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Train de vie, buona fortuna viaggiatori. Storie da Como

Nelle tre giornate passate a Como abbiamo incontrato tante persone e se fosse possibile, ancora più storie. Siamo qui per raccontarvele con la consapevolezza però che non sarà mai abbastanza.

S.
S. l’abbiamo conosciuta martedì dopo pranzo. Piangeva, accovacciata sotto un albero nel parco antistante la stazione di S. Giovanni. Alcuni suoi connazionali mi hanno fermata chiedendomi di parlarle, – magari tra donne ci si intende di più.
Mi sono avvicinata e dopo poche parole tra l’italiano e un goffo inglese ha alzato la testa che fino a quel momento aveva protetto tra la fortezza delle sue braccia. Erano gli occhi lucidi di una bambina che non riusciva ad asciugarli e guardava nel vuoto. Abbiamo parlato, e aiutate da un ragazzo, F., si è raccontata.
S. è eritrea, ha solo 16 anni, ed è sola. L’unico parente è suo fratello di 22 anni, con il quale aveva provato a fuggire verso la Svizzera il giorno precedente. Lui ci è riuscito, lei è stata fermata, foto-segnalata in Svizzera e riportata in suolo italiano, con il consiglio di tornare a Como.
A posteriori ci interroghiamo su questa “selezione”, sarà stata davvero questione di sfortuna a dividere questi due fratelli? Dei dubbi sorgono.
Questa storia si ripete per tanti, ma lei è l’unica ragazza, minore straniera non accompagnata, presente alla stazione di Como, ed è lì da una settimana ormai. Con una voce rotta dalla stanchezza e dal dolore mi racconta che il suo sogno è raggiungere suo fratello e la Germania dove spera di ricominciare una vita.
La situazione dei MSNA è al limite del drammatico. Sono soli, in una città che non conoscono, in un limbo istituzionale che cerca di far finta di non vederli per non prendersene carico. Troppo grandi per vivere in modo quasi spensierato questa terribile situazione, troppo piccoli per provvedere a sé stessi. Nessuno si sognerebbe di lasciare per strada un ragazzino di 16 anni se avesse la pelle più chiara.
S. deve anche far fronte al suo essere quasi una donna e per quanto la comunità di profughi che vive in stazione è tranquilla e protettiva verso i suoi membri, sono sempre più di 100 persone, sconosciute tra loro, che hanno un sogno e che faranno di tutto per raggiungerlo. Hanno attraversato già mezzo mondo, quello più terribile. La maggior parte sono uomini, un’altra consistente di madri e famiglie con bambini da proteggere.
S. è sola e giustamente mi accoglie nella sua vita in lacrime, anche se il giorno dopo la vedo sorridere al telefono con il fratello che le conferma il suo arrivo in Germania. Ora lei ogni giorno, ogni notte prova a prendere quel treno che alle 5:13 parte dal binario 3 della Stazione di S. Giovanni, sperando che presto sia quello giusto.

E.
E. ha solo 6 anni, anche se vista alle 4 del mattino avvolta nella sua felpa con il cappuccio e la sua bacchetta magica da fatina sembra ancora più minuscola. È la figlia più grande di una mamma/eroe di 28 anni. Ha altre due sorelline, una di 2 anni e mezzo e una di 6 mesi (nata per altro in Svizzera). Sono 4 donne, eritree, che sopravvivono alla stazione di Como S. Giovanni da 4 giorni, sognando di arrivare in Svizzera e poi riabbracciare il papà in Germania.
Abbiamo conosciuto E. in stazione, la sera del 26 luglio. Quella notte avremmo tenuto noi la tenda della Caritas aperta a disposizione di chi volesse godersi un materasso e non il freddo pavimento duro della stazione. E così siamo passati a parlare con tutti, per spiegargli che potevano venire con noi, che non sarebbe successo nulla, che sarebbero stati liberi di andarsene quando volevano, ma che era meglio rigenerarsi in un tendone e su un letto, piuttosto che lì buttati in stazione.
La mamma di E. era molto scettica e più volte ha detto: “No, domani alle 5 devo partire. Devo stare qui in stazione, vicino al binario. Pronta”.
Alla fine ha capito che era meglio venire con noi, che per affrontare quel tentativo di viaggio era meglio raccogliere le forze e stare nel tendone. Noi le abbiamo promesso di esserci, di svegliarci e accompagnarla in stazione in tempo. Abbiamo fatto una promessa e lei si è fidata.
Alle 4:15 si sono svegliate, cercando di fare il più piano possibile per non svegliare le altre persone che avevano rimandato il loro viaggio ad un altro giorno, si sono preparate. Nel silenzio di quei respiri da sonno profondo e con le prime luci dell’alba E. viene a svegliarmi. In modo così delicato che solo l’ansia che avevo ha fatto sì che la sentissi. Mi ha detto solo: “andiamo” e mi ha indicato la mamma e le sorelline che si stavano preparando appena fuori la tenda. In 5 minuti ci siamo alzati e messi in cammino. I 300 metri più lunghi mai fatti.
Una piccola carovana, io e E. per mano, la mamma che spingeva un doppio passeggino che proteggeva le più piccole e l’unico uomo tra di noi con in spalla lo zaino più pesante del mondo. Jacopo sostiene che dentro ci fosse tutta la vita di quella sfortunata famiglia, sia quella che stavano cercando di lasciare, sia quella che sognano, come avrebbe fatto la mamma a sopportare tutto quello sforzo e quel peso da sola, ancora ce lo chiediamo.
In stazione alle 4:45, mezz’ora prima del treno. Ci fermiamo con loro, per parlare, fare delle foto, per assicurarci che salissero indisturbate sul treno. Ci siamo salutati con un abbraccio che non voleva scollarsi, caldo come partissero nostri cari amici per un lungo viaggio, guardandoci con coraggio negli occhi. E poi sono salite su quel treno. E. con la sua bacchetta magica, magari nella speranza di poter fare una magia e aprire un passaggio segreto per la Germania, chissà.
Anche se vorremmo rimanere con il dubbio e la speranza che questo passaggio segreto si sia aperto, il giorno dopo, in tarda mattinata abbiamo saputo che sono state fermate a Chiasso, trattenute per qualche ora e rimandate in territorio italiano, sempre con il solito consiglio di tornare da dove sono venute o magari in una città che in precedenza aveva registrato il loro passaggio.

L.
L. è un bambino vivace e allegro, per quanto si possa esserlo in una situazione simile. Eritreo di 9 anni che da una settimana vive tra la Stazione e il tendone con la sua mamma giovanissima (S.).
La “fortuna” di L. è che ha quella età giusta per poter affrontare questa situazione con un sorriso. L’altra notte, quando si è organizzato un concerto in stazione è stato il re della serata, una gioia contagiosa. Passa le sue giornate giocando con i bambini che vivono lì con lui, con i più piccoli con un carrello della spesa lasciato in stazione, e con i ragazzi più grandi a pallone, come fossero i fratelli maggiori. Capisce un po’ l’italiano e per niente l’inglese, ma è mosso da una fortissima curiosità e ripete tutte le parole che gli vengono dette, non preoccupandosi con quale lingua sta entrando in contatto.
L. è stato un aiuto incredibile per i volontari. La sera che dovevamo tenere il tendone aperto ci ha aiutato a convincere le donne con bambini che erano restie a venire con noi. Evidentemente anche se ogni giorno si scordava i nostri nomi e ripartivamo dalle presentazioni, si fidava, e ci ha sempre accolto urlando: “ciao!”.
Lui e la sua mamma sembravano più stazionari, non hanno provato a passare la frontiera nei tre giorni che siamo stati lì, ma forse solo perché stavano raccogliendo le forze e organizzando il loro viaggio. Sappiamo che anche loro vogliono andare verso la Germania e glielo auguriamo, ma nel frattempo siamo stati felici che questi giorni si sono fermati, effettivamente per noi L. è stato un aiuto in più.

V.
Uno dei ragazzi arrivati il secondo giorno del nostro soggiorno, è somalo, di circa 20 anni con una gamba avvolta da un tutore in tutta la sua lunghezza. Lui è V. e ci racconta che è scappato dal suo Paese e che ha dovuto fermarsi per qualche tempo in Libia, dove ha subito violente percosse e quel tutore era ciò che dopo un mese ancora gli ricordava la sua storia. Ancora dolorante è arrivato a Catania e poi da lì è arrivato nel nord Italia per raggiungere il fratello.
A differenza di tanti altri V. voleva fermarsi in Svizzera e non usarlo come Paese di transito, suo fratello a Zurigo lo aspetta ed avrebbe anche la possibilità di farsene carico.
Anche V. ha tentato di passare la frontiera con quel treno, lo stesso degli altri al binario 3, ma arrivato a Chiasso viene fermato, fatto scendere e messo ad attendere nella gabbia che le autorità svizzere hanno istallato sulla banchina del primo binario alla Stazione di Chiasso.
La gabbia è un’installazione di rete elettro-saldata utile a raccogliere tutti i migranti di pelle scura che si trovano sul treno proveniente da Como. Il treno che gentilmente si ferma circa 10 minuti per consentire la salita e la discesa dei passeggeri, consente anche ai controllori e alla polizia ferroviaria svizzera di far scendere tutti i migranti e metterli nella gabbia mentre si finisce di ispezionare il treno. Una volta finita la “raccolta” i migranti vengono liberati dalla gabbia e portati all’ufficio di Dogana dove gli viene rilasciato un braccialetto giallo con un numero identificativo e dove vengono divisi per destinazione.
V. foto-segnalato per la prima volta in Svizzera, zoppo, con una gamba fasciata, diretto in Svizzera, con un parente che lo attende, viene selezionato nel gruppo di quelli da riportare sul confine italiano e lasciato in strada a sé stesso, con il solito consiglio di tornare da dove è venuto.
Lui questa storia ce la racconta la sera della sua sconfitta, in stazione a Como. Un po’ restio a parlare davanti ad una donna, ma felice di aprirsi con gli uomini/volontari della sua età.
Questa storia l’abbiamo passata a Sara, una volontaria, che molto arrabbiata per questa assurda selezione e per il fatto di sapere che un ragazzo in quelle condizioni di salute sia stato rimandato indietro, ci dice che sarebbe tornata il giorno dopo con un avvocato e magari, se mai ce ne fosse stato bisogno, di voler portare di persona V. a Zurigo dal fratello.

Ci sono tante storie, magari simili ad altre già raccontate, ma tutte parlano di una vita e in questa situazione in cui è difficile rimanere umani, è fondamentale dare voce ad ognuna. È un modo per loro di non perdere ricordi e per entrare in contatto con una persona nuova, magari amica. È un modo per noi, per renderci conto che non stiamo parlando di un fenomeno nuovo, o numeri che ingrossano le “ondate” di cui parlano i tg. Ma di migranti, di persone che vogliono riappropriarsi di una vita.
Ricordiamoci anche che, almeno una vita fa, il diritto d’asilo era un diritto individuale, e che una storia fa la differenza tra chi gode del diritto alla protezione internazionale e chi no.

Per Melting Pot Europa

Giulia Piselli
Jacopo Pesiri

Over The Fortress, Against Any Border