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Un anno dopo la morte di Alan Kurdi, la compassione verso i profughi inizia a scemare

Patrick Kingsley, The Guardian del 2 settembre 2016

- Link all’articolo originale

La morte del bimbo ha aperto il cuore dell’Europa e cambiato le politiche verso i profughi, ma dopo 12 mesi questo cambiamento si è rivelato essere temporaneo.

Traduzione a cura di: Alessandro Miozzo

In un campo profughi nel nord della Grecia, Mohammad Mohammad, tassista siriano, mostra una foto di Alan Kurdi, bambino di 3 anni. È passato quasi un anno da quando quella stessa foto ha innescato un’ondata di indignazione in tutta Europa, aumentando gli appelli all’Occidente perché si faccia di più per i profughi. Un anno più tardi, Mohammad usa la foto per far capire quanto poco sia cambiato.

Alan può anche essere morto in mare, dichiara, “ma non c’è davvero alcuna differenza tra lui e le migliaia di bambini che stanno morendo [metaforicamente] qui in Grecia”.

Da marzo, quando i leader dei Balcani hanno chiuso le frontiere, in Grecia decine di migliaia di profughi sono stati abbandonati in condizioni squallide. “È un disastro umano”, dice Mohammad.

Un anno fa, la tragica morte di Alan sembrava aver cambiato qualcosa nel dibattito politico sui profughi. I leader europei sembravano essere stati talmente scioccati da formare politiche più permissive, mentre i mezzi di informazione più ostili sembravano aver assunto un tono più conciliante.

Photograph: Kai Pfaffenbach/Reuters


Due giorni dopo la morte di Alan, la Germania aveva consentito l’ingresso a migliaia di rifugiati bloccati in Ungheria. Questa mossa aveva incoraggiato i leader dell’Europa centrale e orientale a creare un corridoio umanitario dal nord della Grecia fino alla Bavaria meridionale, mentre il Canada si era impegnato a reinsediare 25.000 siriani.

L’Inghilterra di David Cameron aveva accettato di ospitare 4.000 profughi all’anno fino al 2020. Era un numero inferiore a quello degli arrivi giornalieri nelle isole greche in quel periodo, ma molto più di quanto Cameron avesse mai osato offrire. Cameron era stato lodato dal Sun, la cui pagina di opinione aveva in precedenza paragonato i profughi agli scarafaggi, ma che all’epoca lanciava una campagna in prima pagina nel nome di Kurdi: “Per Aylan [sic]”.

Ma, cosa ancora più importante, è stato dopo la morte di Alan che la maggior parte dei leader europei si è finalmente impegnata a condividere la responsabilità di almeno alcuni dei profughi sbarcati sulle coste greche e italiane. Verso fine settembre 2015, è stato creato un sistema che avrebbe trasferito 120.000 profughi dalla Grecia e dall’Italia negli altri paesi europei, un numero relativamente modesto che tuttavia è stato percepito come un momento determinante per le politiche migratorie europee.

“Questo principio è così importante e riflette un cambiamento così radicale del pensiero da essere di per sé uno sviluppo davvero significativo”, ha dichiarato al Guardian quella notte un ottimistico Peter Sutherland, Rappresentante Speciale ONU per le migrazioni internazionali.
Ma, un anno dopo, questi piccoli cambiamenti nelle politiche e nel dibattito si sono rivelati temporanei.

Nel settembre del 2015 solo quattro nazioni hanno votato contro l’accordo di ricollocazione, e una sola di queste (l’Ungheria) si trova sul percorso dei migranti nei Balcani. Il 15 settembre, quando l’Ungheria ha chiuso le frontiere, Croazia e Slovenia hanno riempito il vuoto permettendo a centinaia di migliaia di profughi di attraversare i loro territori. In quello stesso mese Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, ha dichiarato con accanto Viktor Orbán, il primo ministro ungherese,di essere fondamentalmente in disaccordo con la visione di Orbán del cristianesimo.

Ma, nell’anniversario della morte di Alan, l’Ungheria è convinta di essere uscita vincitrice dal dibattito sulle politiche europee di immigrazione. “La maggior parte dei paesi è giunta alle nostre stesse conclusioni dell’anno scorso”, dichiara il portavoce del governo polacco Zoltan Kovacs. “Non la pensavano come noi l’anno scorso, e per alcuni a Bruxelles è ancora così. Ma il buon senso ha avuto la meglio”.

Con l’ascesa del populismo di destra lungo il continente e la percezione di una connessione tra immigrazione e terrorismo, l’Europa ha gradualmente abbandonato l’approccio umanitario dello scorso inverno. L’Austria, un alleato decisivo della Germania sulle politiche di immigrazione, chiede ora un approccio in stile australiano che potrebbe servirsi della Grecia come una gigantesca “sala d’attesa” per richiedenti asilo, proprio come Canberra si serve dello stato insulare di Nauru per trattenere chi tenti di raggiungere l’Australia. Persino la Svezia, che aveva dato asilo indeterminato ai siriani, ha messo un freno alla propria generosità.

Il corridoio umanitario dei Balcani si è chiuso: Tusk ne ha dichiarato la chiusura. Il programma di ricollocazione si è rivelato disfunzionale: il resto dell’Europa ha accettato dalla Grecia solo 5.142 persone invece delle 66.400 pattuite. E se l’UE riuscirà a spuntarla, la maggior parte di quei pochi che stanno ancora arrivando nelle isole greche (si parla ora di centinaia a settimana, e non di decine di migliaia) sarebbero riportati in Turchia, secondo l’accordo sui migranti tra UE e Turchia.

Ma con l’arresto dei trasferimenti e delle ricollocazioni, 57.000 persone restano bloccate in Grecia in condizioni squallide e senza voce in capitolo nel proprio futuro, facendo disperare i siriani come Mohammad.

“A settembre, Orbán era il cattivo”, riassume Gerald Knaus, capo dell’European Stability Initiative, fucina di cervelli che per prima aveva lanciato l’idea di un accordo UE-Turchia. “Ma entro la fine dell’anno era a capo di una coalizione di stati. E ora, con l’Austria che inizia a discutere su un sistema in stile australiano, è la Germania ad essere isolata”.

Anche l’accordo UE-Turchia non è, in concreto, quello che Knaus si aspettava quando lo aveva proposto nelle due settimane successive alla morte di Alan. Per come la vedeva Knaus, il trasferimento dei profughi in Turchia può essere giustificato solo ed esclusivamente se i loro casi sono valutati dalla Grecia in modo veloce ed efficace, se la Turchia migliora le proprie procedure di asilo e se l’Europa crea gli strumenti giuridici per un reinsediamento di massa. Tuttavia, niente di tutto ciò si è verificato.

“Sulla carta, l’accordo è più o meno quello che è stato suggerito”, dichiara Knaus. “Ma in realtà questi tre elementi chiave non sono stati rispettati”.

Nonostante ciò, secondo gli attivisti gli eventi di quest’anno hanno avuto una positiva e duratura conseguenza. Ad un anno dalla morte di Alan, si è assistito alla nascita di un’ondata di organizzazioni locali (fondate da enti pubblici e finanziate dai migliaia di cittadini) per far fronte alla crisi. Molti di questi gruppi stanno lavorando sul campo in Grecia, a Calais e sui Balcani, e molti dei volontari sono stati ispirati dagli avvenimenti di agosto e settembre.

Uno dei gruppi più importanti è Help Refugees, un gruppo con base a Londra che l’anno scorso non esisteva. Quasi 12 mesi più tardi, il gruppo finanzia progetti mirati per i profughi nelle sue 68 sedi in Europa. In molti di questi luoghi il gruppo risponde ad una richiesta umanitaria alla quale organizzazioni più grandi e meglio insediate non sono state in grado di far fronte in tempo, costruendo (tra le altre cose) infrastrutture e impianti idrici nei campi Greci dove le ONG più grandi hanno ricevuto aiuto da parte dell’UE, ma si sono mosse troppo lentamente.

Nico Stevens, capoprogetto di Help Refugees e uno degli unici tre lavoratori a tempo pieno del gruppo, sostiene che, nell’arco di un solo anno “l’intero modello del lavoro umanitario è stato sfidato, adattato e migliorato da un gruppo di persone animate da impegno e passione”.

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[ 13 settembre 2016 ]
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