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Umer a Torino – Il premio letterario ad un giovane di origini pakistane

di Grazia Satta

Umer è un ragazzo di “seconda generazione” e ha vinto un premio letterario partecipando al Concorso Nazionale Poesie e Filastrocche promosso dall’Associazione Culturale Paidon Poiesis. E’ lo ha vinto con una poesia scritta in italiano.
La scuola superiore che frequenta a Portomaggiore nel ferrarese, orgogliosa di lui, gli ha offerto un soggiorno di due giorni a Torino per il ritiro del premio.
E’ arrivato in Italia che era un bimbo, qui ha frequentato quasi tutte le scuole. Ha la cittadinanza da un anno e ha votato alle ultime elezioni, anche se poco fiducioso, proprio come un qualsiasi ragazzo della sua generazione.
“Ho sentito mio padre che diceva ad un amico pakistano: “voi pakistani”…. lui ama l’Italia, si sente italiano ed è venuto qui per scelta e a noi figli insegna lo stesso amore”. Mi dice.
Umer è un immigrato particolare che sfugge dalle frettolose classificazioni nelle quali siamo condizionati a incasellare tutti. Non è arrivato in Italia per necessità, appartiene alla casta dei Malik, una delle più alte nel suo paese. Il padre era molto vicino a personaggi politici di spicco e forse anche lui avrebbe potuto avere una fetta di potere, ma ha preferito girare per l’Europa che da sempre l’affascinava e stabilirsi definitivamente in Italia dove si è fatto raggiungere dalla famiglia. Gli stessi pakistani, suoi coetanei, lo guardano come uno un po’ diverso da loro.

Nel super veloce treno che vola da Bologna a Torino lo ascolto passare dal un italiano sicuro e quasi ricercato, all’urdu contaminato dall’inglese, altra lingua che conosce molto bene, quando risponde al telefono alla madre che ogni tanto lo chiama, ansiosa come tutte le mamme.
Viene da una città, non dalla campagna anche se le città del Pakistan sono molto diverse dalle nostre, precisa.
Nonostante frequenti una scuola tecnico professionale (come la maggior parte degli immigrati, secondo una logica che spesso sostiene che chi non è nato in Italia ha sicuramente difficoltà linguistiche e perciò è meglio che segua un corso di studi in cui ci siano molte attività di laboratorio), ama le materie letterarie e “da grande” vorrebbe fare l’insegnante.
Anche nell’abbigliamento è difficile da inquadrare: maglietta super trendy, pantaloni tradizionali pakistani, scarpe da tennis, una bella barba ”talebana” e capelli lunghi raccolti in una coda in puro stile filosofo pacifista.
E’ uno dei fortunati che ha ottenuto la cittadinanza in modo relativamente facile, grazie ai dieci anni consecutivi di permanenza e lavoro in Italia del padre, che automaticamente è stata estesa a tutti i figli minori. Meno fortunato il fratello maggiore Bilal ormai maggiorenne da qualche anno e in quanto tale, svincolato dai diritti familiari. Lui, forse anche per questa esclusione, rimarca il suo essere pakistano, a differenza degli altri membri della famiglia. Ha abbandonato la scuola, studia il Corano e si avvia ad essere un buon ortodosso mussulmano.
Umer, invece, a proposito di religione ha un’idea legata all’utopia di giustizia fra gli uomini. Parlare di religione con lui non suscita alcuna contrapposizione. Ama la scuola da sempre, soprattutto le materie letterarie, di quelle tecniche conosce la teoria, la sa pure applicare, ma non gli interessa. Vorrebbe frequentare l’università. Sogna una vita di soddisfazione personale, non gli importa dei soldi ed è polemico col padre che in occidente ha assunto un atteggiamento più materialista nei confronti dell’esistenza.
Chi scrive ha avuto il privilegio di accompagnarlo a Torino.
Il super veloce treno arriva a Torino. Usciamo da una stazione modernissima e ci immergiamo nella città divertendoci uno per la novità, l’altra per le continue espressioni di compunto stupore dell’altro. Lo fotografo quando meno se l’aspetta.
Ogni tanto lo stuzzico suscitandogli l’ansia per la mattina dopo, quando sarà insignito ufficialmente del diploma di poeta.
Che valore ha per un ragazzo ricevere un premio letterario in una lingua diversa da quella madre?
Dovrei capirlo da sola quando mi invita a condividere l’auricolare per ascoltare un gruppo rock di anglo pakistani che qualcuno, dice orgoglioso, paragona ai Beatles. “La loro musica va alla grande, piacciono ai ragazzi inglesi, italiani, in Pakistan hanno avuto un successo enorme e molti si pettinano e si vestono come loro! Anche in classe” . Ascolto ubbidiente aiutata dalla traduzione delle parole, dolci come la poesia che amano i pakistani, ritmate da un rock in piena regola!
La poesia con la quale Umer ha vinto il premio ha un contenuto d’amore, si intitola “Tu” . Non mi rivela chi ci sia dietro quel tu e la mia curiosità antropologica se ci sia un’italiana, una pakistana o l’idea stessa di amore, rimane inappagata.
Il tragitto dall’albergo alla sala conferenze della Galleria d’Arte Moderna è un piacevole percorso per le vie dritte, un continuo attraversamento di incroci perfettamente ortogonali in una mattina di un maggio freddo e grigio.
Arriviamo.
La sala è piena di studenti di ogni ordine e grado da tutta Italia. Sarà una mattinata lunga.
Umer è uno dei primi classificati. L’organizzatore lo chiama scusandosi per la pronuncia non perfetta del suo nome.
“Indiano, Pakistano… Una bella barba, come la mia, ma la mia è bianca mentre la tua è nera!”
Una lunga stretta di mano, un applauso calorosissimo e un neo: l’iPhone scarico non gli permette di leggere i messaggi degli amici né di ricevere le telefonate da casa.
Umer è stato l’unico straniero a ricevere il premio, ma non sembra che la faccenda lo stupisca.
Lui viaggia per altri lidi.
La parola straniero non lo riguarda, è un problema nostro.
Sa che suo fratellino che ha i suoi stessi interessi, sceglierà una scuola più adatta e che lui non si piegherà al concreto materialismo del padre.
Un vero poeta è un professionista del sogno!
“Prof. senta che bella questa!” porgendomi l’auricolare e condividendo la musica andiamo a goderci la mezza giornata che ci resta a Torino.