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“Ti diamo un’ora per sparire” / Voci dall’esodo

Félix Meléndez, Movimiento Migrante Mesoamericano - 11 novembre 2018

La solitudine dei pochi migranti rimasti nell’auditorium del parco Ayula, nella città di Tecún Úman, si avverte ormai palpabile rispetto a 3 settimane fa, quando l’esodo di massa dei centroamericani che abbatteva recinzioni e attraversava fiumi attirò l’attenzione di tutto il mondo.

Il flusso dei migranti è visibilmente calato, ma la scia dell’esodo è rimasta e sta mutando in un fenomeno sociale che non sarà facile da arrestare. Attivisti, giornalisti e analisti delle migrazioni osservano un cambiamento sostanziale: i migranti stanno cercando di muoversi insieme, spinti dalla forza di un gruppo, si interrogano e si documentano sulla situazione in Messico, diffidano delle voci riguardanti la “buona volontà” di consolati e funzionari dell’immigrazione che offrono loro di registrarsi in delle liste per accedere al territorio messicano in maniera sicura e controllata. La rotta migratoria controllata dai passeur ha smesso di essere un’opzione praticabile.

In questo piccolo gruppo di centroamericani in attesa di cogliere il momento più adatto per raggiungere l’altro lato della frontiera – tra le voci incessanti delle tante carovane in partenza dai rispettivi paesi – c’è don “Sergio”, un salvadoreño non più così giovane, i cui capelli bianchi tradiscono i tanti momenti difficili vissuti che non lo portano ad aprirsi così facilmente con uno sconosciuto. Inizialmente non prende bene le mie domande circa i motivi che lo hanno spinto a migrare – al punto che decido di non estrarre la mia macchina fotografica per non minare la fragile relazione di apertura che stavo provando a stabilire -, segno, questo, della sfiducia che molti migranti hanno imparato a provare come forma di protezione dinanzi ai costanti ostacoli cui hanno dovuto far fronte, tra questi inganni e false voci di aiuti umanitari che alla fine si sono rivelate essere mere strategie finalizzate a dissuadere e dividere i gruppi di migranti. Presentandomi poi come salvadoreño ed allacciando quindi una connessione come compatriota, il suo tono di voce cambia repentinamente, mutando nella spigliatezza di chi racconta la sua storia come se potesse per un momento liberarsi della “croce del martirio che gli è toccato portare con sé”.

Lui è un recidivo. La prima volta che migrò verso gli Stati Uniti fu quando iniziò formalmente il conflitto armato salvadoreño, nel 1980. Per 35 anni ha vissuto legalmente negli Stati Uniti, ha avuto due figli, ma poi un problema coniugale del quale non fornisce i dettagli lo ha portato a perdere i documenti e, di conseguenza, il suo status. Nel 2015 fu deportato a El Salvador. Una volta ritrovatosi nella sua madrepatria, tornò nell’unico posto di cui aveva memoria, a Mejicanos, un piccolo municipio della capitale, San Salvador, quartiere dormitorio e molto popoloso conosciuto per essere un territorio conteso tra le due pandillas o maras [termini gergali utilizzati per chiamare le bande criminali centroamericane, n.d.T.] più violente della regione, che tengono sotto scacco i suoi abitanti con la legge urbana non scritta – ma tacitamente accettata – del “vedere, sentire e tacere”.

In questi tre anni don Sergio è riuscito a sopravvivere come qualcuno che non attira l’attenzione, riuscendo ad ottenere un lavoro da elettricista in un locale nel centro di San Salvador, aiutato anche dal contributo economico che riceveva dai suoi figli. Tuttavia, di recente questa labile tranquillità in cui viveva si è sgretolata in un attimo: una notte è rientrato a casa e ha trovato la porta d’ingresso sfondata. Il suo piccolo patrimonio era stato portato via, compresi i soldi che aveva tenuto da parte per qualsivoglia evenienza. È in questa fase del racconto che la sua voce si spezza. Con la mano tremante accende una sigaretta, come a voler restar forte. “Denunciai tutto alla polizia, grazie ai racconti dei miei vicini. I poliziotti arrivarono e mi dissero che avrei fatto meglio a rimanere zitto, che i “muchachos” non ci avrebbero messo molto a scoprirlo. Se ne andarono, e nel giro di un’ora arrivarono i pandilleros e mi pestarono di botte”.

“Hai sbagliato di grosso con noi, vecchio bastardo”, mi dissero. Poi mi minacciarono: “Ti diamo un’ora per sparire. Se quando torniamo ti troviamo ancora qui ti ammazziamo”. Ancora pesto delle botte ricevute presi uno zaino, qualche maglia, e fuggii.

Nella sua disperazione don Sergio racconta che, nonostante fosse ancora terrorizzato e confuso sul da farsi, incontrò in una caffetteria un gruppo di salvadoreñi e salvadoreñe che, sull’onda della grande carovana di hondureñi entrata da poco in territorio messicano, avevano appena deciso di replicare e stavano organizzandosi per raggiungerli.

Vedere tutto ciò lo riempì di speranza. Si diresse al monumento di “El Salvador del Mundo”, il punto di ritrovo stabilito per la partenza. Senza saperlo, si unì alla seconda carovana di salvadoreñi/e, il gruppo di migranti più grande partito dal paese più piccolo e violento nella storia recente dell’America Latina. Una volta arrivato alla frontiera meridionale decide di separarsi dalla carovana, lasciandosi sedurre dall’offerta di poter presentare richiesta di asilo umanitario in Messico. “Quando mi resi conto che molti connazionali erano stati ingannati e deportati rinunciai, ma era già troppo tardi per me, perché persi l’opportunità di attraversare il fiume con tutti gli altri”.

Ora, dopo l’eccitazione dell’effetto delle carovane e dopo quasi una settimana e mezza passata a dormire tra un rifugio, la chiesa e il parco Ayutla, don Sergio lo han ben chiaro in mente: nemmeno nel peggiore dei casi tornerà nel suo paese, che lo ha già cacciato due volte. Spera che sempre più persone, insoddisfatte e sotto minaccia come lui, ma ancora piene di speranza per una vita migliore, avviino delle carovane di massa alle quali possa unirsi anche lui, assieme al piccolo gruppo di persone che sta nella piccola piazza, fino a poter finalmente attraversare il fiume per iniziare il viaggio verso la frontiera settentrionale.