighieri
ho esperienza diretta di sessioni di
esame e ne conosco le regole. Ho contribuito a preparare con cura le prime due edizioni del
test.

In quelle occasioni ho visto persone analfabete, in Italia da molti anni, che si sono presentate
all’esame ancora in abiti da lavoro. Parlavano perfettamente la mia lingua ma per qualche
ragione – la povertà, prima di tutto – non erano mai andati a scuola neanche nel loro paese. Li
ho visti allungare il collo per tentare di copiare le risposte scritte dall’uomo o dalla donna seduti
vicino a loro: superare il test è troppo importante. Ho assistito ai loro scatti d’ira per quella che
sentivano come un’altra ingiustizia. Mi sono sentito identificato, per la prima volta in vita mia,
come un nemico dalle persone che stavano sedute sui banchi davanti a me. Ho cominciato a
pensare che non ero nel ruolo giusto.

Poi ho riletto più attentamente le disposizioni economiche che prevedono la retribuzione del
personale della scuola ogni 40 persone esaminate. Non le avevo considerate con attenzione, e ho
sbagliato. Per spiegarne il significato descriverò quello che è successo nella scuola dove lavoro.

Le due sessioni d’esame di febbraio e aprile tenute presso il CTP Alfieri si sono svolte nell’aula
più grande dell’istituto, dotata di impianto di amplificazione e dello spazio necessario a ospitare
20/25 persone nel modo previsto per esami e concorsi. Non credo di sbagliare nel dire che quasi
tutte le scuole si trovano nella stessa condizione. La conseguenza è che il personale della scuola
per occuparsi di questa attività straordinaria sarà pagato ogni due sessioni di esame con una
cifra umiliante che, per quanto mi riguarda, otterrei facilmente con poche ore di lezioni private
se avessi l’abitudine di darle.

Esiste però la possibilità di organizzare la stessa sessione in più giornate. Questo è in aperto
contrasto con tutte le regole previste per esami, concorsi e specialmente certificazioni in lingua
a cui il ministro ha voluto ispirarsi.

A questo punto ci sono due possibilità.
O il test non è una cosa seria e allora va bene mettere 40 persone una addosso all’altra, fargli
dare l’esame in ore e giorni differenti in modo tale che possano tranquillamente passarsi le
soluzioni degli esercizi, preparare materiali scadenti e ammettere in aula candidati con parenti
al seguito (so quello che dico). Ma allora che senso ha questo prova? Dategliela direttamente
la carta di soggiorno, se la meritano.

Oppure il test è una cosa seria in un paese che riesce a essere serio, anzi inflessibile solo con i
poveri. Ma allora materiali, spazi, procedure devono essere rigorose e il relativo lavoro
adeguatamente retribuito. Non mi pare che le cose stiano in questi termini.

Insomma non mi tornano i conti, non tanto quelli economici ma quelli umani e professionali.

Mi sono convinto che il test d’italiano, per come è stato pensato e inserito nel cosiddetto “pacchetto sicurezza“, non corrisponde alla mia idea di accoglienza e di integrazione.

Mi scuso per averlo capito in ritardo, ringrazio per la pazienza e cordialmente saluto

La Spezia, 14.04.2011
Marco Cattaruzza – docente coordinatore del CTP Alfieri-ISA 3 – La Spezia