Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

tratto da: L'Espresso del 21 gennaio 2008

Treviso, scrittori in piazza contro il razzismo

di Mauro Covacich

Da quando sto a Roma ho capito cosa vedono i romani guardando verso il Veneto. Vedono una plaga sconfinata, perennemente nascosta nella nebbia, abitata dai rivoltosi delle quote latte, i padroncini dei tir, i piccoli imprenditori con le maniche arrotolate sul maglione in pile, e gli alpini, sempre gli alpini, le facce rubizze, in una mano il vin brulé, nell’altra il mestolo della polenta, impegnati nella solita festa di beneficenza per i figli disgraziati dei tossici. Non vedono più le signorine tonte che andavano a servizio nelle case parioline degli anni Cinquanta, solo perché in primo piano dominano le figure maschili, non perché le signorine tonte siano sparite dal loro immaginario. I romani vedono questo, e per comodità – la comodità senza malafede di chi è abituato da millenni a semplificare e chiama veneto anche un triestino come me – lo contrassegnano con la parola leghisti, la terra dei leghisti, un posto che ancora oggi sulle carte geografiche andrebbe indicato con la locuzione latina ‘Hic sunt leones’.

Ora, sbagliano i romani? Certo che sbagliano. Eppure l’immagine che il Veneto trasmette all’esterno, o perlomeno quella che risulta vincente nella corsa alla notizia, non smentisce mai lo stereotipo.

Il caso più recente è quello dei sindaci razzisti. A Romano d’Ezzelino il sindaco ha escluso i bambini extracomunitari dai bonus scuola (due anni fa ha consegnato i pacchi della Croce Rossa solo a residenti italiani). Il sindaco di Teolo ha nominato una commissione per verificare la buona conoscenza della lingua italiana da parte dei nuovi residenti allogeni, prima di concedere al prefetto il nulla osta per la cittadinanza. Il sindaco di Montegrotto Terme ha fatto scrivere sui tabelloni luminosi dei servizi stradali: ‘Cittadini, emigrate! Vivrete meglio da immigrati in un’altro paese (con l’apostrofo) che da cittadini nel vostro’. Un consigliere comunale di Treviso ha auspicato “metodi da SS per gli immigrati”. Il sindaco di Cittadella ha nominato a sua volta una commissione per valutare la pericolosità dei nuovi cittadini, chiedendo a ciascuno di certificare un reddito annuo non inferiore a 5 mila euro: delibera, questa, adottata dalla maggioranza dei comuni leghisti della regione con la scusa di un adeguamento a una direttiva europea, dimenticando che molti tra gli immigrati formalmente non capienti vengono pagati in nero ogni mese da probi cittadini con l’aziendina.

Il nero (inteso come sommerso) è stato un integratore importante nello sviluppo di buona parte del Veneto.

Se nel distretto del mobile tra Oderzo e Treviso i figli dei mezzadri sono diventati mobilieri miliardari, ciò non è dovuto soltanto alla loro pur esemplare disposizione alla fatica

Di fronte a questo stato di cose la maggioranza degli intellettuali veneti finora ha preferito tacere. La loro irritazione è comprensibile: da un canto, il fastidio per gli stereotipi e le semplificazioni mediatiche (l’hic sunt leones di cui sopra), dall’altro, l’insofferenza verso le stigmatizzazioni da politico, o peggio, da retore di sinistra, per fatti verso i quali provano comunque imbarazzo. Piuttosto che fallire nel tentativo di far comprendere all’esterno la complessità del Veneto, preferiscono chiudersi in una superiore indifferenza. Immagino che il loro silenzio dica: quelli sono solo quattro poveretti in cerca di un po’ di celebrità, non meritano un nostro intervento, quattro razzisti strumentalizzati dalla stampa nazionale ai quali si può rispondere solo ignorandoli.

Ebbene, io non la penso così. Io credo che si debba fare qualcosa. Ho vissuto per molti anni a un passo dal Veneto, tuttora per motivi di lavoro mi capita spesso di fermarmi a Padova, ho partecipato a decine di incontri in paesi identici a quelli sopra citati – biblioteche, librerie, scuole – ci sono andato sempre volentieri ma adesso non mi sentirei di tornarci se prima non avessi dichiarato pubblicamente tutto il mio disgusto per questa forma di razzismo istituzionale.

La mia non è una dichiarazione solitaria, nasce anzi in comune accordo con altri dieci scrittori veneti: Gianfranco Bettin, Romolo Bugaro, Alberto Fassina, Roberto Ferrucci, Marco Franzoso, Giulio Mozzi, Marco Paolini, Tiziano Scarpa, Vitaliano Trevisan, Gian Mario Villalta.

Noi non ignoreremo i sindaci razzisti. Non c’importa se sono ligi alle regole, non c’importa se dicono di allinearsi a direttive europee, noi che lavoriamo con le parole, non staremo a guardare con superiore indifferenza coloro che in quei paesi usano le parole per aumentare, anziché lenire, il senso di ostilità verso gli stranieri. Noi useremo le parole della letteratura contro di loro, a casa loro. Sabato 26 gennaio alle ore 17 ci riuniremo in piazza dei Signori a Treviso – epicentro e scaturigine ideale dell’intolleranza fomentata dagli amministratori – per leggere in pubblico brani di ispirazione antirazzista tratti dalla letteratura mondiale. Non c’importa quanto pedante parrà il nostro gesto, né quanto irrisorio sarà l’effetto che provocherà, noi non faremo finta di niente, non lo faremo soprattutto in rispetto di tutti i veneti che non sono razzisti. Thomas Bernhard nel suo testamento aveva parlato di una “emigrazione postuma”, chiedendo che le sue opere venissero interdette agli austriaci per settant’anni dopo la sua morte.

Noi, si parva licet, al boicottaggio di Bernhard preferiamo raddoppiare il volume della nostra voce, confidando che gli abitanti di quei paesi impieghino molto meno di settant’anni per cambiare amministrazione Ma forse non è neanche questo il punto: il nostro obiettivo non è convincere gli altri, bensì comunicare al mondo che noi non ci stiamo. Qualcuno di noi è impegnato politicamente, qualcuno no. Alle nostre spalle non c’è nessun partito o associazione: siamo associati dalla convinzione che il razzismo – qualsiasi tipo di razzismo, ma soprattutto questo, ipocrita, moderno, benestante – sia semplicemente orrendo.

La complessità del Veneto – l’eredità di una cultura rurale, la forte base solidaristica del volontariato cattolico, lo spaesamento di una società squassata da un’improvvisa accelerazione dei processi produttivi, una provincia dai tratti americani, in ogni ambito della quale il massimo di avanguardia confina con il massimo di arretratezza – noi crediamo che dar conto di questa complessità a chi non la conosce rischi di farci apparire indulgenti, e quindi autoindulgenti, se prima non ci esprimiamo a chiare lettere contro coloro che soffiano sull’odio e sulla paura. Capire la complessità non significa accettare tutte le scorie che produce.

A quelle scorie noi risponderemo facendo parlare i nostri libri preferiti. Ovviamente la speranza è che si uniscano anche altri scrittori e artisti e che in Piazza dei Signori, quel sabato, ci sia più gente possibile.

A questo proposito mi viene in mente il racconto ‘Antipatia’ del ‘Sillabario’ di Goffredo Parise, dove uno scocciatore telefonico nei cui tratti è facile riconoscere Pasolini insiste perché il protagonista, altrettanto evidente alter ego dell’autore, partecipi a una petizione in favore degli antifranchisti spagnoli rifugiatisi in Italia. È un testo spietato contro tutti i luoghi comuni del filantropismo sinistrorso e della sua retorica interventista, eppure sono sicuro che oggi Parise parteciperebbe alla nostra iniziativa. Mi basta ricordare una sua lettera a ‘la Repubblica’ nell’85, 13 anni dopo quel racconto: “Dicevo che soltanto battendo il tasto dell’antimeridionalismo la Liga avrebbe potuto avere successo, come ha avuto. Questo perché conosco bene i miei polli (i veneti che hanno votato Liga Veneta), il loro razzismo e la loro xenofobia. (.) Ma il fenomeno non è isolato come sembra per i suoi aspetti goldoniani e folkloristici. È molto diffuso e a cento anni dall’Unità serpeggia in varie forme nelle regioni di tutto il paese”.