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Tombe di sabbia nel Sahara: la migrazione africana verso l’Europa

Un reportage di Oriol Puig dal Níger, Mali e Burkina Faso - Periferia, luglio 2019

L’Unione Europea impone le sue frontiere ai paesi più poveri del mondo e obbliga a contenere le migrazioni africane verso i paesi comunitari.
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Il mio sogno è arrivare in Spagna, è quello che sento nel cuore e ciò che vuole anche la mia famiglia. Se torno nel mio paese sarò ancora nella merda.” Afferma chiaramente Joseph, un migrante del Camerun di 31 anni, dal Niger, il paese più povero del pianeta, in pieno deserto del Sahara.

Come lui, Melvin, di 25 anni e originario della Liberia. Lui ha provato ad attraversare, senza fortuna, la Penisola Iberica via mare. È stato intercettato dalle autorità marocchine. La seconda volta ha provato a passare per Melilla, territorio spagnolo in terra africana, ma neanche quella volta ha avuto fortuna. “Ho visto gente rompersi le gambe, altri le braccia. Sono stato due anni in Marocco e ci ho provato molte volte, ma alla fine mi sono arreso e sono tornato in Algeria perché avevo sentito dire che non c’era un’altra via d’accesso per la Libia”, racconta. Alla fine non è riuscito a entrare. Adesso si trova in un centro di transito dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) in Burkina Faso, un altro dei paesi più poveri della terra.

Le storie di Melvin e Joseph rappresentano quelle di decine di migliaia di persone che non sono riuscite a superare i muri che l’Unione Europea costruisce quotidianamente nei paesi del Nord’Africa e attualmente anche nel deserto del Sahara. Non si tratta di muri fisici ma costituiti da fossati profondi, barriere e ostacoli che impediscono l’accesso alla fortezza Europa, in maniera simile alle frontiere di Trump in Messico.

Questa strategia repressiva è stata approvata dai paesi europei al vertice di La Valletta, a Malta, nel 2015. Da allora, è stato utilizzato un sistema basato su sicurezza e sviluppo, che aumenta le deportazioni e subordina l’aiuto umanitario all’impegno degli stati volto a frenare il flusso migratorio.

I paesi più poveri del pianeta sono diventati la nuova frontiera dell’Europa e il deserto del Sahara si è trasformato nel cimitero a cielo aperto più grande del mondo. “Mi chiedo quanti morti ci siano nel Sahara dei quali non si parla.” Sottolinea Alessandra Morelli, la responsabile di ACNUR in Niger.

Questi corpi sepolti dalla sabbia, non conteggiati e dimenticati sono l’altro lato della medaglia degli ostacoli del confine sud della Spagna; dei barconi che percorrono il Mediterraneo per raggiungere l’Italia o la Grecia e delle carovane di migranti che attraversano il Centroamerica con in mente “il sogno americano”.

La “discarica” dell’Europa

“Siamo stati gettati nel Sahara, abbandonati al nostro destino, senza cibo né acqua. Ci hanno trattati come degli animali e ci hanno tolto tutto, anche il cellulare”, assicura Ibrahim, che viene dal Senegal.

Il percorso attraverso il deserto all’andata non è stato difficile come al ritorno”, afferma Abdoulaye, della Guinea Conakry, rimpatriato dalla Libia. Quelli che vengono dall’Africa subsahariana e vogliono arrivare in Europa sono costretti a passare per il deserto del Sahara. Attraversare le dune di sabbia è difficile di per sé, ma con la polizia e l’esercito alle calcagna lo è ancora di più. Quelli che ci riescono vengono intercettati e riportati al punto di partenza, Agadez, la porta del deserto del Sahara e il principale crocevia migratorio di tutta l’Africa. È il caso di Ibrahim e Abdoulaye, sono tra le 40.000 persone cacciate dall’Algeria verso il Niger dal 2014 – 11.000 solo nel 2018 -, ai quali si aggiungono più di 2.000 che l’anno scorso sono sfuggite all’inferno libico.

Tutti quanti confluiscono in Niger, la barriera contro la migrazione irregolare in cambio di aiuti economici. È il paese più bisognoso del mondo, con un territorio formato in gran parte da sabbia dove proliferano decine di gruppi terroristici, riceve tutto quello che l’Europa non vuole. Anche gli abitanti del luogo dicono che è diventato la “discarica” del vecchio continente.

L’Algeria fa “il lavoro sporco”, secondo attivisti/e dei diritti umani, e cerca di trarre profitto dalle negoziazioni bilaterali con l’Unione. Per il Niger, al contrario, “è un ricatto in piena regola. Non ci danno aiuti se i nostri governi non si impegnano a fermare le migrazioni”, afferma Ibrahim Manzo Diallo, giornalista e attivista nigerino. Inoltre, secondo quanto denunciato dai movimenti sociali africani ed europei come Concord o Loujna Tounkaranké, i fondi umanitari vengono trasferiti a programmi di sicurezza per rafforzare i controlli di confine e smantellare le reti.
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La criminalizzazione fa aumentare la clandestinità

Ad Agadez si trovano sia le persone espulse che quelle che vogliono ancora tentare la fortuna, aspettano nascosti la loro opportunità di imbarcarsi verso il nord. Lo fanno in alloggi clandestini, simili a quelli che si trovano lungo il percorso americano, sono sempre più nascosti per paura della legge che criminalizza il traffico di persone nel paese, approvata nel 2015 per istanza dell’UE. In seguito alla sua applicazione, le autorità nigerine hanno arrestato centinaia di persone, confiscato 200 veicoli e applicato una “forte repressione”, per citare le parole di Gogé Maimouna Gazibo, responsabile dell’ente contro traffico illecito e tratta di persone.

Alcuni trafficanti hanno volontariamente aderito al programma di riconversione promosso dall’UE col fine di incoraggiarli ad abbandonare questa attività. “Mi hanno dato dei veicoli e adesso faccio il tassista, ma ho degli amici che non hanno ancora ricevuto nulla”, afferma Ahmed, un ex trafficante. Un’associazione creata dai contrabbandieri nel nord del Niger si lamenta dei ritardi e dell’insufficienza dei fondi europei e ribadisce che il traffico continua, anche se in forma meno visibile.

Adesso agiscono clandestinamente, prendendo strade secondarie molto più pericolose, più care, dove un piccolo guasto può causare la morte. Abbiamo visto molti passeggeri e autisti morti nel deserto,” ammette Abba, ex autista del percorso verso la Libia. Le organizzazioni internazionali lo confermano.

Quando sono state messe le recinzioni a Ceuta e Melilla, la gente ha gridato ‘vittoria’ pensando che sarebbero diminuiti i flussi, ma non è stato così. Anzi, si sono triplicati. La gente ha semplicemente cambiato percorso correndo più rischi, come succede adesso,” sostiene Mahamadou Goita, responsabile della ONG panafricana Pandimir. Le migrazioni non si fermano, cambiano strada creando più ostacoli.

Foto: Aïr-Info Agadez
Foto: Aïr-Info Agadez

Un sistema di contenimento

L’UE e il governo del Niger si congratulano per la presunta riduzione dei flussi migratori che attraversano il Niger, affermando che si siano ridotti del 90%. In realtà, gli esperti mettono in discussione questi dati proprio a causa della clandestinità e degli spostamenti al fine di evitare posti di blocco e controlli di sicurezza. Nonostante ciò, la comunità europea vuole premiare l’operato del Niger con quasi due miliardi di euro previsti fino al 2020, rendendo il paese il primo beneficiario del mondo di aiuti europei destinati allo sviluppo, provenienti dal Fondo fiduciario di emergenza dell’UE per l’Africa (EUTF), uno strumento apparentemente creato per “combattere le cause profonde delle migrazioni.

Questi fondi vengono canalizzati attraverso l’OIM, un ente collegato all’ONU, incaricato di dissuadere le persone con campagne informative sui pericoli dei percorsi migratori, realizza anche progetti di sviluppo locale e rinforza i controlli di confine. Organizza anche i rimpatri verso i paesi d’origine delle persone espulse dall’Algeria e quelle evacuate dalla Libia attraverso vari centri di transito sparsi per tutta la regione, non solo in Niger, ma anche in Mali e Burkina Faso. Questi rimpatri, “ritenuti volontari, sono determinati da una deportazione forzata”, secondo quanto riportato da specialisti come Idrissa Zidnaba, ricercatore del Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica (CNRS) del Burkina Faso.

Per tanto, il ruolo dell’OIM è messo in discussione da gran parte della società civile che, secondo la rete europea Migreurop, la descrive come “ente di deportazione” o “organizzazione al servizio dei confini chiusi.” L’organizzazione lavora per “una migrazione regolare, ordinata e sicura”, in linea con il patto Mondiale per le Migrazioni, però non offre alternative ufficiali e canali regolari alle persone che vorrebbero spostarsi. Il suo scopo, secondo quanto riportato da David Cumber, coordinatore in Bamako è “ridurre i flussi irregolari”, ma ammette l’incapacità di reclamare “più percorsi legali e sicuri”. Anche il suo capo missione in Niger, Martin Wyss, ammette la volontà dell’UE di “esternalizzare le frontiere” e afferma di non potersi pronunciare né criticare le espulsioni dell’Algeria perché “è una questione che riguarda i due paesi”. Nonostante questo, si mostra soddisfatto del supporto alla diffusione di “controlli biometrici molto sofisticati per controllare chi entra e chi esce dal paese”.

Negli ultimi tempi l’OIM, come strumento chiave delle politiche di contenimento dell’UE, si è stabilita con forza in paesi vicini come il Burkina Faso e il Mali, attraverso un discorso dissuasivo e affermando che la mancanza di sviluppo è collegata alla migrazione, il che è discutibile visto che “lo sviluppo intensifica la mobilità”, secondo l’opinione di specialisti dell’Università Abdou Moumouni di Niamey, come Harouna Mounkalia.

Storie di sabbia

La chiusura dell’Europa, non solo rende più vulnerabili le persone in movimento ma incide anche sugli spostamenti all’interno dell’Africa che, anche se non se ne parla, sono i più importanti. Infatti, l’immagine degli africani che vogliono arrivare in Europa non è quella più frequente, però “i media hanno costruito questo racconto eurocentrico mettendo da parte la mobilità interna” secondo il sociologo Hamani Oumarou, che lavora per il LASDEL, il centro di studi sociali più importante del Niger. Il 75% delle migrazioni nell’Africa subsahariana avviene verso i paesi vicini, e il 90% di queste ha luogo all’interno di stati dell’Africa occidentale. Per tanto, l’ossessione dell’Unione Europea di frenare i flussi verso il suo territorio è priva di fondamento e le morti che avvengono nei suoi confini non sono la conseguenza di un incremento smisurato dei flussi bensì delle restrizioni.

A tale proposito, la società civile denuncia la violazione del protocollo di libera circolazione della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO) e critica il fatto che l’aumento dei controlli nelle strade e le frontiere violi la libertà di movimento dei cittadini della zona. Il Governo del Niger lo nega e la responsabile dell’ente per la tratta di persone difende la legge contro il traffico affermando che preveda più garanzie per le persone migranti. L’UE, dal canto suo, nega anche l’esternalizzazione delle frontiere e si nasconde dietro al fatto che gli accordi in Niger siano frutto di un rapporto “da pari a pari”, secondo l’opinione dell’ambasciatrice Denise-Elena Ionete.

Diversi enti sociali come Alternative Espace Citoyen, in Niger, o la Casa del Migrante, in Mali, denunciano la violazione sistematica dei diritti delle persone migranti lungo tutto il percorso, non solo da parte dei trafficanti, come dichiara l’UE, ma anche da parte delle autorità, la polizia, i militari e le bande di criminali. Si documentano violenze sulle donne e sugli uomini, inosservanze del diritto internazionale, deportazioni forzate, traffici di ogni tipo di merci illecite – droga e armi – e limitazioni del diritto a migrare, riconosciuto dalla Carta dei Diritti Umani.

Secondo l’attivista Tcherno Hamadou Boulama: “Il Niger è diventato una specie di prigione a cielo aperto per chi aspira a migrare”. Sulla stessa linea, l’antropologo e missionario argentino Mauro Armanino, ormai stabilito nel paese, denuncia il neocolonialismo vigente e sottolinea l’importanza di essere presenti in Niger.

Qui la gente torna con ferite nel corpo e nello spirito. Sono creature di sabbia, storie di sabbia, sono segnate dalle dune, fragili, dove non è facile camminare sulla terra solida. Quello di cui abbiamo bisogno qui non è il denaro ma il rispetto” conclude.

@oriolpuigce

* Questo report fa parte del progetto di Alianza por la Solidaridad y Oriol Puig intitolato “Il Sahara, un deserto in movimento: oltre la frontiera sud e il Mar Mediterraneo”, finanziato da Beca DevReporter e promosso da Lafede.cat-Organitzacions per la giustizia globale con fondi europei