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tratto da: Repubblica.it

“Un’emozione forte per finire la serata, così abbiamo acceso quel barbone”

La confessione shock dei tre ragazzi che sabato notte hanno dato fuoco a un indiano

Racconta Luca, diciannove anni, che la decisione di “farsi l’indiano” l’hanno presa quando restava un euro di benzina sul contatore del self service notturno appena fuori Nettuno. Con Francesco, ventinove anni, e il ragazzino di sedici che era con loro, hanno tirato fuori una delle bocce di birra da mezzo litro che gli avevano fatto compagnia per tutta la notte e quell’euro di verde l’hanno infilato lì dentro.

Sì, proprio lì dentro, anziché nel serbatoio della Twingo nera su cui avevano ossessivamente ronzato, come ogni sabato, tra Anzio e Nettuno, tra Nettuno e Anzio.

Ma sì, “il razzismo non c’entra”, “solo uno scherzo al barbone”, “una bravata”, dice ai carabinieri Luca, il primo e per il momento il solo a sciogliersi in una confessione che i militari ritengono “piena”.

Diciannove anni, una vita da studente in una casa dignitosa di “una famiglia apposto” di Nettuno. Uno schizzo di rabbia e adrenalina, “un’emozione per chiudere la serata”, per vincere la noia di un sabato sera qualunque e non farla passare liscia a quel tipo dalla pelle olivastra con cui si erano “attaccati” poco prima delle 4 del mattino, quando la Twingo nera aveva raggiunto il piazzale della stazione e Navtej Singh Sidhu aveva avuto la sfortuna di incrociare i suoi passi con quelle tre ombre barcollanti. “Eravamo fatti di alcol e hashish”, dice ancora Luca. Ma abbastanza lucidi da provocare un disgraziato. Il primo che capitava. Navtej. Gli si fanno sotto in due. Gli chiedono soldi, lo insultano. Singh li manda al diavolo. Loro girano i tacchi, ma solo per promettere che non finisce lì. Il distributore di benzina notturno è lontano pochi chilometri.

Il lavoretto da fare all’indiano – dice Luca – è un’idea di Francesco, 29 anni. Con la boccia di benzina gli inzupperanno gli stracci che gli coprono le gambe. Con una bomboletta di vernice spray grigia gli imbratteranno il viso. Poi, lo “accenderanno”. Così, tanto per fargliela fare addosso. “Perché – giura Luca – l’idea era di spegnerlo subito”. L’idea, forse. Perché le cose, come è noto, vanno diversamente. Alle 4 del mattino, quando la Twingo nera torna sul piazzale della stazione, Navtej, sfinito dalla stanchezza, si è già accucciato da un po’ su una delle panchine dell’atrio. Dei tre ragazzi, Luca rimane alla macchina. Francesco e il più piccolo entrano nella stazione deserta e gli si avventano contro. Lo “accendono” e si “sorprendono” nel vederlo ridotto a una torcia umana che, gridando, cerca la salvezza verso il piazzale. Scappano. Il tempo di risalire sulla Twingo, rollarsi un’altra canna per calmarsi un po’ e andarsene a dormire che ancora non albeggia.

Sabato sera, si erano visti a Nettuno intorno alle 10 (uno dei tre ragazzi vive alle porte di Ardea, paesone dormitorio a pochi chilometri di distanza). Per fare – dice Luca – quello che fanno sempre. Nulla. Per mettere il sedere sulla Twingo, sciogliere un bel tocco di fumo e stordirsi di canne e birre un po’ alla volta, tra i pub del borgo vecchio di Nettuno e i baretti di Anzio. Fino a farsi come pigne. E dunque farsi notare, alle 3 e 25 del mattino, quando ormai girano a vuoto come mosche da oltre due ore, da una pattuglia dei carabinieri che incrocia le strade deserte di Nettuno. I tre non vengono fermati, ma i carabinieri annotano la targa di quella macchina che non si capisce dove diavolo sia diretta e per fare cosa. Una circostanza che ignorano, evidentemente, ma che li incastra la mattina di domenica.

Navtej racconta ai carabinieri che i tre che lo hanno prima provocato e quindi gli hanno dato fuoco sono scesi “da una piccola macchina nera”. Aggiunge un dettaglio. Uno di loro aveva un giacchetto bianco. Il primo ricordo è corretto. Il secondo, solo in parte. Il ragazzo vestito di chiaro, infatti, non è uno dei suoi aggressori, ma – come scopriranno i carabinieri – quello che, alle 4 del mattino, sul piazzale della stazione lo incrocia mentre è avvolto dalle fiamme e telefona al 118 per dare l’allarme. Interrogato, il ragazzo conferma la circostanza, ma la sua testimonianza si fa vaga quando gli si chiede di ricordare qualcosa degli aggressori o della macchina su cui sono fuggiti. “Non so”, dice. Anche se, quando i tre verranno arrestati, ammetterà di conoscerli.
Nettuno, del resto, non è New York. E non è difficile a quel punto per i carabinieri incrociare orari, testimonianze, e una macchina nera che tra le 3 e mezza (l’ora, appunto, in cui la Twingo è stata notata dalla pattuglia e ne è stata controllata via radio la targa) e le 4 del mattino gira intorno alla stazione.
Sono tre ragazzi sconosciuti agli archivi di polizia. Puliti. Li vanno a prendere a casa nel primo pomeriggio, per scoprire “tre famiglie di gente per bene”, e case da cui, a quanto pare, non salta fuori nulla dell’armamentario del mazziere da stadio o del violento da marciapiede. Luca confessa a metà pomeriggio nella caserma dell’Arma di Anzio, mentre i suoi due amici, Francesco e il ragazzino di 16 anni, se ne rimangono in silenzio, provando a negare senza troppa convinzione.

Il Paese e la politica tornano ad accendersi e dividersi nel dibattito sul razzismo e la xenofobia. Nel suo ufficio in piazza san Lorenzo in Lucina, il generale Vittorio Tomasone, comandante provinciale dei carabinieri di Roma, allarga le braccia e scuote la testa. “Al momento – dice – quel che sappiamo ci consente di escludere una matrice razziale. Il che non rende meno agghiacciante quel che è accaduto. Anzi. Perché se si vuole capire davvero quale è lo sfondo del tentato omicidio di Nettuno, allora bisognerà cominciare a ragionare su quel che accade ai nostri ragazzi. All’uso smodato che ormai fanno di droghe e alcol. A quelle che ne sono le conseguenze”.