Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

tratto da altalex.com

Traduzione degli atti per il cittadino straniero: un orientamento che si consolida

di Carlo Alberto Zaina

Il decreto che si commenta viene ad inserirsi all’interno di un orientamento che indubbiamente ha incontrato negli anni scorsi forti resistenze e momenti di palese avversione e contrasto.

E’, infatti, il caso di ricordare un’altrettanto importante pronunzia resa dal Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 2345 il 19 aprile 2000, che in relazione al problema della tutela delle minoranze linguistiche nel procedimento innanzi la Commissione centrale di riconoscimento dello status di rifugiato politico, ribadì con chiarezza e nettezza il diritto dello straniero ad essere posto nella condizione di comprendere ogni atto che, provenendo sia da un’Autorità giurisdizionale, che da organi amministrativi (nella fattispecie la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico), abbia forza e capacità di incidere su di un suo diritto soggettivo.

Il problema dell’obbligo di traduzione degli atti nella lingua parlata e compresa dallo straniero, affrontato dalla pregevole sentenza del Giudice di Pace di Forlì, ha, ormai radici temporalmente datate.

Nonostante sia stato affrontato anche dalla Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 10 del 1993, nonostante trovi linee guida nella Convenzione dei diritti dell’uomo di New York (art. 6 co. 3° lett. A) della CONVENZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO, recepita con L.4.8.1955 N. 848) e nel PATTO INTERNAZIONALE RELATIVO I DIRITTI CIVILI E POLITICI, (art. 14 co. 3° lett. A recepito dalla L. 25.10.77 N. 881.), recepite solo formalmente dal nostro ordinamento con leggi ad hoc, esso è rimasto, sul piano giurisprudenziale irrisolto e di fatto inattuato concretamente, fatte salve prese di posizione analoghe a quella in oggetto, che, però, non manifestano apprezzabile continuità e costanza.

Nella famosa sentenza 10/93, la Consulta, infatti, affermò il principio che la mancanza di un obbligo espresso di traduzione nella lingua nota all’indiziato non può affatto impedire “l’espansione della garanzia assicurata con l’art. 143 co. 1 c.p.p., in conformità ai diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali, ratificate in Italia e dall’art. 24 co. 2° della Costituzione..”.

Non può essere revocata in dubbio la necessità della preventiva traduzione dell’atto destinato al cittadino straniero; in una lingua che costui possa comprendere appieno.

Il principio cesellato dalla pronunzia del giudice delle leggi integra, indubitabilmente, il diritto più ampio e completo alla difesa, con ciò intendendosi la possibilità per l’indagato/imputato di recepire e comprendere espressamente le accuse mossegli, cioè il fatto materiale che gli viene addebitato, nonché la relativa violazione di legge e, su tale abbrivio, poter contestare e contraddire efficacemente le stesse.

A tutto ciò non può ovviare la circostanza che l’indagato straniero si munisca di un difensore, se è vero che ad esempio, nel procedimento penale l’ordinanza di custodia cautelare si pone spesso, quale primo originario atto attraverso il quale l’indiziato dovrebbe comprendere la sussistenza di un procedimento penale a proprio carico fondato su indizi, allo stesso modo del provvedimento amministrativo di espulsione.

Su tale presupposto non può che concludersi per l’ammissibilità della traduzione.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato, infatti, che “….Anche l’ordinanza di custodia cautelare come il decreto di fissazione del giudizio, infatti, è un atto di fronte al quale l’indagato straniero che non comprendesse la lingua italiana potrebbe esser pregiudicato nel suo diritto di partecipare al procedimento a suo carico libero nella persona, in quanto, non comprendendo cosa in esso scritto, non sarebbe posto in grado di valutare né quali siano gli indizi ritenuti a suo carico (e quindi difendersi con riferimento agli stessi) né se sussistano o meno i presupposti per procedere all’impugnazione dell’ordinanza per nullità ai sensi dell’art. 292 comma 2, c.p.p…..” (Cass. Sez. III, 8.9.1999 n. 1527 (c.c. 26.4.1999), Braka ed altro, in Archivio della Proc. Pen. 1999, pg. 598; cfr. anche Cass. Sez. V 22.6.1995, n. 1310, Alagra.).

Ed in progresso di tempo la Suprema Corte, sez. IV, 05/05/2004, ha avuto modo di rocndurre il proprio pensiero all’ispirazione data dalla citata sentenza 10 del 1993, sia in materia di giudizio abbreviato1, parimenti la sez. V, 11/11/2004, n.47035, si soffermata sul problema in relazione al provvedimento custodiale (pur nel rispetto dei limiti di cui all’art. 94 co. 1 bis disp. att. C.p.p.)2.

Il tema dei provvedimenti ablativi lo status libertatis è stato ripreso anche da Cass. pen., sez. IV, 17/06/2004, n.42323, che ha sostenuto che “L’obbligo di traduzione del provvedimento custodiale sussiste, con conseguente declaratoria di nullità in caso di omissione, qualora risulti dagli atti che l’indagato non conosce la lingua italiana ovvero, non risultando dagli atti che l’indagato non conosce la lingua italiana, nel caso di mancata nomina dell’interprete per la traduzione in sede di interrogatorio di garanzia”. (Lamnaour, Guida al Diritto, 2004, 48, 92).

Di avviso contrario è Cass. pen., sez. III, 29/04/2004, che ha discutibilmente ritenuto che fosse esclusa l’esistenza della prova certa della mancata conoscenza dell’italiano da vari elementi, desumibili dalle circostanze dell’interrogatorio ex art. 294 cod.proc.pen., avvenuto con l’intervento di un interprete e del difensore e nel corso del quale lo straniero aveva dichiarato di essere presente in Italia da otto mesi e di non comprendere bene la lingua italiana (CED Cassazione, 20049

Tale presa di posizione è, purtroppo, espressione sintomatica di quelle forti resistenze che hanno da sempre impedito il definitivo affermarsi del principio postulato dalla sentenza in commento.

Simili incidenti di percorso attestano un evidente scollamento fra l’aspirazione e la concezione teorica che, da un lato, scolpisce il principio che il diritto a comprendere esattamente nella propria lingua un atto processuale od un atto amministrativo deve essere riconosciuto dinanzi ai giudici penali ed amministrativi di legittimità, siccome principio indiscusso ed indiscutibile sul piano formale, e la concreta realtà ed applicazione, la quale rimane, certamente, lettera morta, atteso che è assai raro che ci si imbatta, nell’ambito dei giudizi che riguardano cittadini stranieri (ed in special modo extracomunitari) nella traduzione dei provvedimenti che li riguardino.

Le maggiori resistenze all’adesione al dovere di traduzione emergono, infatti, dalle pronunce di merito.

Il tutto nonostante che vi sia un preciso dovere-presupposto di verificare la condizione di comprensione della lingua in capo allo straniero: “Presupposto indispensabile perchè vi sia l’obbligo, ai sensi dell’art. 143 c.p.p. (quale interpretato dalla corte Costituzionale con sentenza n. 10 del 1993)di disporre la traduzione del decreto di citazione a giudizio dell’imputato straniero è che quest’ultimo ignori, di fatto, la lingua italiana. Cass. Sez. IV, 1.2.2000, n. 1141, Vernedas, in Arch. Proc. Pen., pg. 154.

La questione va, quindi, a mio parere, esaminata sia in riferimento alla disciplina degli atti processual-penalistici, sia in relazione a tutti quegli atti di natura amministrativa, suscettibili di incidere, (sia sul piano dell’ablazione, che dell’espansione), sul diritto dello straniero, e come tali devolvibili alla valutazione di legittimità e merito dell’A.G. amministrativa.

Il principio in parola, infatti, è unitario ed inscindibile e richiede una soluzione comune, anche se si rivolge a problematiche ed ordinamenti apparentemente diversi tra loro sul piano sostanziale e su quello procedurale .

La norma di diritto processuale penale, l’art. 143 cpp, pur recependo il dovere di tutelare lo straniero e ponendo questi in condizione di comprendere non solo l’aspetto naturalistico della vicenda che lo riguarda (l’eventuale privazione della libertà o la celebrazione di un processo a suo carico), era inficiata da un vizio di patente genericità, non individuando – come invece era logico e doverso attendersi – l’ambito concreto di intervento della figura dell’interprete.

Va, infatti, evidenziato, preliminarmente, che nessuna presunzione di conoscenza della nostra lingua può essere ritenuta vigente in capo allo straniero; essa opera solo nei confronti del cittadino italiano, anche se appartenente a minoranze linguistiche.

Conseguiva e consegue, tuttora, l’obbligo preliminare di verificare sostanzialmente quale idioma sia effettivamente conosciuto, compreso e capito dal cittadino straniero sia in sede penale che in altro ambito (cfr., seppur con limitazioni e deroghe l’art. 13 co. 7 D.Lvo 25.7.98 n. 286).

Tale dovere incombe, quindi, senza dubbio in primo luogo alle forze dell’ordine deputate all’esecuzione dei provvedimenti (ad esempio l’arresto dello straniero in flagranza od in esecuzione di ordine del giudice, oppure la notifica del provvedimento di espulsione o di diniego del permesso di soggiorno).

Incombe, altresì, al magistrato che debba, in progresso di tempo svolgere quegli adempimenti che la legge richiede quale condizione di validità di taluni provvedimento (interrogatorio ex art. 391 cpp oppure ex 294 cpp ad esempio).

Non essendo certamente di oggi il problema, fu gioco-forza dover ricorrere al più volte ricordato intervento della Corte costituzionale, che con la citata sentenza 19 gennaio 1993 n. 10, precisò quali fossero gli ambiti del cd. “diritto all’interprete” nell’ambito del processo penale.

E’ indubbio, peraltro, che la pronunzia del giudice delle leggi, seppur consequenziale ad una vicenda della giurisdizione penale, non potesse (nè può tuttora) venir confinata e circoscritta solo all’ambito penalistico, ma debba avere un effetto estensivo, siccome ritenuta applicabile – quale principio di ordine generale, e costituzionale – per ogni caso che coinvolga una persona non italiana e non a conoscenza della nostra lingua.

Nonostante, quindi, il robusto substrato normativo ed interpretativo sin qui ricordato, nonostante il dictum della Corte sia ormai vigente da oltre 13 anni, è evidente, come si è detto, purtroppo, una carenza di attuazione concreta del principio sancito.

Siffatta situazione è cagionata da alcune contraddittorie frammentazioni normative, che si andranno ad evidenziare, che permettono una interpretazione estremamente equivoca che molti giudici (sia penali che amministrativi) forniscono alla materia.

Il problema appare in tutta la sua gravità, nonostante le ricordate pronunzie di principio della Suprema Corte di Cassazione, soprattutto in relazione ad atti quali ad esempio, l’ordinanza applicativa una misura cautelare personale, il decreto che fissa l’udienza preliminare o che dispone il giudizio dibattimentale o che fissa il giudizio immediato, da un lato, il provvedimento di espulsione o di dinego del permesso di soggiorno, dall’altro.

Taluno potrà osservare che si tratta di provvedimenti che hanno natura tra loro diversa: i primi hanno derivazione giurisdizionale, i secondi sono veri provvedimenti amministrativi.

Queste differenze non possono, però, incidere in maniera decisiva, giacchè la caratteristica comune a i citati atti è, in primo luogo, la penetrante incidenza degli stessi sia sul diritto del soggetto alla propria libertà di movimento, ed in secondo luogo, per quanto attiene alle misure cautelari personali ed ai provvedimenti amministrativi, l’impugnabilità degli stessi dinanzi all’A.G. con un riesame di merito e di legittimità, quale esercizio del diritto del singolo a difendersi.

Il parallelismo fra le misure cautelari ed i provvedimenti ablativi il diritto dello straniero a soggiornare in Italia, mi pare meritevole di approfondimento, in relazione all’argomento in esame, anche perchè sono queste le situazioni che maggiormente comportano l’insorgere dei problemi sin qui lamentati.

Le frammentazioni e disorganizzazioni normative vengono evidenziate in materia penale, dal richiamo che l’art. 143 cpp, al co. 1°, opera nei confronti dell’art. 94 disp. att. cpp..

Questa norma sancisce al co. 1 bis, introdotto con la L. 8.8.1995 n. 332, (art. 23),”….che il direttore del carcere (o l’operatore penitenziario da lui designato) accerta, se del caso, con l’ausilio di un interprete , che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che dispone la custodia e gliene illustra, ove occorra, i contenuti.”

Or bene, con la disposizione sopra riportata ci trova di fronte ad una previsione generica, inutile, assolutamente priva di concreta portata giuridica, di carattere meramente precettivo, non connotata da una previsione sanzionatoria di nullità, in caso di mancato adempimento.

E’ addirittura difficile comprendere se ci si trovi di fronte ad una norma che abbia carattere di doverosità per i soggetti in essa indicati, o se sia meramente indicativa di facoltà.

E’ intuitiva la circostanza che la mancata correlazione di una sanzione processuale, evidenzi la irrispettosità di quei termini perentori, che il legislatore ben applica quando ritiene opportuno, con la conseguenza che, in pratica, ci si trovi di fronte alla classica norma all’italiana.

La ratio dell’art. 94 citato è quella “buonista” di agevolare lo straniero, fornendogli un aiuto, un sostegno.

In realtà (ed in concreto), proprio per come concepita, per la sua collocazione (nell’ambito delle disposizioni di attuazione, ben poco conosciute dagli stessi giuristi ed addetti ai lavori), per la creazione di competenze anomale (il direttore del Carcere od un operatore del carcere designato, quest’ultimo scelto non si sa in base a quale criterio), essa finisce per arrecare solo danno al soggetto che ne deve fruire: il detenuto, rivelando, quindi, la sua totale inutilità.

Si pensi solamente alla circostanza che un’ordinanza custodiale può essere impugnata nei 10 giorni dalla sua notifica o esecuzione; come mai il legislatore fissa per l’intervento dell’autorità carceraria un determine indeterminato? Perchè se l’accertamento non avviene all’atto del colloquio di cui all’art. 23, esso può essere procrastinato sine die, con buona pace dei termini perentori per l’impugnazione ex art. 309 e 311 cpp?

Quid iuris ove l’accertamento non avvenga (e penso che ciò sia piuttosto usuale) ed il detenuto non sia in grado di comprendere esattamente cosa succede sul piano giuridico?

Chi sarebbe responsabile, il direttore del carcere ? Sarebbe ipotesi di responsabilità disciplinare o responsabilità penale per omissione di atti di ufficio, con conseguente responsabilità civile per eventuali danni?

Ed ancora, appare assai stravagante la delega di competenze ad una autorità amministrativa, la quale già oberata di ben altri problemi, ha compiti, funzioni del tutto diversi dal giudice e conoscenza tecnico-giuridiche, spesso, sia consentito dirlo senza tema di offesa per nessuno, insufficienti in materia di atti giurisdizionali.

Se è vero che il titolo IV del libro II del codice di rito del 1988 regola l’intervento dell’interprete, laddove si debba procedere all’interrogatorio, ponendo a carico del giudice, del P.M. e della stessa polizia giudiziaria, precisi oneri, non si comprende la ratio di una scelta che non imponga a questi soggetti precisi obblighi in relazione ai provvedimenti privativi la libertà personale.

In pratica l’interprete non deve esaurire la propria funzione nel contesto dell’interrogatorio, ma – quale ausiliario dell’autorità procedente ed in special modo del giudice – dovrebbe essere attivato automaticamente anche, affinchè il provvedimento attinente alla libertà personale dell’indagato, che questi riceverà in copia e che potrebbe essere titolo per la sua detenzione, sia tradotto integralmente nella lingua di origine dell’interessato, ove vi sia anche il solo il mero dubbio che l’interessato non lo possa capire nella sua portata e nelle sue ragioni.

Taluno potrà giustamente osservare che quanto sopra sostenuto è pleinastico perchè, normativamente, l’art. 143 co. 2° cpp, prevede la traduzione di uno scritto in lingua straniera, ed in quanto giuridicamente la S.C. ha riaffermato più volte l’obbligo della traduzione di vari atti del giudice penale, ricomprendendo in tale novero proprio quelli sopra indicati.

La necessità del rispetto del regime di conoscibilità dell’atto, condizione unica a che lo stesso produca efficacia nella sfera del destinatario, è affrontata anche, in progresso di tempo, dal Giudice delle leggi, con la sentenza n. 227 del 22 giugno 2000, (Pres. Guizzi, Red. Zagrebelsky).

La Consulta, in tale occasione, infatti, ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 8, L. n. 286/98, sollevata dal Pretore di Padova, che aveva ritenuto che questa norma violasse il diritto di azione in giudizio garantito dall’art. 24 della Costituzione in quanto non prevede, per il caso in cui il decreto di espulsione, non essendo stato tradotto nella lingua madre dell’interessato, non sia stato da questo adeguatamente compreso, la rimessione in termine o la proroga del termine per l’impugnazione, affermando che alla norma in esame deve essere data un’interpretazione diversa da quella sostenuta dal Pretore remittente.

In buona sostanza, la Corte ebbe a riaffermare, quale premessa, che il sistema legislativo in materia di immigrazione non può prescindere dalla garanzia della piena conoscibilità del contenuto del provvedimento, garanzia necessaria all’effettività del diritto di difesa in giudizio, secondo l’art. 24 della Costituzione, nonché secondo varie disposizioni di accordi internazionali in materia ai quali l’Italia ha aderito (art. 1 del protocollo n. 7 allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 13 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881).

Ciò nonostante si è in presenza di una oscillante (e spesso contraddittoria) applicazione di questi principi da parte di giudici di merito.

In proposito è interessante ricordare un pronunziamento del Tribunale di Venezia (Sez. Riesame) del 29.9.2000, che nega che sia compito del G.I.P. quello di tradurre l’ordinanza di custodia cautelare nella lingua dello straniero (nella fattispecie un cittadino austriaco), perchè costui può avvalersi della citata procedura di cui all’art. 94 disp.att. cpp, per conoscere il contenuto del provvedimento.

Non essendo, nel caso concreto, stata attività tale procedura, secondo il Collegio, l’indagato non avrebbe alcun diritto a dolersi del vizio lamentato!

Domandiamoci solo se sia ragionevole pensare che il detenuto straniero possa conoscere una disposizione di attuazione del codice, che è possibile (anzi probabile) sia sconosciuta agli stessi organi che dovrebbero attuarla.

Il problema appare, lo si deve ribadire, pertanto, drammatico, soprattutto in tema di libertà personale, situazione che importa sempre decisioni ed interventi calibrati su tempi assai ristretti.

Come si può pensare che un extracomunitario, proveniente da un paese assolutamente diverso per usi consuetudini, sistemi politici e giudiziari dal nostro possa comprendere i propri diritti ed esercitare la propria difesa, in assenza di meccanismi chiari che lo pongano a conoscenza delle ragioni di una accusa penale.

E non può affermarsi che, in fin dei conti, il fatto di essersi munito di un difensore (di ufficio o di fiducia) compensi la situazione, posto che la S.C. ha infatti riaffermato i ben precisi limiti fra difesa tecnica e difesa propria dell’interessato, sostenendo che la presenza nel procedimento o nel processo vero e proprio, del difensore, soggetto naturalisticamente e giuridicamente diverso dall’indagato, non può fungere da surroga dell’esercizio del diritto di difesa che è eminentemente personale.

Illuminante, in proposito, a conferma di quanto si va dicendo è una ordinanza del Tribunale del Riesame di Bologna, (22.5.2000) che, rigettando un ricorso avverso ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P di Rimini, ha affermato che, essendo stato presente l’interprete, all’interrogatorio di garanzia dello straniero colpito da ordinanza custodiale, si deve ritenere che l’indagato abbia avuto la possibilità di comprendere l’accusa, e che, quindi, nessuna lesione del diritto di difesa è ravvisabile nella mancata traduzione del titolo, pur dando atto che il direttore del carcere, nella fattispecie, avrebbe segnalato come l’indagato avesse una carente conoscenza della nostra lingua.

Afferma, altresì, il Tribunale, che apparirebbe illogico pretendere una traduzione preventiva di un atto, prima di verificare se il destinatario straniero conosca la nostra lingua.

La motivazione del Collegio bolognese non tiene conto del fatto che:

1. l’interprete è presente solo all’interrogatorio, non ha possibilità di operare prima di tale momento, sicchè l’indagato non ha alcuna possibilità nei giorni precedenti di comprendere e di giungere a tale fase preparato a contraddire, se del caso, le accuse mossegli;, comprimendo il diritto di difesa al solo breve momento in cui l’interprete sarà presente dinanzi al giudice;

2. è gioco forza, per ovvie ragioni anche temporali, che l’interprete traduca, quindi, sommariamente i concetti trasfusi nell’ordinanza, che può essere corposa ed articolata; tale modus operandi non permette allo straniero di trovarsi nella stessa condizione dell’italiano. L’indagato straniero potrà avere, nel migliore dei casi, solo un’idea generica, ma mai precisa in relazione sia a fatti, che, soprattutto, a osservazioni giuridiche, talora già difficili da comprendere per un addetto ai lavori;

3. la preventiva traduzione di un atto risulterebbe scelta certamente lungimirante, e permetterebbe ogni questione riguardante la violazione del diritto di difesa e preverrebbe eccezioni riguardanti la nullità dei provvedimenti in oggetto.

Quanto sin qui esposto può agevolmente venir richiamato anche in ambito di provvedimenti ablativi il diritto dello straniero al soggiorno nel nostro paese.

Per quanto l’art. 13 co. 7 del D.L.vo 25.7.98 n. 286 sancisca il ricorso alla traduzione nella lingua originaria, troppo spesso le Questure, per problemi organizzativi e logistici, si avvalgono della previsione residuale della norma che permette la traduzione dell’atto in inglese o francese.

Il principio stabilito dal Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 2345, pronunzia riportata all’inizio e cioè che “…L’art.3 del DPR 15 maggio 1990, n.136 va interpretato nel senso che la lingua del richiedente deve essere da questi conosciuta e comprensibile e, pertanto, il richiamo alla lingua del cittadino straniero non deve intendersi in senso tecnico, con riferimento cioè agli idiomi ufficiali dei diversi paesi, ma con riguardo agli specifici contesti lessicali e sintattici che sono radicati, con tanta varietà, nelle comunità di tutto il mondo e di cui alcune popolazioni e gruppi fanno uso in modo talvolta esclusivo” deve divenire regola cogente di portata, applicazione e valore generale, e non rimanere affermazione di principio priva di una concreta conseguenziale attuazione.

Se necessario ad abundantiam, sia nell’ambito della rivisitazione delle norme procedurali penali, finalizzate all’attuazione del giusto processo, così come nel contesto di ogni atto amministrativo che riverberi effetti sui cittadini stranieri, il legislatore deve farsi carico di approvare una chiara ed univoca legge sul punto, al fine di sgomberare ogni equivoco.

Sarebbe, infatti, sufficiente stabilire che “E’ fatto obbligo a tutte la Amministrazioni dello Stato, al momento di emissione di atti o provvedimenti sia amministrativi, che giurisdizionali, accertare anche a mezzo interprete se lo straniero comprenda e parli la lingua italiana, e comunque, in quale lingua egli si esprima. Ove a seguito di tale accertamento, sia dimostrato che lo straniero non si esprime, nè comprende la lingua italiana, l’atto, che deve essere emesso nei di lui confronti, dovrà essere tradotto nell’idioma di origine o in altro dal medesimo parlato e capito. La violazione di tale procedura comporterà la nullità e conseguente inefficacia dell’atto emesso.

A tale previsione potrebbe riconnettersi responsabilità disciplinari a carico di chi non rispetti tale dettato.

Questa può essere una via di uscita, visto che a tutt’oggi l’avere recepito trattati internazionali, peraltro solo formalmente, nulla ha risolto, rimane, però, allo stato attuale la necessità che ai buoni ed inviolabili principi di massima, segua una rigorosa e scrupolosa applicazione concreta, senza voli pindarici od interpretazioni soggettive fondate sulla presunzione di colpevolezza, sullo stato emergenziale della giustizia o sulla giustificazione che siffatti adempimenti comporterebbero tempi lunghi o costi particolari per la P.A..

Il diritto al giusto processo nasce da questi aspetti ritenuti a torto marginali.

Il diritto di difesa deve essere riconosciuto indiscriminatamente a chiunque, anche all’individuo imputato dei più aberranti fatti, proprio per poter affermare che la giustizia, alla fine del suo corso, è giunta a pronunziare una sentenza che sia frutta di una corretta applicazione delle regole del gioco processuale, senza lasciare adito a recriminazioni di sorta o sospetti.

E’, peraltro, tristissimo dovere constatare la concreta discrasia fra la giurisprudenza di legittimità e la prevalente di merito su di un tema che, invece, non dovrebbe creare contrasti proprio per la sua portata e per il suo significato di tutela dell’uomo.

Va, pertanto, salutata con piacere la pronuncia sul punto del giudice di Pace di Ascoli Piceno, laddove richiamo ed impone un principio di stretta osservanza della disposizione in relazione al dovere di tradurre nella lingua madre dell’interessato il provvedimento che lo riguardi (nella fattispecie il romeno), escludendo che in un simile caso possa valere la traduzione in inglese, francese o spagnolo.

Sempre nel solco del decreto in questione va richiamata una recente pronunzia del Tribunale Monocratico di Ancona, che ha annullato il provvedimento di espulsione del cittadino straniero, sul presupposto della lesione del diritto di difesa, data dal ricorso alla traduzione del provvedimento in una lingua differente da quella parlata e compresa dall’interessato.

Parimenti è auspicabile che l’orientamento trasfuso nella sentenza e cioè quello per cui l’impossibilità di tradurre il decreto di espulsione – sul cui presupposto è prevista la traduzione dell’atto nelle tre lingue predette – sussiste solo quando la lingua dell’espulso sia particolarmente rara, ovvero risulti impossibile accertare la nazionalità dello straniero: circostanze, queste, non ricorrenti nel caso di specie, entri a pieno titolo definitivamente e con applicazione costante nel nostro ordinamento giuridico.

In buona sostanza non è ammissibile il ricorso a forme supplettive (meri palliativi) che surroghino impropriamente il dovere di porre in toto il cittadino straniero in condizione di comprendere esattamente e sufficientemente il contenuto precettivo e sanzionatorio dell’atto cui è destinatario.

Non è tollerabile, quindi, il comodo uso surrettizio di idiomi (inglese, francese e spagnolo) che devono essere utilizzati solamente in caso estremo e residuale per cittadini che parlino lingue indubbiamente rare o intraducibili

Non va, infatti, dimenticato che dalla lamentata violazione del ricordato obbligo di esatta traduzione, discende la nullità dell’atto non tradotto (provvedimento giurisdizionale o atto amministrativo per violazione del diritto alla difesa costituzionalmente garantito).

Altalex, 11 aprile 2006