Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 25 ottobre2003

Ultimo viene il voto di Giovanni Palombarini

Il Mediterraneo, dicono tutti i commenti, è ormai un grande cimitero; e il presidente della camera on. Casini, recatosi a Lampedusa per un atto di elementare solidarietà, ha definito gli ultimi disastri una tragedia della fame e della disperazione. Il cordoglio è generale, e in molti settori sembra d’improvviso crescere la consapevolezza che l’immigrazione non è una questione di ordine pubblico. Il fatto è che proprio a questa logica si sono invece sostanzialmente ispirati i numerosi interventi legislativi in materia adottati dal 1990 in poi, alcuni – la legge Turco-Napolitano, la legge Bossi-Fini – con pretese di organicità; per cui la situazione è quella che è. Da un lato gli ingressi «regolari» per motivi di lavoro sono sempre pochissimi, dall’altro le sventure si succedono alle sventure. Il bilancio della politica sostanzialmente di chiusura realizzata attraverso queste leggi appare davvero fallimentare. Se le cose stanno così viene da chiedersi: quante centinaia di cittadini extracomunitari dovranno ancora morire di stenti o per annegamento intorno alle coste italiane prima che al problema immigrazione venga data una soluzione civile e umanamente accettabile? Prima che si cominci a discutere seriamente anche a livello politico, senza pregiudizi di tipo paraideologico o atteggiamenti bassamente strumentali, di una questione di straordinaria rilevanza, adottando di conseguenza interventi legislativi finalizzati a un governo lungimirante e democratico del fenomeno?

Nel nostro paese, dopo la proposta del vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini di concedere agli stranieri extracomunitari il diritto di elettorato amministrativo, si è aperto un confuso dibattito, che ha aspetti anche gravi e grotteschi, come quelli del voto per censo e dell’esame di lingua italiana, e però capace per un momento di assorbire ogni attenzione della pubblica opinione e delle forze politiche, anche di opposizione, distraendole dagli altri temi di fondo della questione. Ma queste tematiche sono state riproposte dai fatti drammatici delle ultime ore e dal susseguirsi degli arrivi.

Una constatazione viene prima di ogni altra. Ancora oggi, nella sostanza, la politica complessivamente adottata in Italia (e in Europa) è di segno proibizionista, per cui la strada «normale» per entrare nel nostro paese è quella della clandestinità e per diventare poi «regolari» è quella delle sanatorie. Verrebbe da chiedere agli attuali governanti che esprimono costernazione per tanti morti: quanti cittadini extracomunitari sono entrati regolarmente in Italia nei primi mesi del 2003? La risposta non verrà, il loro numero è talmente esiguo che basterebbe da solo a evidenziare il fallimento delle leggi vigenti. Ciò vale anche per gli anni passati; coloro che seguono da vicino il fenomeno dicono che neppure un quarto dei cittadini stranieri regolarmente residenti è entrato in Italia nei modi previsti come legittimi. Dunque la legislazione attuale sugli ingressi, sostanzialmente basata su una restrittiva interpretazione del criterio delle quote e su un impossibile incontro a livello planetario fra domanda e offerta di lavoro, non funziona: il risultato è stato ed è ancora il mantenimento del nero e dell’irregolarità, per non parlare delle ricorrenti tragedie.

Un atteggiamento realistico e serio imporrebbe allora di cambiare strada, adottando urgentemente non misure di segno radicalmente alternativo, oggi politicamente improponibili tanto in Italia quanto in Europa, bensì un insieme di provvedimenti finalizzati ad attenuare il proibizionismo e a realizzare un governo duttile e ragionevole del fenomeno. Gli esempi possono essere molti. Già la politica dei flussi (che peraltro comincia a essere messa in discussione da molti), per essere sensata e produttiva dovrebbe essere in primo luogo realistica: a fronte della spinta a entrare (non solo dall’Africa, come potrebbe apparire in questi giorni), vi è una complessiva richiesta di mano d’opera -fissa e stagionale, nell’industria, in agricoltura e nei servizi – che supera di molte volte le quote di anno in anno stabilite. Perché non prenderne atto individuando, com’è possibile, un punto di equilibrio fra i due dati? Tra l’altro è evidente chela capacità del sistema di ridurre gli ingressi clandestini è in qualche modo legata alla consistenza quantitativa delle quote, da definire possibilmente nell’ambito di accordi con i paesi di provenienza.

Inoltre negli anni scorsi, soprattutto nei momenti nei quali si discuteva in parlamento di nuove leggi, una serie di soggetti, dalle associazioni del volontariato a quelle dei giuristi, hanno proposto l’istituzione di un’autorizzazione a termine alla permanenza in Italia (ad esempio per sei mesi) per la ricerca di un posto di lavoro. Il suggerimento non è mai stato raccolto, ma si fa ancora in tempo ad adottare una simile misura, anche questa idonea, tra l’altro, a contenere gli ingressi clandestini.

Le stesse considerazioni valgono a proposito di un altro accorgimento, tante volte sollecitato e mai preso in considerazione, vale a dire la formalizzazione di un meccanismo di regolarizzazione permanente indipendente dalle modalità di entrata nel nostro paese. Occorre rendersi conto che qualunque sia il tipo di legislazione che un paese adotta, un certo numero di ingressi irregolari è comunque prevedibile. Ebbene, perché non stabilire che nel momento in cui una persona realizza nei fatti le condizioni della permanenza regolare, già per questo viene regolarizzata? Per dirne una, si calcola che dopo la recente maxiregolarizzazione siano entrate nel nostro paese altre migliaia di persone che lavorano come «badanti», hanno un domicilio e un reddito: ebbene, oggi come oggi sono destinate alla clandestinità fino alla prossima sanatoria, con tutto quel che ne consegue in termini di sacrifici per i loro diritti.

E’ poi urgente l’approvazione di una buona legge in materia di asilo e rifugiati. L’articolo 10 della costituzione stabilisce che allo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla nostra legge fondamentale ha diritto d’asilo nel territorio della repubblica, secondo le norme stabilite dalla legge. La legge però, in particolare la Bossi-Fini, oggi come oggi non garantisce affatto l’effettività di quel diritto; per cui, ad esempio, c’è il rischio che i cittadini somali che si sono salvati dai recenti naufragi vengano presto spediti al loro paese. Dunque occorre provvedere in fretta, se non altro per dare attuazione alla risoluzione del Consiglio Europeo del 20 giugno 1995 sulle «garanzie minime per le procedure di asilo».

Alle modifiche legislative, tenendo conto del carattere strutturale e irreversibile dell’immigrazione, deve affiancarsi una politica per gli immigrati, che si faccia carico della tutela effettiva dei loro diritti. Occorrono, a livello territoriale, mediazioni culturali stabili per favorirne l’inserimento nel contesto cittadino e interventi concreti per la casa, la salute e la scuola. In tante realtà comunali cresce la consapevolezza della necessità di tutto ciò.

Solo adottando questo ventaglio di misure avrà un senso non solo simbolico, ma di effettivo cambiamento della politica dell’immigrazione, l’introduzione del voto amministrativo per gli stranieri regolarmente residenti. La società multietnica, ha detto qualcuno, non è una scelta ma un destino, e non sarà il proibizionismo a impedirne l’arrivo. Si tratta di vedere come ci si arriverà, se attraverso un governo civile del fenomeno, che consideri i migranti non merce-lavoro bensì nuovi cittadini, ovvero per una strada costellata di sacrifici infiniti. Per questo, passare dalla filosofia dell’«Europa fortezza» a quella dell’accoglienza è necessario in un paese che voglia chiamarsi democratico.