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Trento – Rom: Un percorso inedito di partecipazione

Dopo lo sgombero delle baracche riprende la battaglia per la dignità

Il 5 dicembre più di venti cittadini rom sono stati sgomberati da un’area trasformata in baraccopoli dalla Polizia Municipale del Comune di Trento. Lo stesso giorno si sono rifugiati sotto un ponte lungo l’argine del fiume Adige. L’11 e il 12 dicembre il gruppo dei rom insieme al Centro Sociale Bruno, ad Officina Sociale, ai Volontari di Strada e a tante altre persone solidali si è recato presso il palazzo comunale imponendo all’amministrazione di trovare una soluzione dignitosa per rimanere nella città di Trento. Ora i rom dormono in alcuni moduli abitativi posti dentro le ex Caserme Bresciani e quotidianamente con i volontari e con gli attivisti del centro sociale discutono del loro futuro all’interno di un’assemblea.

Di giorno sono ai lati delle strade del centro, inginocchiati e con la fronte bassa, un pezzo di cartone sotto le ginocchia e un altro tra le mani con scritto “sono povero, aiutami”. Un bicchiere per l’elemosina.

Alle cinque del pomeriggio sono in centro sociale, per l’assemblea, discutendo di come uscire da sotto un ponte, di come ottenere un posto caldo. Ascoltano attentamente i volontari che spiegano la legge sui cittadini comunitari e intervengono spiegando che vogliono rimanere a Trento, lavorare, abitare in una casa.

Sono i rom che un’ordinanza del sindaco del capoluogo trentino ha sgomberato nei primi giorni di dicembre da una baraccopoli allestita negli anni all’interno del perimetro di una fabbrica abbandonata che si componeva di tende e giacigli che seppur poco igienici erano un riparo dal freddo nordico che riduce le temperature al di sotto dello zero già da metà novembre. Sono i rom che assieme a volontari di strada e attivisti del centro sociale Bruno hanno iniziato un percorso inedito di partecipazione che da sotto un ponte in riva all’Adige li ha portati fin dentro le stanze del municipio per chiedere un posto dove dormire. In questi giorni, attraverso numerose iniziative pubbliche, sono riusciti a mobilitare una solidarietà che ha obbligato il comune di Trento a riprendere in mano il “caso rom” e attivarsi per la ricerca di soluzioni che vanno al di là della risposta emergenziale, obbligando l’assessorato alle politiche sociali ad accettare un percorso per l’integrazione possibile.

Dal giorno dello sgombero – ordinato per gravi motivi di igiene pubblica, gestito dai vigili urbani e dagli operai del comune che hanno divelto e spianato ogni riparo – le famiglie che compongono questo gruppo di una ventina di romeni di etnia rom si era accampato sotto il cavalcavia della tangenziale cittadina, sull’argine del fiume, non accettando la proposta dei servizi sociali che prevedeva – in via emergenziale – la disponibilità di accoglienza all’interno dei dormitori cittadini, uomini da una parte e donne dall’altra. La necessità di vivere assieme, di non disperdere il loro gruppo familiare, li aveva convinti a spostarsi di qualche centinaio di metri, alla ricerca di un nuovo accampamento.

La notizia ha subito mosso attivisti del centro sociale e volontari di strada che, accusando il comune di aver preferito l’ordine pubblico alle politiche sociali, hanno portato generi di conforto, materassi e coperte a un gruppo di rom che in pochi giorni è riuscito a coinvolgersi in una battaglia per i diritti e la dignità che – con controparte un’amministrazione – è riuscita nell’intento di far allestire dei moduli abitativi che permettano all’insieme della famiglia di rimanere unita.

Nel giro di pochi giorni, infatti, dopo due incontri in comune ai quali hanno partecipato tutti assieme i rom, gli attivisti e i volontari – con faccia a faccia a muso duro tra questa inusuale assemblea e l’assessora Plotegher – l’amministrazione ha accettato parte delle proposte avanzate. Ma oltre alla disponibilità al pernottamento notturno e alla garanzia dell’unità dei nuclei familiari, un no secco è arrivato alla richiesta di abitare anche durante il giorno quest’area attrezzata, impedendo così la possibilità – che l’assemblea dei rom aveva addirittura messo per iscritto in un documento – di ricostruire una parvenza di quotidianità.

Se da parte dell’amministrazione comunale si vuole evitare la trasformazione di un’emergenza nella costruzione di un campo rom – e da qui la negazione di momenti di socialità all’interno delle strutture di accoglienza allestite appositamente per il gruppo, riducendo a mero dormitorio i moduli prefabbricati –, da parte dei volontari e degli attivisti, e dagli stessi rom, la critica è mossa al limite assistenziale che non lascia spazio ad una partecipazione, ad un’autodeterminazione, ad una politica che nega l’opportunità di incontro e in prospettiva ostacola una possibile integrazione che non potrà mai nascere dal solo impegno delle strutture comunali ma necessita dell’impegno di tutti i soggetti – anche e soprattutto quelli non istituzionali – che si attivano attraverso relazioni soggettive e affettive, non burocratiche e distaccate.

Sarebbe sbagliato – e di questo dovrebbero rendersene conto gli amministratori – disperdere e impedire la prosecuzione di questo strana e inusuale “rivolta” che vede come protagonisti dei rom, un’etnia che si è abituati a vedere riluttante all’impegno sui diritti, per nulla coinvolta nei processi politici di rivendicazione come succede per altri gruppi migranti abituati all’organizzazione di lotte e capaci di costruire soggettività. Sarebbe sciocco disperdere la partecipazione e la sperimentazione della democrazia assembleare che queste famiglie rom stanno costruendo con ragazzi e ragazze che non si limitano a portare loro il tè caldo ma che attraverso la relazione affettiva e solidale riescono a stabilire rapporti politici; riescono a scrivere con la comunità rom una sintassi relazionale che traduce in realtà quella “politica sociale partecipata” che riempie i preamboli di ogni documento ufficiale ma che inciampa sempre nella gestione ordinaria delle strutture amministrative. L’inedita alleanza tra rom, volontari di strada e no global da centro sociale ha spinto una città intera a fare i conti con il possibile, con la realtà che deve essere gestita e non ignorata, o peggio vissuta come ineluttabile.

L’amministrazione delle politiche sociali non risponde più – attraverso gli sgomberi e le soluzioni tampone – alle richieste securitarie della Lega Nord che chiede il pugno di ferro. Ora è obbligata a rispondere anche alle richieste di Flori e di Grencuta, di Maria e Daniel che chiedono non solo di essere aiutati, ma incoraggiati da volontari e attivisti chiedono di potersi gestire uno spazio, chiedono il perché di certe regole, discutono insieme di come superarle.

Nei nuovi moduli abitativi possono entrare solo loro, i rom. È vietato l’ingresso a volontari e amici. Questa imposizione – volta forse a spezzare quel connubio umano e politico di quell’assemblea per i diritti che ha messo in difficoltà lo svolgersi inesorabile della burocrazia comunale – è l’ostacolo da superare in questi giorni. Ogni sera, prima di ritirarsi per la notte, l’assemblea si ritrova davanti ai cancelli dell’area allestita: se non possono entrare attivisti e volontari sono i rom che li raggiungono. Per discutere e parlare del futuro, per incontrarsi dentro un clima di partecipazione che stempera il gelo di una baraccopoli “ufficiale” che sarebbe fredda anche d’estate.

Il giorno dopo si incontrano per strada, Victor ha un cartone sotto le ginocchia, e quello tra le mani è stato scritto in stampatello maiuscolo dai volontari. Il giorno prima la polizia gliel’ha strappato.