Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Un mondo che si apre di continuo, migrante, che ondeggia

di Vanna D'Ambrosio (appunti: 2012 - centro accoglienza/foto: 2016 - Rignano Garganico)

Essere presi in giro spudoratamente, non è facile. Dalla politica ladra, mangiona ed affamata è frustrante. Siamo costretti a vedercela dura, a prova di nervi. Siamo accomodati in lager di ultima generazione, nelle periferie della città; sui monti; lontani dagli occhi e dal cuore. In palazzi di ultima costruzione, alberghi dismessi: tra queste quattro mura, abbiamo sempre la stessa espressione sul volto; quasi vivessimo nell’immobilità. No, non siamo statue di cera, ma uomini senza documenti e senza diritti.

Da noi, le lamentele sono costanti, continue, pressanti e le risposte sono incostanti, frammentarie, evasive. Le pressioni aumentano inevitabilmente, le tensioni aumentano drasticamente mentre l’attesa si fa sempre più lunga e preoccupante. Le questure sono bloccate e il futuro di un occupazione non si vede neppure da lontano.

Nei centri di pronta accoglienza istituiti per l’emergenza Libia, è questa la vita quotidiana, che si fotocopia e si stampa ogni giorno. Gli immigrati sono grandi e piccoli, sono arrivati dalle carceri libiche, dalle croste di Lampedusa. Sono a Roma adesso, sperando di non diventare clandestini.

Tante vite che fuggono dalle loro famiglie, dalle loro madri, dalla loro casa, da quel continente che è il più ricco dei cinque: vuoi sia per caso o per sfruttamento. L’Italia è la terra più vicina, meno rischiosa ed anche quella che sembra più bella. Alla fine, così la passano per tv. A loro, ai “salvi”, è bastato però poco per pensare che non è così.

Hanno conosciuto le campagne pugliesi e casalesi; sono stati a Pachino o Rosarno. Ne sono già fuggiti e già sono sul punto di ritornarci. In attesa di difficili e costosi permessi di soggiorno, dicono che non vogliono solo mangiare e dormire, ma lavorare. Non mangiano nulla, di dormire , invece, non se ne parla proprio. Pensano a cosa raccontare ai proprio genitori, se è meglio o è peggio.

Ieri ho incontrato Mohammed: usciva dal centro di accoglienza mentre io ci entravo, per lavorare. Era accompagnato da Oumar ed aveva uno zaino sulle spalle, dentro, lo so, non aveva nessun documento. Tre giorni addietro era stato a Napoli per capire se c’era la possibilità di un lavoro. Evidentemente gli è andata bene. “Hamed, te ne vai?”, gli ho chiesto. “Si, campagna lavorare“, ha subito risposto. Mi ha sorriso, di quel sorriso rassegnato, come per dire “si sapeva che andava a finire così.” Accanto a lui, Oumar mi ha sorriso allo stesso identico modo.

Era nostro ospite dagli inizi dell’inverno ed adesso siamo nel mese di maggio. In questo periodo, la vita non gli è cambiata. Nessuna convocazione in questura e nessuna carta, soltanto giornate scandite dalla colazione, dal pranzo e dalla cena. Dalle parole di un’equipe, dagli isterismi e dalla confusione.

Nell’ultimo mese ne sono andati via sette, alcuni comunicandolo, altri no.

Vanno nelle campagne di nessuno, rispettando le regole del gioco: ricambiando la nostra amara accoglienza con un camion di pomodori.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.