Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Tribunale di Catania – Prima Sezione Civile – Decreto cautelare

Non è espellibile chi è in attesa della risposta relativa alla richiesta di asilo ai sensi dell'art. 10 dell Costituzione

TRIBUNALE DI CATANIA – Prima Sezione Civile


DECRETO CAUTELARE
(e’ art. 669 sexies c.p.c.)

Il giudice Felice Lima, letti gli atti del procedimento n. 8254/04 R.G.Pres. e il ricorso e’ art. 669 bis e segg. c.p.c. proposto da *
Osserva quanto segue.
L’odierno ricorrente chiede l’adozione, e’ art. 700 c.p.c., di un provvedimento cautelare che assicuri la futura efficacia di una emittenda sentenza che riconosca il suo diritto di asilo in Italia.
Allo stato a salvo quanto potrà emergere successivamente, nel corso dell’instaurando giudizio, sussiste con evidenza, a fondamento del ricorso, il requisito del c.d. fumus boni iuris.
1.
Il 3° comma dell’art. 10 della Costituzione dispone che “ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica” “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.
Ed è pacifico che:
“L’asilo politico costituisce oggetto di un diritto soggettivo perfetto tutelabile dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria”: Tribunale Roma, 1 ottobre 1999, in Giurisprudenza di Merito, 2000, I, 3030;
“Le controversie che riguardano il diritto di asilo, di cui al comma 3 dell’art. 10 cost., rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto soggettivo al quale non è applicabile la disciplina sullo ‘status’ di rifugiato (d.l. n. 416 del 1989, conv. in l. n. 39 del 1990), la quale, invece, espressamente prevede la giurisdizione del giudice amministrativo”: Cass. Sez. Unite, 26 maggio 1997, n. 4674;
“La qualifica di rifugiato politico ai sensi della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall’art. 10, comma 3, cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli ‘status’ e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento del diritto di asilo) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria …” Cass. Sez. Unite, 17 dicembre 1999, n. 907.
2.
L’unico presupposto per il riconoscimento del diritto di asilo allo straniero è la sua provenienza da un paese nel quale sia impedito l’esercizio effettivo (sicché irrilevante è che esso sia solo teoricamente affermato, ma non concretamente praticato) delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.
Questa nobile disposizione è ispirata con evidenza a un principio solidaristico che, per un verso e direttamente, offre in condivisione nel territorio del nostro Stato a chi non possa goderne nel suo i beni che la nostra Costituzione considera essenziali per una vita con dignità umana e, per altro verso e indirettamente, stimola (a fronte delle conseguenze di una ospitalità che per il nostro Paese potrebbe anche risultare onerosa) chi di volta in volta ha responsabilità di governo e di rappresentanza del nostro Paese ad adoperarsi sul piano internazionale per rimuovere le condizioni che in altre parti del mondo privino gli uomini di diritti che i nostri costituenti hanno ritenuto essenziali.
3.
L’odierno ricorrente risulta provenire dalla Palestina.
La condizione di gravissima violazione dei più elementari diritti umani che patiscono coloro che vivono in quella terra martoriata è talmente notoria da non essere necessarie approfondite considerazioni sul punto.
Una descrizione sintetica di quella complessa situazione si trae dal rapporto del 2004 della nota organizzazione che opera per la difesa dei diritti umani Amnesty International.
È scritto, fra l’altro, in quel rapporto, al capitolo “Israele e territori occupati”:
“L’esercito israeliano ha ucciso circa 600 palestinesi, compresi più di 100 bambini. Per la maggior parte sono stati uccisi illegalmente, in sparatorie irresponsabili, sotto colpi di mortaio e bombardamenti in zone residenziali abitate da civili, in esecuzioni extragiudiziali e in seguito all’uso eccessivo della forza.
Gruppi armati palestinesi hanno ucciso circa 200 israeliani, almeno 130 civili di cui 21 bambini, in attentati suicidi e in altri attacchi deliberati. Restrizioni sempre più frequenti imposte ai palestinesi dall’esercito israeliano in tutti i Territori Occupati hanno causato povertà, disoccupazione e problemi sanitari senza precedenti. L’esercito israeliano ha demolito diverse centinaia di case palestinesi e distrutto grandi appezzamenti di terreni coltivati e centinaia di proprietà commerciali e di altro tipo. Israele ha intensificato la costruzione di una recinzione/muro che s’incunea profondamente per lo più in Cisgiordania. Di conseguenza, centinaia di migliaia di palestinesi sono stati costretti in enclave e tagliati fuori dalle loro terre e dai servizi essenziali delle città e dei villaggi vicini. È proseguita l’espansione di insediamenti illegali nei Territori Occupati da parte di Israele, privando in tal modo ulteriormente l’accesso dei palestinesi a risorse naturali come terreni e acqua. Migliaia di palestinesi sono stati detenuti dall’esercito israeliano. La maggior parte sono stati rilasciati senza accuse, centinaia sono stati incriminati per reati contro la sicurezza di Israele e almeno 1.500 sono stati trattenuti in detenzione amministrativa senza accuse né processo. I processi davanti ai tribunali militari non hanno rispettato gli standard internazionali. Vi sono state diffuse denunce di torture e maltrattamenti di detenuti palestinesi e i soldati israeliani hanno usato palestinesi come “scudi umani” durante le operazioni militari. Determinati abusi commessi dall’esercito israeliano sono da considerarsi crimini di guerra, incluse le uccisioni illegali, lo sbarramento all’assistenza medica e la presa di mira di personale sanitario, le distruzioni estese e arbitrarie di proprietà, la tortura e l’uso di “scudi umani”. Gli attacchi deliberati contro civili da parte di gruppi armati palestinesi costituiscono crimini contro l’umanità. Decine di obiettori di coscienza israeliani che si sono rifiutati di prestare servizio militare nei Territori Occupati sono stati incarcerati e alcuni sono stati sottoposti alla corte marziale.
Contesto
A giugno un piano di pace appoggiato da Stati Uniti, Nazioni Unite, Unione Europea e Federazione Russa, conosciuto come “road map” è stato accettato da Israele e dall’Autorità Palestinese (AP). L’accordo prevedeva la creazione di uno Stato palestinese entro il 2005 ma non conteneva alcun mezzo per garantire il rispetto degli obblighi delle parti secondo il diritto internazionale. Veniva richiesto ai palestinesi di porre fine agli attacchi contro gli israeliani e ad Israele di bloccare l’espansione degli insediamenti e di evacuare e smantellare quelli recentemente stabiliti, di cessare la distruzione di case palestinesi e l’assassinio di palestinesi, di allentare le chiusure e i blocchi nei Territori Occupati. A giugno i principali gruppi armati palestinesi, le Brigate dei Martiri di al-Aqsa (una frangia di Fatah), Hamas e la Jihad islamica, hanno dichiarato un cessate il fuoco unilaterale. Israele ha rilasciato circa 600 detenuti palestinesi, la maggior parte dei quali avevano comunque quasi finito di scontare la loro pena. I negoziati relativi al piano di pace “road map” sono falliti a settembre e in novembre sono stati fatti alcuni tentativi per riprendere i negoziati quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che approvava la “road map”. A dicembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che chiedeva una consulenza legale alla Corte internazionale di Giustizia sulla legalità della costruzione da parte di Israele della recinzione/muro all’interno della Cisgiordania.
Uccisioni ed attacchi da parte dell’esercito israeliano
Circa 600 palestinesi, la maggior parte dei quali disarmati, compresi 100 bambini, sono stati uccisi dall’esercito israeliano in sparatorie, colpi di mortaio o bombardamenti casuali e irresponsabili oppure come risultato di un uso eccessivo della forza. Circa 90 palestinesi sono stati uccisi in esecuzioni extragiudiziali, compresi più di 50 passanti casuali, di cui 9 erano bambini. Altri sono stati uccisi in scontri armati con soldati israeliani.
Il 25 giugno, Nivin Abu Rujaila, di 19 anni, è stata uccisa quando un elicottero israeliano ha sparato un missile che ha colpito il taxi in cui viaggiava. Il tassista, Akranm Ali Farhan, è morto assieme a lei. L’obiettivo dell’attacco viaggiava in un’altra auto.
Il 12 giugno, Islam Taha, che era incinta, e sua figlia di 18 mesi sono state uccise nella città di Gaza da razzi lanciati da un elicottero dell’esercito israeliano contro la loro macchina allo scopo di assassinare suo marito, Yasser Taha, che era nell’auto ed è stato ucciso. Quattro passanti sono rimasti uccisi e altri venti, inclusi diversi bambini, sono rimasti feriti. In altri tre attacchi analoghi da parte dell’esercito israeliano nei due giorni precedenti, erano stati uccisi 11 passanti e decine feriti, compresi più di 10 bambini.
Diversi attivisti internazionali affiliati all’International Solidarity Movement (ISM), giornalisti e operatori sanitari stati uccisi o feriti da soldati israeliani.
A marzo l’attivista dell’ISM, Rachel Corrie, cittadina statunitense, è stata schiacciata da un bulldozer dell’esercito israeliano a Rafah, a sud della Striscia di Gaza. Ad aprile gli attivisti Tom Hurndall, cittadino britannico, e Brian Avery, statunitense, sono stati colpiti alla testa da soldati israeliani rispettivamente a Rafah e Jenin. Entrambi sono rimasti gravemente feriti. A maggio il giornalista James Miller è stato colpito al collo e ucciso da soldati israeliani a Rafah.
Soldati israeliani hanno continuato ad usare palestinesi come “scudi umani” durante le operazioni militari, costringendoli a portare a termine compiti che mettevano a repentaglio la loro vita.
La maggior parte dei soldati e dei membri delle forze di sicurezza israeliani hanno continuato a godere dell’impunità. Raramente sono stati avviati indagini, processi e condanne per violazioni dei diritti umani. Secondo l’esercito israeliano, dall’inizio dell’intifada (sollevazione), nel settembre 2000, erano stati incriminati 61 soldati. Di questi, 17 sono stati riconosciuti colpevoli di violenza, due di uso improprio di armi, e 22 di saccheggio o di danneggiamento di proprietà. Nella stragrande maggioranza dei migliaia di casi di uccisioni illegali e di altri gravi violazioni dei diritti umani commesse da soldati israeliani dall’inizio dell’intifada, non risultano essere state avviate indagini.
Uccisioni e attacchi da parte di gruppi armati palestinesi
Almeno 130 civili israeliani, compresi 21 bambini, sono stati uccisi da gruppi armati palestinesi. Quasi la metà delle vittime sono state uccise in attacchi suicidi e gli altri in sparatorie. Circa 70 soldati israeliani sono stati uccisi in attacchi analoghi da parte di gruppi armati palestinesi. La maggior parte dei civili israeliani sono stati uccisi entro i confini israeliani mentre la maggior parte dei soldati nei Territori Occupati.
Lilah Kardi, una donna di 22 anni, è stata uccisa assieme ad altri 19 civili, compresi alcuni bambini, da un attentatore suicida palestinese su un autobus a Gerusalemme il 19 agosto. L’attentato sarebbe stato rivendicato sia da Hamas che dalla Jihad islamica.
Il 5 ottobre, due donne una bambina della stessa famiglia – Bruria, Keren e Noya Zer-Aviv, rispettivamente dell’età di 54, 29 e un anno – e altri due loro parenti sono stati tra le vittime di un attacco suicida che ha ucciso 20 civili israeliani e provocato decine di altri feriti. L’attacco, che è stato portato a termine da una donna palestinese in un ristorante di Haifa, è stato rivendicato dalla Jihad islamica.
Gruppi armati palestinesi hanno sparato ripetutamente colpi di mortaio dalla Striscia di Gaza verso città israeliane vicine e verso insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Gli attacchi non hanno in genere causato feriti tra gli israeliani.
Attacchi da parte di coloni israeliani contro palestinesi nei Territori Occupati
Coloni israeliani nei Territori Occupati hanno ripetutamente attaccato palestinesi e le loro proprietà. Tali attacchi sono aumentati a ottobre, durante la raccolta delle olive, quando coloni israeliani hanno distrutto e danneggiato alberi di proprietà di palestinesi in vari villaggi della Cisgiordania. Nella maggior parte dei casi, gli attacchi da parte di coloni israeliani ai palestinesi e le loro proprietà non sono stati indagati e i responsabili non sono stati portati in giudizio.
Il 27 ottobre coloni israeliani hanno attaccato un gruppo di attivisti per i diritti umani israeliani che stavano aiutando contadini palestinesi a raccogliere le loro olive vicino al villaggio di Einabus, in Cisgiordania. Il rabbino Arik Asherman, direttore di Rabbis for Human Rights (rabbini per i diritti umani), e il giornalista John Ross, di 66 anni, erano tra le persone attaccate dai coloni israeliani.
A ottobre, tre coloni israeliani sono stati condannati da 12 a 15 anni di reclusione per avere tentato di fare esplodere una scuola femminile palestinese nel 2002.
Distruzione di proprietà palestinesi nei Territori Occupati
L’esercito israeliano ha distrutto diverse centinaia di case palestinesi e decine di strutture commerciali e pubbliche e ha distrutto o danneggiato infrastrutture per l’acqua, l’elettricità e le comunicazioni in tutti i Territori Occupati. Spesso le distruzioni sono state portate a termine dall’esercito israeliano come forma di punizione collettiva sulla popolazione locale in seguito ad attacchi eseguiti da gruppi armati palestinesi che avevano operato, o si sospettava avessero operato, direttamente dalle zone o nei pressi delle zone prese di mira.
L’esercito israeliano ha intensificato la distruzione delle case di parenti dei palestinesi noti o sospettati per aver compiuto attacchi contro civili o soldati israeliani.
Spesso anche le case limitrofe sono state distrutte o danneggiate dalle grandi cariche esplosive solitamente usate dai soldati per fare saltare le case, e in alcuni casi gli abitanti sono stati uccisi o feriti. L’esercito di solito non ha lasciato il tempo agli abitanti di raccogliere i loro beni prima di distruggere le case.
Il 3 marzo, Noha Makadmeh, madre di 10 bambini e incinta di nove mesi, è stata uccisa nel suo letto nel crollo della sua abitazione dopo che un soldato israeliano aveva fatto saltare una casa vicina a notte fonda nel campo profughi di Bureij nella Striscia di Gaza. Sua marito e la maggior parte dei figli sono stati feriti, alcuni seriamente. Altre sei case limitrofe sono state distrutte dall’esplosione, lasciando circa 90 persone senza casa.
La notte del 9 settembre l’esercito israeliano ha fatto saltare un edificio residenziale di otto piani a Hebron, lasciando 68 persone senza casa, 53 delle quali erano donne e bambini. I soldati hanno evacuato gli abitanti senza permettere loro di portare via alcuna proprietà e in seguito hanno ucciso due uomini armati palestinesi che erano entrati nell’edificio mentre fuggivano dai soldati. Dopo che i corpi dei due militanti erano stati rimossi dall’edificio i soldati lo hanno fatto saltare. Tartil Abu Hafez Ghaith, una studentessa di 18 anni che viveva in un edificio limitrofo è stata gravemente ferita e un suo vicino, Tha’ir Muhammad al-Suri, di nove anni, è stato ucciso dalle schegge di un mortaio sparato da un carro armato israeliano durante l’attacco.
A ottobre l’esercito israeliano ha distrutto più di 100 case e danneggiato decine di altre in un campo profughi a Rafah, lasciando centinaia di palestinesi senza tetto. L’esercito israeliano ha dichiarato che aveva portato a termine le distruzioni per scoprire tre tunnel sotterranei usati da gruppi armati palestinesi per contrabbandare armi dall’Egitto alla Striscia di Gaza.
Durante un’incursione prolungata a nord della Striscia di Gaza nel mese di giugno l’esercito israeliano ha distrutto decine di edifici oltre a ponti, strade ed altre infrastrutture. Tra le proprietà distrutte, la fabbrica di laterizi Abu Ghaliun, la fabbrica più grande e sofisticata in questo settore di tutti i Territori Occupati. I soldati israeliani hanno distrutto tutti i macchinari e il magazzino dei prodotti finiti, causando danni per circa 6 milioni di dollari americani.
Punizioni collettive, chiusure e violazione dei diritti economici e sociali
Restrizioni crescenti imposte dalle autorità israeliane sul movimento dei palestinesi nei Territori Occupati hanno causato difficoltà senza precedenti per i palestinesi, rendendo difficile o impedendo totalmente il loro accesso al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, le visite familiari e altre attività della vita quotidiana. Chiusure, posti di blocco militari, coprifuochi e una miriade di altre restrizioni hanno confinato i palestinesi alle loro case o nelle immediate vicinanze per la maggior parte del tempo.
Le restrizioni sono state una delle principali cause del collasso di fatto dell’economia palestinese e hanno determinato un drammatico aumento della disoccupazione, che è arrivata a sfiorare il 50%, e povertà, con i due terzi della popolazione palestinese che vivono sotto la soglia della povertà e un numero sempre maggiore di persone che soffrono di malnutrizione o di altri problemi di salute.
Centinaia di posti di blocco dell’esercito israeliano e sbarramenti hanno impedito ai palestinesi di servirsi delle strade principali e di molte altre strade secondarie che sono tranquillamente usate dai coloni israeliani che vivono in insediamenti illegali nei Territori Occupati. Le chiusure e le restrizioni al movimento sono state via via aumentate quale rappresaglia per gli attacchi compiuti da gruppi armati palestinesi.
Le restrizioni al movimento dei palestinesi hanno subito un ulteriore incremento con la costruzione da parte di Israele di una recinzione/muro nella parte occidentale della Cisgiordania e attorno a Gerusalemme. Secondo Israele la recinzione/muro, costituita da recinzioni, muri di cemento, profondi fossati e strade costellate da carri armati, dovrebbe servire ad impedire ai palestinesi di entrare in Israele e portare a termine degli attacchi. Tuttavia, la recinzione/muro è in costruzione soprattutto su terre palestinesi all’interno della Cisgiordania, tagliando fuori centinaia di migliaia di palestinesi dai servizi essenziali delle città e dei villaggi vicini e dalle loro terre coltivate, una fonte importante di sussistenza per i palestinesi in questa regione. L’esercito israeliano ha dichiarato zone militari chiuse le porzioni della Cisgiordania tra la recinzione/muro e Israele e ha preteso che i palestinesi che vivono o possiedono terreni in quelle zone ottenessero permessi speciali per entrare e uscire dalle loro case e le loro terre. Soldati israeliani hanno negato frequentemente il passaggio a residenti e contadini in queste zone, impedendo loro di recarsi al lavoro o di tornare a casa.
Per imporre le chiusure o i coprifuochi, i soldati israeliani hanno fatto spesso uso di munizioni cariche, gas lacrimogeni e granate stordenti, hanno detenuto o maltrattato palestinesi e confiscato veicoli e carte di identità. I soldati israeliani hanno spesso rifiutato o ritardato il passaggio attraverso i posti di blocco di ambulanze palestinesi o di pazienti che viaggiavano in veicoli privati o a piedi, costringendo alcune donne a partorire presso il posto di blocco.
Il 28 agosto, Rula Ashtiya, di 29 anni, del villaggio di Salem, si è vista rifiutare il passaggio da parte di soldati israeliani al posto di blocco di Beit Furik che separa il suo villaggio dalla città di Nablus. Ha partorito sulla strada sterrata vicino al posto di blocco. La sua bambina è morta poco dopo e solo allora i soldati hanno permesso a Rula Ashtiya di transitare a piedi attraverso il posto di blocco per andare in ospedale a Nablus.
Obiettori di coscienza
Decine di ebrei israeliani che si erano rifiutati di prestare servizio militare o di servire nei Territori Occupati sono stati condannati a periodi di reclusione fino a 6 mesi. Altri sei che erano stati deferiti alla corte marziale per avere rifiutato di servire nell’esercito israeliano erano in attesa di sentenza. Tutti sono prigionieri di coscienza.
Trasferimenti forzati
A ottobre l’esercito israeliano ha ordinato il trasferimento forzato dal loro paese d’origine in Cisgiordania alla Striscia di Gaza di almeno 18 palestinesi sotto detenzione amministrativa senza accuse né processo. A fine anno erano stati tutti trasferiti forzatamente.
Preoccupazioni di organismi delle Nazioni Unite
Ad agosto il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale e il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite hanno chiesto a Israele di abrogare una legge, passata a luglio, che proibiva il ricongiungimento familiare per gli israeliani che sposano palestinesi dei Territori Occupati. Il Comitato diritti umani ha chiesto inoltre ad Israele di fermare la costruzione della recinzione/muro all’interno dei Territori Occupati e di permettere la libertà di movimento, di porre fine alle demolizione delle abitazioni, smettere di usare palestinesi come “scudi umani” e di indagare sulle denunce di torture, uccisioni illegali o altre violazioni.
Amministrazione della giustizia
Movimenti per i diritti umani hanno inoltrato istanze alla Corte Suprema israeliana in merito a questioni riguardanti l’uso da parte di soldati israeliani di palestinesi come “scudi umani”, l’esecuzione extragiudiziale di palestinesi, la costruzione della recinzione/muro all’interno dei Territori Occupati, la legge che vieta il ricongiungimento familiare per israeliani sposati con palestinesi, la mancanza di indagini nelle uccisioni da parte dell’esercito israeliano di civili palestinesi e l’esistenza di un centro di detenzione israeliano segreto, conosciuto come “facility 1391”.
A fine anno tutte le istanze erano pendenti”.
Al capitolo “Autorità palestinese” dello stesso rapporto è scritto, fra l’altro:
“Centinaia di palestinesi sono rimasti in detenzione senza accuse né processo; tra questi figurano presunti appartenenti a gruppi armati o persone sospettate di “collaborare2 con i servizi segreti israeliani. Alcuni di questi presunti “collaborazionisti” sono stati uccisi da palestinesi armati. Palestinesi appartenenti a gruppi armati hanno ucciso circa 200 israeliani, la maggior parte dei quali civili. Non sono state condotte indagini adeguate per nessuno di questi attacchi e nessuno dei responsabili è stato portato in giudizio.
Contesto
È proseguita l’intifada al-Aqsa (sollevazione), iniziata il 29 settembre 2000. Circa 600 palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, la maggioranza in uccisioni illegali. I palestinesi membri di gruppi armati hanno ucciso circa 200 israeliani, di cui almeno 130 civili, tra cui 21 bambini e circa 70 soldati. Molti sono stati uccisi in attacchi suicidi compiuti dalle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (una frangia di Fatah), dalle Brigate Izz al-Din al-Qassam (Hamas), dalla Jihad islamica e dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina. I gruppi armati palestinesi hanno inoltre ripetutamente lanciato attacchi con colpi di mortaio dalla striscia di Gaza verso le vicine città israeliane e negli insediamenti israeliani all’interno della striscia di Gaza. Migliaia di israeliani e di palestinesi sono stati feriti nel conflitto.
(…)
Amministrazione della giustizia e impunità
Il presidente Arafat e altri dirigenti dell’AP hanno regolarmente condannato gli attacchi suicidi ed altri attentati contro cittadini israeliani, e hanno intimato ai gruppi armati palestinesi di mettere fine a queste azioni. Tuttavia, i responsabili di aver ordinato, pianificato o portato a termine gli attacchi non sono stati assicurati alla giustizia e non è noto se siano state adottate misure da parte dell’AP per far cessare tali attacchi da parte di gruppi armati palestinesi.
È rimasto poco chiaro fino a che punto l’AP abbia potuto esercitare un controllo effettivo sui gruppi armati palestinesi coinvolti negli attacchi. La distruzione da parte dell’esercito israeliano della maggior parte delle infrastrutture dell’AP, incluse prigioni e installazioni di sicurezza, ha sostanzialmente ridotto la capacità e la volontà dell’AP di esercitare un controllo sui gruppi armati. Le forti restrizioni imposte dall’esercito israeliano sul movimento e sulle attività delle forze di sicurezza palestinesi hanno ulteriormente minato la loro capacità di investigare su omicidi ed altri attacchi compiuti da gruppi armati e di portare in giudizio i responsabili. Le restrizioni di movimento all’interno dei Territori Occupati hanno impedito o limitato il funzionamento dei tribunali dell’AP poiché i giudici, gli avvocati e i testimoni non sono stati liberi di muoversi liberamente o di spostarsi. Si è avuta notizia di alcune irruzioni compiute dalle forze israeliane nelle prigioni e nei centri di detenzione palestinesi.
Il collasso dell’ordine e della sicurezza interni in molte città e centri della striscia di Gaza e della Cisgiordania ha creato una situazione in cui gruppi di palestinesi armati hanno potuto muoversi pressoché a briglia sciolta nel compiere uccisioni illegali ed altri abusi.
Almeno 10 palestinesi sospettati di “collaborare” con i servizi segreti israeliani sono stati vittime di uccisioni illegali per mano di gruppi o di individui armati. Gran parte delle uccisioni sono state compiute da membri delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa. L’AP ha di fatto omesso di indagare tali uccisioni e nessuno degli esecutori è stato assicurato alla giustizia.
Il 20 luglio il sostituto governatore del distretto di Jenin, Haidar Irshid, è stato sequestrato dalle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, picchiato e portato al campo profughi di Jenin. È stato rilasciato dopo poche ore, a quanto sembra in seguito all’intervento del presidente Arafat. Il gruppo avrebbe accusato Haidar Irshid di ТcollaborareУ con le forze di sicurezza israeliane.
(…)
Detenzione arbitraria
Più di 600 palestinesi sono stati detenuti nelle prigioni palestinesi, nei centri di detenzione o in centri improvvisati in luoghi nascosti (le cosiddette “case sicure”). La maggior parte erano stati arrestati in seguito a reati penali, e circa un centinaio erano detenuti con l’accusa di “collaborare” con i servizi segreti israeliani. Circa 470 sono rimasti trattenuti senza processo. Sono giunte alcune notizie di torture e maltrattamenti compiute da diverse forze di sicurezza palestinesi”.

E difficile, francamente, immaginare una situazione peggiore per la effettiva tutela delle libertà democratiche di *.
Sussiste anche il c.d. periculum in mora.
Infatti, ove non si adottasse immediatamente il provvedimento cautelare richiesto dall’odierno ricorrente, nelle more del giudizio che instaurerà per vederericonosciuto il suo diritto di asilo, egli correrebbe il rischio di essere espulso e costretto a ritornare in Palestina, dove, non solo le sue libertà democratiche, ma la sua stessa vita si troverebbe esposta a gravissimo pericolo.
La fondatezza di un tale timore si trae dal fatto che il Prefetto di Catania ha emesso il 20.4.2004 un decreto di espulsione di * contraddistinto dal n. Cat. A12/2004/193, decreto che non ha revocato dopo avere appreso che il destinatario dello stesso ha proposto domanda di asilo.
Addirittura, nel procedimento relativo alla opposizione avverso quel decreto di espulsione, la Prefettura, costituendosi nella persona di un funzionario della Questura delegato dal Prefetto, ha difeso la legittimità del provvedimento di espulsione nonostante la proposizione della richiesta di asilo, invocando contro * le disposizioni del 5° comma dell’art. 1 del D.L. 30 dicembre 1989, n. 416.
Quella norma, però, si riferisce esclusivamente a coloro che chiedono il riconoscimento dello status di rifugiato e non anche a coloro che hanno e chiedono si riconosca loro il diritto di asilo.
E che sia così si trae non solo dal tenore letterale della norma – l’art. 1 di quel D.L. è addirittura intitolato “Rifugiati” – ma anche dal fatto che l’11° comma dello stesso articolo 1 dispone che “i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso alle disposizioni previste per la sanatoria dei lavoratori immigrati non perdono il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Nei loro confronti non si fa luogo a interventi di prima assistenza”, con ciò rendendosi ancor più evidente che il regime dell’”asilo” è diverso da quello del “rifugio”.
Peraltro, é da sempre pacifica, in diritto, la differenza fra i due istituti.
Fra le tante pronunce dei giudici di legittimità e di merito, basti citare qui:
– T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 10 gennaio 2003, n. 19, in Foro amm. TAR 2003, 7, per la quale “la qualifica di rifugiato si distingue da quella connessa con il diritto di asilo, per la quale è sufficiente il mero accertamento della mancanza di libertà democratica nel paese di origine e non è altresì necessario il fondato timore di essere perseguitato”;
– Consiglio Stato, sez. IV, 11 luglio 2002, n. 3874, per la quale la condizione di ‘rifugiato’ “si pone come ‘species’ rispetto al ‘genus’ asilo politico”;
– Cass. Sez. I, 9 aprile 2002, n. 5055, per la quale “la qualità di rifugiato politico ai sensi della convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951 si differenzia da quella di avente diritto all’asilo perché postula, quale fattore determinante, il presupposto del “fondato timore di essere perseguitato”, che invece non è richiesto dall’art. 10 della Costituzione per il riconoscimento del diritto di asilo;
– Consiglio Stato, sez. IV, 10 marzo 1998, n. 405, per la quale “sulla base della vigente normativa nazionale ed internazionale sussiste un’ontologica differenza fra diritto di asilo e ‘status’ di rifugiato politico”;
– Tribunale Roma, 13 febbraio 1997, in Giust. civ. 1998, I, 283, per la quale quello di colui che ha diritto all’asilo ai sensi dell’art. 10, 3° comma, della Costituzione è uno ‘status’ totalmente diverso, e più ampio, rispetto a quello di ‘rifugiato politico’”;
– T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 23 gennaio 1992, n. 15, in T.A.R. 1992, I, 1112, per la quale “lo ‘status’ di rifugiato politico, che può essere ottenuto solo quando vi sia pericolo di persecuzioni personali in caso di rientro nel Paese di origine, si differenzia dal diritto di asilo, previsto dall’art. 10, comma 3 Cost., il quale peraltro comporta per l’interessato minori benefici, potendo consistere al limite nel solo diritto a non essere espulso dal Paese, in quanto tale diritto è riconoscibile anche solo in presenza di una situazione di mancanza di libertà democratiche nel Paese di origine”;
– T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 18 dicembre 1991, n. 531, in T.A.R. 1992, I, 670, per la quale “la tutela dei rifugiati, di cui alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, resa esecutiva in Italia con l. 24 luglio 1954 n. 722, presenta una minore ampiezza rispetto al diritto di asilo previsto dall’art. 10 comma 3 Cost., in quanto per ottenere lo ‘status’ di rifugiato necessita almeno la sussistenza del pericolo di subire persecuzioni nel Paese di origine, laddove per la norma costituzionale è sufficiente la mancanza di libertà democratiche nel Paese di provenienza”
– E ancora, Cass. Sez. Unite, 17 dicembre 1999, n. 907; Tribunale Roma 1 ottobre 1999, in Riv. dir. internaz. 2000, 240; Cass. Sez. Unite, 26 maggio 1997, n. 4674; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 30 settembre 1992, n. 410, in Foro amm. 1993, 1625; T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 19 febbraio 1992, n. 91, in Foro amm. 1992, 2021.
Con riferimento, infine e in maniera specifica, all’illegittimità di provvedimenti del Prefetto e del Questore che tendano all’espulsione di una persona che abbia richiesto asilo anche al di fuori delle procedure di cui al D.L. 416/1989, vanno citate:
– Consiglio Stato, sez. V, 17 luglio 2000, n. 3965, per la quale “la presentazione della domanda di asilo politico da parte dello straniero conferisce al richiedente, ai sensi dell’art. 1 comma 5 l. 28 febbraio 1990 n. 39, il titolo a ottenere un permesso di soggiorno temporaneo fino alla definizione della procedura di riconoscimento dello stato di rifugiato; pertanto, è illegittimo, per incompetenza, il provvedimento col quale il prefetto, ai sensi dell’art. 7 l. 28 febbraio 1990 n. 39, espelle dal territorio nazionale lo straniero che abbia presentato domanda di asilo in un momento diverso dal suo ingresso in Italia, atteso che spetta alla commissione centrale per il riconoscimento dello ‘status’ di rifugiato la competenza a valutare la domanda, anche quanto alla sussistenza o meno dei relativi presupposti”;
– Consiglio Stato, sez. IV, 6 marzo 1995, n. 149, per la quale “è illegittimo, per incompetenza, il provvedimento col quale il prefetto, ai sensi dell’art. 7 l. 28 febbraio 1990 n. 39, espelle dal territorio nazionale lo straniero che abbia presentato domanda di asilo politico in un momento diverso dal suo ingresso in Italia, atteso che spetta alla commissione centrale per il riconoscimento dello ‘status’ di rifugiato la competenza a valutare la domanda, anche quanto alla sussistenza o meno dei relativi presupposti”;
– T.A.R. Lazio, sez. I, 27 gennaio 1992, n. 103, in T.A.R. 1992, I, 457, per la quale “è illegittimo il provvedimento con cui il questore nega allo straniero che non abbia presentato istanza di asilo alla frontiera, l’ammissione al procedimento per il riconoscimento dello ‘status’ di rifugiato, con conseguente e contestuale invito a lasciare il territorio nazionale”.
P.Q.M.
Il giudice, visti gli artt. 669 bis e segg. e 700 c.p.c.,
FA DIVIETO
a tutte le amministrazioni dello Stato di espellere dal territorio della Repubblica *, nato a Gaza (Palestina) il 9.4.1976, fin quando non sarà definito l’instaurando giudizio per il riconoscimento del suo diritto all’asilo nel nostro Paese, ai sensi dell’art. 10 della Costituzione.
Visto l’art. 669 sexies, 2° comma, c.p.c.,
FISSA
per la comparizione delle parti dinanzi a sé l’udienza del 18 agosto 2004, ore 9.30, assegnando al ricorrente termine di sette giorni da oggi per la notificazione del ricorso e del presente decreto.
Catania, 5 agosto 2004.
IL GIUDICE

Depositato in cancelleria il 5 agosto 2004