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The Malta Experience. Racconti da un’isola-prigione

Un documentario prodotto dal Progetto Melting Pot Europa

“The Malta experience” era il nome del percorso turistico tra le bellezze dell’isola pubblicizzato ovunque per le strade della Valletta.
Noi abbiamo scelto di seguire l’altro itinerario, quello che, se non apri bene gli occhi, puoi anche non incrociare mai.
Così abbiamo incontrato il racconto lucido e coraggioso di rifugiati politici non riconosciuti, infuriati contro l’ipocrita retorica europea dei diritti umani, o quello colorato e pieno di sogni di bambini di dieci anni che hanno attraversato la detenzione amministrativa con incredibili strategie di resistenza.

The Malta Experience è il nome che abbiamo voluto prendere in prestito per raccontare quello che i normali turisti in gita a Malta non vedranno mai.

Lo abbiamo fatto attraverso le immagini rubate dei tanti centri di prigionia per migranti presenti sull’isola; lungo le strade brulle e desolate percorse quasi solamente da donne, uomini e bambini africani che vagano senza uno scopo e senza la possibilità di andarsene; nei luoghi di “accoglienza” autogestita dove tutti i migranti approdano, dopo essere passati attraverso la detenzione, e che sempre più diventano cittadelle- ghetto tagliate fuori dal resto del mondo.

Ed è continuamente la stessa storia quella che si ascolta dalle voci di tutti i ‘viaggiatori non autorizzati’ che, quasi stupiti che qualcuno glielo chiedesse, hanno accettato di parlare della loro vita: “non volevo arrivare a Malta. Qui non c’è futuro”. “la barca si è rotta , e allora…” . “avrei voluto arrivare in Europa”. “Vorrei un po’ di pace, vengo dal Darfur”. “vorrei un lavoro, soltanto questo”. “i maltesi non ci amano, è pericoloso vivere qui”…
Ma il percorso è obbligato, crudele, e senza eccezioni per nessuno. Chiunque arrivi sull’isola facendo ‘ingresso irregolare’ viene rinchiuso per un periodo massimo di 18 mesi. Anche se si tratta di bambini, donne incinte, potenziali richiedenti asilo.

Chi arriva a Malta, per il Regolamente n. 343 del 2003, la cosiddetta “Convenzione di Dublino II”, può chiedere asilo solo in questo micro- Stato, e se riceve una protezione temporanea per motivi umanitari è solo lì che può permanere. Se riesce ad allontanarsi e a raggiungere un altro paese europeo può venire intercettato dalla polizia, identificato attraverso il Sistema Informativo Schengen o l’Eurodac e ricondotto indietro sull’isola- prigione.
Al contempo, chi riceve un diniego è costretto a rimanere comunque sul territorio con nessuna possibilità di lavorare e di costruirsi una vita dignitosa.
Alla fine di un periodo di detenzione dalla finalità incomprensibile e attuato in condizioni assolutamente disumane, tutti i migranti rimangono quindi sul suolo maltese.

È facile comprendere come questa difficile situazione abbia inasprito gli animi della popolazione autoctona, tanto più che i soliti politicanti di impronta razzista hanno approfittato della condizione di oggettiva difficoltà per avviare campagne apertamente xenofobe che hanno reso la vita dei migranti presenti sull’isola ancora più precaria e pericolosa.
Ma il nostro lavoro, al di là di denunciare il comportamento del governo maltese e di alcune frange della popolazione dell’isola, parla di questa storia in quanto esempio eclatante di ciò che l’Unione europea chiede agli Stati che iniziano il loro processo di adesione e che poi entrano a farne parte. Ciò che Malta fa è ciò che l’Ue le chiede di fare, lasciandole certo ampio margine nella definizione dei dettagli.
Ciò che Malta ha fatto negli ultimi anni ha reso evidente la contraddittorietà crudele delle politiche migratorie europee, sempre inefficaci rispetto agli scopi dichiarati e sempre pronte a rinegoziare equilibri politici ed economici usando come moneta di scambio i corpi vivi dei migranti.

Probabilmente questa situazione, data la sua ingestibilità, troverà una rapida evoluzione. Magari i centri di dtenezione subiranno lo stesso processo di ‘umanizzazione’ ipocrita che sta attraversando anche i Cpt nostrani, magari si implementeranno le deportazioni dall’isola verso improbabili Stati d’origine o verso ‘paesi terzi sicuri’ che di sicuro per la sorte dei deportati avranno ben poco.

E così abbiamo voluto fermare l’istante presente per raccontare di un’ isola- campo che, accettando di diventare ‘deposito’ senza alcuna prospettiva per centinaia di persone, assume una funzione indecifrabile persino alla luce di quei processi di clandestinizzazione e sfruttamento attivi quasi ovunque nel resto dell’Europa.

Il trailer del documentario

Il documentario