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Un racconto d’estate. Sulle tracce dei fantasmi di Porto Palo

di Filippo Furri

Sabato 10 luglio 2010.
Intorno alle 17h30 usciamo dal carcere, insieme al brigadiere che ci segue, che ci accompagna in questi giorni. Sono a Catania da martedì sera per lavorare come assistente per un laboratorio teatrale che si svolge nell’istituto penitenziario Bicocca. Riprenderemo lunedì, ora rientriamo in città, a casa. “Appena arriviamo faccio una doccia” dico a Paola “per levarmi di dosso la prigione”, perché ho davvero la sensazione di averla appiccicata addosso, di portarmela dietro, come il sale che resta sulla pelle uscendo dall’acqua.

Non abbiamo ancora integrato tutti i meccanismi e le dinamiche di controllo e sicurezza con cui abbiamo a che fare mentre transitiamo, in entrata e in uscita, dall’ingresso del carcere al piccolo teatro dove si svolge il laboratorio. Ogni giorno sono facce diverse a chiederci i documenti, a verificare gli oggetti che introduciamo, a ritirare i documenti e i telefoni, ad aprirci uno dopo l’altro i cancelli elettrici (quattro, dopo quello all’ingresso che attraversiamo ancora in automobile). E a ogni cancello c’è ad aspettarci qualcuno, un responsabile, il brigadiere a cui siamo stati “assegnati”, per farci entrare e accompagnarci fino al cancello successivo. Fino al teatro, dietro due altre porte chiuse a chiave dietro di noi, con quelle chiavi enormi, scomode e dorate che tintinnano alla cintola dell’appuntato. Brigadiere, appuntato, continuano a chiamarsi così, utilizzando ancora i gradi del Corpo degli Agenti di Custodia, che nel 1992 è stato sciolto e sostituito dalla Polizia Penitenziaria.

Per i primi giorni non riusciamo a decifrare i ritmi e gli spazi, portone cortile interno portone spiazzo porta corridoio porta corridoio porta porta. Quello che attraversiamo prima di andare a incontrare i detenuti che partecipano al laboratorio, prima di essere chiusi, noi e loro, in teatro, rimane intorno e fuori fuoco, si fa sentire senza attirare troppo esplicitamente la nostra attenzione. Un misto di timore e pudore ci impedisce di indugiare con lo sguardo su dettagli. Ci rimangono addosso gli odori, i colori, il bianco e il blu nella penombra dei passaggi, la luce accecante fuori, il caldo faticosissimo l’aria umida. La bolla di frescura da aria condizionata del teatro. E i rumori, il rumore dei passi, lo sbattere delle pesanti porte metalliche, le voci che scivolano fuori dalle celle e che vengono a rimbombare nei corridoi. Da fuori non filtrano rumori di vita, arriva solo il rombo degli aerei che decollano ed atterrano dall’aeroporto, a qualche chilometro e lontanissimo. È questo che ci portiamo fuori, in questi primi giorni di lavoro.

Torniamo verso casa per cercare refrigerio qualche ora tra i muri spessi e il condizionatore, mentre l’afa nasconde l’Etna. Chi poteva è scappato al mare e le strade sono più libere del solito. Sulla tangenziale che scorre di fianco al quartiere di Librino sventolano le cinquecento bandiere, disegnate dagli allievi delle scuole di Catania, dedicate alla Costituzione Italiana, progetto della Fondazione “Antonio Presti – Fiumana d’Arte”. A Librino Paola, qualche anno fa, ha girato un documentario sulla fuitina, dovremo prendere il tempo di guardarlo insieme.
Entrati in casa prendiamo fiato. Non c’è nessuno, abbiamo il tempo di posarci, di cambiare un attimo discorso, di pensare a cosa potremmo fare domani che non si lavora, io vesto i panni del turista e lei dell’ospite, potremmo salire sull’Etna, andare al mare… La divagazione non dura molto, facciamo la doccia e sotto lo scroscio d’acqua ritrovo il lavoro, il carcere, l’associazione è quasi immediata perché proprio la doccia, la possibilità di lavarsi dopo il teatro, quindi verso le 17, e non prima secondo la rigida temporalità penitenziaria, è il fulcro attorno a cui ruotano i discorsi nei momenti di pausa in questi primi giorni, si negoziano concessioni con brigadieri e direttori, dopo il teatro altrimenti mi resta addosso la polvere fino a domani, ma non troppo tardi altrimenti abbiamo l’acqua fredda, questione di ritardare il ritorno ai 45 gradi della cella – anacronismo dell’espressione “al fresco” -, di rimanere ancora un po’ fuori dai 6 metri quadrati che occupano in 3 per 20 ore al giorno. Il teatro è anche una fuga, un’alternativa, una ricompensa.

E siamo di nuovo seduti in cucina, discutiamo davanti ad un caffè del progetto, del comunicato stampa, della possibilità di invitare degli “esterni”, ci confrontiamo con l’incombenza e i tempi degli inviti, delle restrizioni, delle condizioni di accesso al carcere.
Mentre ci prepariamo a uscire, passano uno dopo l’altro un’amica, la figlia di Paola che torna dal mare e si prepara per la serata con le compagne che ritrova a Catania, la madre che vive poco lontano, Tibi, un operaio rumeno che sta lavorando per lei, il fratello che deve fare una lavatrice, telefonate, appuntamenti, il mondo di Paola insomma si manifesta puntualmente negli intervalli, contribuisce a spostare la nostra attenzione rispetto all’esperienza del lavoro in prigione, ci distrae, ci ributta in mezzo ad una quotidianità estiva e familiare. Quando siamo noi due soli, invece, misuriamo mutualmente le tensioni le idee gli effetti di quello che stiamo vivendo, di notte i nostri sogni rimescolano tutto, i rumori delle porte blindate in sottofondo decorano un condensato di emozioni e ansie, ricordi e divagazioni, ritrovo visi persi di vista e altri familiari, mi sento osservato e osservo: l’ingresso e l’uscita quotidiani dal carcere, il passaggio ripetuto e ripetitivo di una frontiera così significativa ed assoluta ha tutta l’aria di aver destabilizzato alcuni miei equilibri emotivi, mentali, penso a chi è sempre dentro, a chi è sempre fuori, alla schizofrenia del personale penitenziario che vive addosso a questo confine. Nessun giudizio sui detenuti che lavorano con noi, l’esplicita richiesta di non sapere più del necessario – mi informerò in seguito, in caso: il carcere è di massima sicurezza, i reati sono tutti di mafia -, al di là del crimine commesso, della pena da scontare, cerco di capire come vivono là dentro, cosa pensano, cosa fanno. Come passa il loro tempo. E delle guardie, dei controllori, cosa penso? Al di là di atteggiamenti finti disinvolti o calcolatamente autoritari con noi, dei modi tutto sommato disponibili, dell’attenzione più o meno sincera per il nostro lavoro, della rigidezza dell’agire e del pensare in quello spazio, di qualche confessione mai tecnica formale pratica ma sempre dell’ordine dell’emozionale, istintiva, liberatoria: a volte sembrano loro i primi prigionieri là dentro.

La serata passa in fretta, usciamo tardi, ceniamo fuori con un panino alla carne di cavallo. Ora gira un po’ d’aria e anche se siamo stanchi decidiamo di spostarci in centro a bere una birra. Lasciamo la macchina e ci muoviamo a piedi verso il bar di un amico di Paola; i palazzi tra la Piazza del Duomo e Piazza Università hanno il colore della pietra lavica, è mezzanotte passata e c’è ancora parecchia gente per strada, famigliole con ragazzini assonnati, crocicchi di adolescenti, posteggiatori abusivi che piantonano parcheggi semivuoti. Il Bar di Toni è praticamente deserto, potrebbe quasi essere chiuso, pochi tavolini fuori, all’interno la penombra del pub e un sottofondo musicale che ha tutta l’aria di far piacere a chi sta dietro al bancone senza preoccuparsi degli avventori.
Quello che ci vuole per noi, che abbiamo scelto una serata di decompressione. Ma la sorpresa di rivedere Paola impone a Toni la domanda conseguente: cosa ci fai a Catania, sei tornata in vacanza? Si conoscono troppo bene perché lei possa annuire e cambiare discorso, quindi dopo un attimo stiamo raccontandogli del laboratorio e della sensazione di lavorare in un carcere. C’è una scelta notevole di distillati nel locale, una coppia entra a prendere una grappa e ci lascia di nuovo soli a chiacchierare, mentre la discussione scivola abbastanza rapidamente su questioni private, su come va la vita, su cosa si fa e cosa si farebbe. È Toni che detta i tempi, andando e venendo da dietro il bancone, sedendosi e alzandosi, con i ritmi cadenzati di un esperto di tai chi e la benevolenza di un oste che impartisce lezioni a clienti presi per discepoli. È simpatico e mescola toni new age e riferimenti scientifici, parla di energia, attenzione ed empatia, ci racconta del magnetismo dell’Etna, dice vorrei vedere l’alba a Machu Picchu e non so come finiamo a parlare dell’Isola delle Correnti, “che è in Africa, è più a sud di Tunisi”. “Potremmo andarci domani” – “potremmo andarci anche adesso” – “l’alba è magnifica anche là”.

Usciamo dal bar con quest’idea in testa e quasi automaticamente torniamo alla macchina, passiamo a prendere Benedetta, la figlia di Paola, rientriamo a casa e in dieci minuti riempiamo due borse, prendiamo due pile elettriche da campeggio, qualche coperta e qualche disco, gli asciugamani e i costumi per domattina. Verso le 2h30 siamo in di nuovo macchina, in autostrada per Siracusa.
Mentre guido racconto a Paola perché conosco Capo Passero, le parlo de “I fantasmi di Portopalo”, il libro inchiesta di Giovanni Maria Bellu sul naufragio al largo dell’Isola delle Correnti, la notte di Natale del 1996, di una carretta del mare in cui persero la vita circa trecento clandestini di origine pakistana, indiana e tamil; il fatto passò praticamente sotto silenzio, e mentre dalla Grecia si iniziava a denunciare l’accaduto le autorità italiane non si sbilanciarono: il mare non aveva restituito né resti del relitto né corpi, le spiagge non portavano i segni del naufragio.
Perché i pescatori, per evitare inchieste e sequestro di imbarcazioni, per non essere costretti ad interrompere il lavoro e a denunciare i fatti, avevano scelto di ributtare in mare i corpi e gli indumenti che finivano nelle reti.

Paola non conosce questa storia, non se la ricorda. Mentre mi racconta – ne abbiamo già parlato – del Teatro Club fondato da suo padre a Catania, mentre in questi giorni mi introduce nel suo universo catanese, fatto di affetti e contatti, che raccoglie intellettuali ed artisti, amici e colleghi, ricordi ed attualità, faccende pubbliche e questioni private; mentre mi parla della mafia di cui nemmeno si può pronunciare il nome, dei quartieri malfamati e delle connivenze con la politica, mentre discutiamo della fuitina e delle pratiche fantasiose di riciclaggio di denaro sporco attraverso il Superenalotto che ci ha descritto un magistrato a cena ieri, mi rendo conto che gli sbarchi dei migranti, che interessano le coste meridionali della Sicilia da vent’anni ormai, quando smettono di essere strumentalizzati e strumentalizzabili possono diventare – o rimanere – fatti collaterali, episodi occasionali o consuetudini “lontane”, emotivamente prima che geograficamente, non solo per un Paese, per la stampa, per l’opinione pubblica nazionale ma anche per chi ci vive accanto, a pochi chilometri: per tutti, i clandestini arrivano o arrivavano praticamente solo a Lampedusa, e adesso non se ne parla troppo, i problemi sono altri, tutto si sovrappone e si mescola. Ed anche gli sbarchi sulle spiagge della Sicilia meridionale finiscono per diventare normali fatti di cronaca, si infilano sottopelle alla coscienza collettiva, diventano una tassello periferico del panorama quotidiano talmente articolato e denso che li lascia emergere solo quando sono oggetto di lavoro, di ricerca, o di mobilizzazione collettiva. Altrimenti stanno sempre lontani, sempre in un altro posto, un altro giorno.

Paola conosce bene Portopalo e l’Isola delle correnti, conosce i campeggi sulla spiaggia e Marzamemi, Pachino e l’entroterra, la spiaggia, l’umore del mare e come gira il sole, ma non conosce quella tragedia e degli sbarchi sa poco. E non è una persona disposta a far finta di nulla, o distratta, tutt’altro. Questi fatti le passano accanto, ci sono e non ci sono. Non si tratta di giudicare o di chiamare in causa l’attenzione della gente, l’interesse, la pietà, la comprensione, la paura, il fastidio o tutti gli altri sentimenti che questi fatti possono suscitare, o l’indifferenza che la porta a guardare altrove. Si tratta piuttosto di interrogare le condizioni di esistenza, di realtà di un fenomeno che ha assunto negli anni un carattere paradossale: quando è mediatizzato, occasionalmente o nelle stagioni di campagne pubbliche anti-immigrazione, fa divampare polemiche, reazioni collettive, schieramenti morali e politici; quando è taciuto o messo da parte, si assesta e si fa spazio nel quotidiano, assume tutt’altra portata fino a risultare normale, fino a rientrare ormai nell’orizzonte di vita di chi su quelle coste vive e lavora, o viene al mare. Quando è spettacolarizzato interessa tutti come evento eccezionale, drammatico, che impone soluzioni, in un senso o nell’altro; quando non se ne parla appartiene solo a chi lo vive, ai clandestini, agli abitanti della costa e dei paesi limitrofi, alle forze dell’ordine quando intervengono, a chi in sostanza è già li, sul posto.

La tragedia di Portopalo ha estremizzato e mandato in cortocircuito questo paradosso: il naufragio fantasma ha restituito segni e tracce che sono state nascoste dalla popolazione per impedire che questo evento destabilizzasse un ordine delle cose all’interno del quale gli sbarchi erano stati progressivamente incorporati e contemplati quasi come delle tempeste, che interrompono la pesca per qualche ora solamente. Denunciare il ritrovamento dei cadaveri avrebbe invece inciso profondamente, per mesi, sull’equilibrio economico e sociale del luogo. Quando esplode lo scandalo, in seguito alla testimonianza del pescatore Salvo Lupo e all’inchiesta di Bellu, tutto va sottosopra, accuse incrociate, diffamazioni, paranoie nella popolazione, che si sente addirittura accusata di cannibalismo per essersi nutrita del pesce che a sua volta avrebbe mangiato i cadaveri dei naufraghi.
Le istituzioni iniziano ad occuparsi dei fatti, la tragedia riaffiora momentaneamente nella cronaca nazionale, fa scalpore e poi affonda di nuovo e si lascia dimenticare. Per la gente del luogo e per gli altri, i telespettatori, i lettori, chiunque non fosse stato là allora, la sequenza normalità – evento (tragedia) – normalità ha avuto una temporalità ed effetti sfasati, contrapposti, incongrui. Perché l’esistenza spettacolare della tragedia (questa come altre) e la sua realtà concreta, materiale, i suoi effetti immediati e circostanziati e l’onda di conseguenze e di discorsi che possono sviluppare o meno, non combaciano, hanno una consistenza ed una durata diverse. Diverse per me che vengo dal Nord, per Paola che è di Catania, e per i pescatori di Portopalo. Per una questione di prossimità prima ancora che di sensibilità, di attenzione, o di “professionalità”.
Il fatto è che dal 1996 e ancora da prima gli sbarchi ci sono e continuano ad esserci, in Sicilia e altrove.
Ma quando succede esattamente uno sbarco?

Usciti da Catania cerchiamo un distributore perché vorrei un caffè e perché siamo quasi a secco, ma non ne troviamo di aperti, l’autostrada, ancora senza pedaggio e poco illuminata, scende verso sud come per gravità, attraversando paesi e cittadine dai nomi evocativi, Lentini, Siracusa, Avola. Parliamo per tenerci svegli, cambiamo cd e cambiamo discorsi, il tempo scorre ai 90 all’ora.
Poi finisce l’autostrada e finisce praticamente tutto. Siamo in mezzo alla campagna, ho sbagliato uscita, l’abbiamo vista all’ultimo momento, ed invece di fermarci a Noto siamo scesi ancora, flettendo ad Ovest, verso Ragusa. Paola corregge il tiro perché conosce le strade qui, usciamo a Rosolini, verso Pozzallo, e scendiamo verso Portopalo e l’Isola delle correnti: campagna e odore di mare, vado piano perché sono in riserva, con i finestrini giù, sono quasi le 4. Non andiamo subito verso la spiaggia, ci fermiamo all’ingresso del paese, c’è un distributore. Il bar di fronte è aperto, il proprietario seduto in terrazza ci accoglie senza battere ciglio, anzi inizia subito a chiacchierare preparando un caffè per Paola e un cappuccino per me, tiene aperto tutti i giorni praticamente sempre, conduzione familiare, due figlie e nessun uomo da poter lasciare a lavorare la notte. L’aria stravolta dell’insonne si è stabilizzata sul suo volto negli anni, in qualche frase ci racconta la sua personale epopea di barista da finis terrae, ci descrive la situazione attuale, è l’unico locale aperto fino a tardi, anzi sempre, in paese in questi giorni, ad eccezione del bar dei marocchini. Paola prende un cornetto – li faccio io, una volta facevo tutto io, quando avevo il bar dall’altra parte del paese, e ricomincia la storia, raccontata centinaia di volte, immagino, a viaggiatori notturni e turisti nottambuli. Uscendo prendiamo una birra per la spiaggia e chiedo a Paola del bar dei marocchini: è il bar degli immigrati –dice – insomma dove stanno loro. La spiegazione basta e avanza.

Risaliamo in macchina, prendiamo il bivio per l’Isola delle correnti e guido lentamente verso il campeggio dove viene in vacanza quasi ogni estate. È una notte di luna bianca, più avanziamo verso il mare più c’è vento. All’isola delle correnti c’è vento sempre, dicono. Dopo qualche centinaio di metri la strada d’asfalto lascia spazio ad un fondo polveroso di terra battuta, la strada si allarga leggermente prima di un’altra biforcazione alzo i fari ed alcuni corpi si sottraggono alla luce: sei o sette ragazzi, vedendoci arrivare, scartano dalla strada e s’infrattano in un viottolo o direttamente nella sterpaglia che circonda i campi e le serre.
Li hai visti?
dico a Paola, abbassando istintivamente i fari e rallentando. Portopalo con i suoi fantasmi si sovrappone immediatamente a Pachino e ai pomodori, penso che siano immigrati clandestini che stanno a bordo strada ad aspettare un caporale per la raccolta, è una spiegazione plausibile mi dico, cerco una soluzione logica ad una situazione inaspettata, il cuore accelera un attimo ma la testa lo ferma subito.
Qualche decina di metri dopo ce ne sono altri, un dozzina almeno, alcuni come i primi corrono a nascondersi, altri sembra abbiano appena smesso di correre e si fanno semplicemente da parte, guardandoci sfilare lentamente.
Non siamo la polizia, non siamo nessuno: scappare adesso non serve, o è inutile. Si fanno da parte tutti, tranne un ragazzo alto e nero che sorride impallato dai fari, mentre gli occhi della lepre immobilizzata dal fascio di luce devo averli io. Quasi si ferma davanti alla macchina e ci guarda dentro. Non ha paura, si scosta appena. Ha una maglia rossastra addosso, e non ha i pantaloni.
Ho visto male? Hai visto anche tu?
Il tempo di un secondo e sono scomparsi dietro di noi. Facciamo a rallentatore qualche centinaio di metri di strada sterrata verso il campeggio, tutti gli accessi sono sbarrati, ci giriamo nel cortile di una casa colonica, tra alcune auto parcheggiate. L’orologio in macchina segna le 4 e 20.
Sono scosso da quell’ultima visione, che non trova senso in quel momento in quella situazione. Adesso tornano i fantasmi.

Passano pochi minuti e torniamo sui nostri passi, la strada di prima è deserta come dev’essere una stradina di campagna in riva al mare alle 4 di notte, Paola mi guida verso uno spiazzo dove riposa un camper. Passiamo da un’altra parte – dice. Passiamo da questo lato, dal Mediterraneo…
Scendiamo verso la spiaggia lungo un sentiero tra gli sterpi, sento l’odore del finocchio selvatico; con le due torce elettriche – le stesse che usiamo per il laboratorio in carcere – illuminiamo pochi metri davanti a noi, lei conosce la strada ma non basta, la sabbia si mescola alle alghe e nasconde scogli scivolosi, la spiaggia appena illuminata dalla luna disegna una curva ampia che arriva all’isola, la torre del faro è un lumicino. Sei agitato? Mi chiede Paola. Anche se cammino dietro di lei deve essersi accorta che agito la torcia dalla sabbia agli scogli al mare, poi sopra verso le dune e ancora in basso verso i suoi piedi davanti ai miei. No – dico – ma mi ha fatto impressione.
Non è ansia, ma è che si è mescolato tutto, sono confuso. Sono confuso perché la spiaggia dove siamo scesi a vedere l’alba è tornata ad essere quello che è nella mia testa, la spiaggia di Portopalo e del naufragio. Non glielo dico, ma quando spingo ancora la luce della torcia sugli scogli e verso il mare ho paura di vedere un corpo riverso in acqua, e le ombre e le alghe fanno il resto. Continuiamo a camminare a passi lenti, i piedi affondano nella sabbia soffice, vedo una luce in mare – è una lampara dice Paola, o potrebbe essere Malta. A quante miglia è Malta? Non so, dice, è vicina. Raccogliamo un ombrellone abbandonato, per domattina.

Abbiamo doppiato il capo dell’Isola, attraversiamo qualche duna e nella penombra si intravede il campeggio, o forse Paola dice che il campeggio è lì avanti e io lo vedo. Ma fa buio davvero. Posiamo le coperte e le borse, spegniamo le torce. Fumiamo una sigaretta ed apriamo la birra. Parliamo sottovoce, poco, un rumore sordo, un borbottio che mi ricorda quello delle barche in laguna a Venezia, viene dal mare. E questo? Una barca da pesca, dice sorridendo lei, devo averlo chiesto con un’intonazione paranoide perché la sua risposta è ovvia e corrisponde a “calmati Filippo”.
Lei conosce il posto, l’alba qui l’ha già fatta, conosce il mare, mi calmo e mi aiuta. E anche il rumore si affievolisce, scompare, si spegne. Rimaniamo ancora a parlare e a fumare qualche sigaretta, poi ci addormentiamo. Il mare è calmo e piatto come una tavola. Non è il sole a svegliarmi, ma l’aurora che non illumina ma disegna i bordi delle dune e degli scogli davanti a noi, e la sagoma di un barcone, un peschereccio. Non le attribuisco troppa importanza fin quando anche Paola si sveglia: che strana una barca ancorata lì.. È a due trecento metri da noi in linea d’aria.

Sono quasi le sei, rimaniamo ancora a guardare la spiaggia deserta fino a quando intravediamo qualcuno muoversi attorno alla capanna sulla spiaggia del campeggio. È Pino dice Paola senza guardare, lo conosce da anni. Mi infilo il costume e vado a prendere un caffè mentre lei sonnecchia ancora. Adesso saranno le sette, dal campeggio scendono verso la capanna due coppie di ragazzi, arriviamo quasi contemporaneamente davanti al bancone e Pino si è già messo a raccontare “sono sbarcati questa notte, erano quasi 300, ne ho ripescati quattro, vivi, la capitaneria mi ha chiamato per aiutarli, allora sono sceso in acqua e ne ho tirati fuori quattro…saranno state le 5 e venti…” I quattro ragazzi ripartono subito, vanno nella direzione opposta rispetto al barcone, verso Paola; io rimango ancora un attimo, perché Pino continua “erano otto mesi che non ne arrivavano qui, ma venerdì è arrivato un barcone anche a Pozzallo, altri 300 più o meno”.
Gli chiedo se intorno al barcone c’è gente, se stanno facendo controlli, dice di no, che non c’è nessuno, che posso andare a vedere se voglio. Ma di non salirci, che puzza, sarà pieno di malattie, io sono salito e non riuscivo a respirare. Vado, mi avvicino con calma, al largo una motovedetta della guardia costiera fa avanti e indietro. Il peschereccio è incagliato a qualche metro dalla riva, c’è del pesce azzurro sparso sulla spiaggia, aggrovigliati agli scogli che affiorano appena dei foulard colorati, una borsa rosa mezza rovesciata lascia intravedere al suo interno del latte in polvere, dei pannolini, accanto una scarpa ed un panino sembrano in posa. Un paio di fogli stampati dal sito BBC Weather: le condizioni del mare di Bengasi, della domenica notte (domenica 4 luglio) e per i cinque giorni successivi.

Torno a prendere la macchina fotografica, scatto qualche foto, risalgo la prima duna e tra la sterpaglia sono disseminati jeans e vestiti gettati fradici e che il sole del mattino sta iniziando ad asciugare. Torno da Pino ed arriva anche Paola, lui ripete e aggiunge “ ne hanno presi venti, più quattro scafisti, egiziani…c’era una donna con una bambina di 20 mesi, erano eritrei, alcuni li hanno presi sulla spiaggia, il gruppo di sei, con le due donne e i due bambini”. Gli chiedo ancora da quanto tempo non c’erano sbarchi, e mi dice un anno e mezzo. “Siamo abituati, ma è un po’ che non succedeva, con la storia dei controlli in Libia..mi è successo spesso di ripescarne in acqua, sono un bagnino e allora la guardia costa mi chiama per aiutarli, oggi ho preso la maschera e sono andato. Erano gli ultimi. Ma a volte arrivano in pochi e nemmeno li vedi arrivare, e se non c’è la polizia vengono e gli dai una bottiglia d’acqua e un pezzo di pane, cosa vuoi fare?” Conoscevo Portopalo per la nave affondata, e il libro del giornalista, dico. Sì, quello, che sembrava che gli abitanti di qui fossero cannibali, quella volta fu una tragedia, ma sai quanti ne abbiamo visti arrivare… Cambia discorso e io lascio andare. Hanno detto – continua – che stanotte erano 246, immaginati, ne hanno presi 18 e i quattro scafisti egiziani, dice proprio egiziani. Adesso le motovedette stanno in mare per vedere se ce ne sono altri. Devo fare un’espressione strana, aggiunge “di barconi”.
Torno dove siamo con Paola, mi butto in acqua e tengo la testa sotto, faccio qualche bracciata e ributto sotto la testa, guardo la spiaggia che si sta cominciando a popolare, la gente arriva, guarda la barca stendendo l’asciugamano, scambia qualche commento ancora ipotetico e si posa. Sono sbarcati davvero, non ci credo. Ed eravamo lì mentre succedeva.

Faccio una prima valutazione: ce l’hanno fatta, prima di tutto ad arrivare, il mare era calmo, il pesce sul bagnasciuga e le taniche d’acqua fanno pensare a sufficienti riserve alimentari.
Ce l’hanno fatta anche, quasi tutti, a non farsi intercettare o arrestare prima dello sbarco, a non farsi rispedire indietro immediatamente insomma. Per finire dove, adesso?

Poi faccio un po’ di calcoli.

Il numero: prima dicono trecento, poi 246, un numero preciso, e quattro scafisti; hanno arrestato loro e altre 18 persone. Quindi quasi in 230 sono riusciti a scappare e a nascondersi, disperdendosi nella campagna che abbiamo attraversato anche noi questa notte, alla stessa ora.
Quelli che abbiamo visto noi, praticamente. Ma come fanno a sapere il numero esatto? Hanno trovato documenti addosso agli scafisti, o parlando con i fermati sono riusciti sapere con esattezza di quante persone si trattava? In ogni caso Pino ha informazioni precise, non necessariamente vere ma precise, il conferma che lui o qualcun altro nei paraggi è in contatto con la capitaneria e le forze dell’ordine, o che almeno può attingere ad informazioni di prima mano.

I tempi: noi siamo arrivati prima delle quattro a Portopalo, caffè e benzina, li vediamo per strada alle 4h15, 4h20. Cambiamo strada lasciamo la macchina e camminiamo lungo la spiaggia dall’altro lato dell’Isola delle Correnti. Forse passano 40 minuti. In quel momento Pino sta uscendo a cercare nelle acque basse intorno alla barca gli ultimi che stavano scendendo, aspettando che lo scafo incagliato si fermasse definitivamente, spegnesse i motori. Quindi il rumore che abbiamo sentito alla notte era quello di un motore al minimo, che annaspava prima di spegnersi. In quel momento gli scafisti dovevano essersi allontanati, perché scendere per ultimi? Per riprendere la barca? Se c’era Pino, c’erano le forze dell’ordine, la guardia costiera. Non li hanno intercettati prima? Praticamente, quando siamo arrivati sulla spiaggia tutto era finito. Abbiamo visto i primi a scendere, ed i pantaloni sulla spiaggia spiegano il ragazzo in slip, prima di tutti. Il peschereccio deve essere arrivato in prossimità della spiaggia poco prima delle quattro, e quelli vedendo terra e il mare basso sono saltati giù e si sono buttati avanti. Devono essere passati per la sterpaglia, nella fascia di terreno incolto tra i due capeggi, i vestiti lasciati sulla spiaggia indicavano una via di fuga. Un po’ alla volta sono scesi tutti, Indietro sono rimasti le donne e i bambini. La domanda che mi perseguita è quando sono scesi gli scafisti, quando hanno abbandonato nave e carico se si sono fatti arrestare insieme agli ultimi 18?

La dinamica: sono partiti da Bengazi la notte di domenica 4 luglio, sono arrivati la notte di sabato 10, sei giorni interi in mare: con scorte di viveri e tutto, devono aver calcolato bene la durata del viaggio perché avevano stampato il meteo per 5 giorni, fino al venerdì, la notte dell’altro sbarco a Pozzallo. Sapevano dove arrivare, evidentemente, ed è probabile che le due imbarcazioni siano partite praticamente insieme, e siano arrivate a qualche chilometro di distanza, un giorno dopo l’altro. Non hanno fatto rotta verso Lampedusa, arrivando da Bengasi (Libia orientale, verso l’Egitto) sono rimasti più a nord, evitando Malta. Sono stati avvistati o sono stati “accompagnati” dalla motovedetta fino alla costa? Se la motovedetta li avesse intercettati in mare, non ne avrebbero fermati solo 18. Ma alla fine dello sbarco qualcuno ad arrestarli c’era. Chiamati da qualcuno? Avvistati solo mentre si incagliavano nella secca davanti alla spiaggia? Ci sono alcune cose che non sono chiare per nulla.

Bisognerebbe controllare – se si riesce – il verbale della capitaneria. Bisognerebbe sapere a chi chiedere esattamente, ma siamo in spiaggia, le famiglie con gli sdraio e gli ombrelloni si dispongono lungo la battigia secondo una cadenza sfasata, prima sparsa, poi a riempire i vuoti. Guardano la barca, l’autosuggestione diventa testimonianza e alcuni li hanno sentiti passare vicino ai bungalow, altri hanno sentito abbaiare il cane in cortile – per fortuna che non sono entrati, pensa se mi rubavano i quadri (non è una battuta).
Dei bambino con l’acqua fino alla cintola giocano: “sono un clandestino! Aiuto! Aiuto!”. Intanto un elicottero della polizia sorvola la costa, come secondo un rituale di caccia, come un avvoltoio, si spinge sulla spiaggia fin sopra la barca, si ferma si volta e cerca di riprendere le fila dei fuggiaschi, sembra una caccia all’uomo in loop, un cane da caccia che ad un certo punto perde le tracce e allora deve tornare indietro al punto di partenza, a annusare ancora e ripartire. Lo fa di continuo, il rumore delle eliche non smette mai, si allontana e poi torna.

La scena è surreale. Il sole abbacinante di una mattina di luglio siciliana, il mare calmo, la spiaggia che si riempie di bagnanti che con gesti lenti e vacanzieri piantano l’ombrellone stendono gli asciugamani posano le borse, si voltano verso il peschereccio là in fondo, si scambiano qualche battuta, si spalmano protezioni solari e creme abbronzanti, entrano in acqua, escono, con la mano a visiera sopra gli occhi alzano la testa a guardare l’elicottero, cincischiano con le mani sui fianchi, vanno a stendersi. Non sono lì per sapere quello che è successo, è quello che è successo stanotte che è piombato sulla loro spiaggia e per un attimo li ha distratti. Nessuno si scompone, gli atteggiamenti i comportamenti i discorsi non tradiscono stupore, meraviglia, curiosità né preoccupazione; qualcuno trascinando i piedi si incammina per andare a vedere da vicino. Pare tutto normale, anzi forse tutto è normale, senza l’elicottero ed i bambini che sguazzano giocando al clandestino sembra una cartolina balneare.

Torno a prendere la macchina fotografica e raggiungo la barca, dove ora un gruppetto di gente sta discutendo, ipotizzando, confrontando versioni, o semplicemente osservando in silenzio. Sono le 10 passate ormai. Arrivo e dopo un po’ il gruppetto si sfalda, rimane un signore pelato e grassoccio che comincia a chinarsi sui dettagli. Ed un ragazzo di trent’anni con un armamentario fotografico degno di un fotoreporter. Noi tre. Il ragazzo inizia a scattare professionalmente, ad un certo punto tira fuori una fotocamera subacquea, il signore lo osserva incuriosito, inizia una conversazione a tre surreale, un gioco a scacchi di piccole osservazioni e di commenti fugaci. Chi sono per gli altri due, io con la mia macchinetta digitale ed il costumino? Il primo a svelarsi è l’omaccione, ex guardia giurata, ex investigatore, ex volontario della croce rossa, lo prova con un po’ di protagonismo e minuzia di dettagli, parla del Kosovo e di Lampedusa, di quando ha capito che i migranti nascondevano le banconote nel risvolto dei pantaloni e per quello piangevano quando li facevano spogliare per lavarli e rivestirli con abiti puliti. Di come prima di mandare gli abiti al macero, dopo la sua scoperta abbiano ritrovato qualche migliaio di euro scucito dal fondo dei jeans.

Poi tocca a me, sono un ricercatore, adesso sono qui in vacanza ma lavoro sull’asilo in Italia. Il ragazzo è un fotografo – e in gamba, verifico poi su internet, ci siamo scambiati la mail per scambiarci le foto – in vacanza con la moglie e con il bimbo di pochi mesi. Cerchiamo di imbastire una conversazione formale fingendo di ignorare lo scenario che ci circonda, ma non ci si riesce. Anche perché l’ex investigatore ci prende gusto e richiama la nostra attenzione. Rivolta una tanica e ci fa vedere lo stampo – TRIPOLI, LYBIA – rovescia il sacco rosa, oltre ai pannolini ed al latte in polvere rotolano fuori una lattina di red bull, degli antidolorifici e qualche abito per bambini. Prende il foglio meteo che avevo notato prima, lo legge con attenzione, lo mette in tasca “perché mia cognata è un poliziotto”. È stato stampato il 4 luglio, Bengasi, cinque giorni di mare previsti…erano organizzati ci spiega. Guarda il pesce sulla spiaggia, ci spiega la struttura della barca, un peschereccio abbastanza solido, e sembrano tornare chiacchere da bar. Poi con fiuto da detective ci stupisce. Afferra un cartoccio di carta, che contiene un bicchierino da caffè. Lo volta. Dice “Modica…c’era qualcuno che veniva da Modica ad aspettarli…”. Un genio, penso. E inizio ad immaginare la rete di connessioni sul territorio che dalla spiaggia arrivano fino a Catania. Lui mi legge nel pensiero e aggiunge “a quest’ora staranno già vendendo fazzoletti a Catania”. L’immaginario realista e disumano del nostro detective mi lascia di stucco. Solo qualche giorno dopo mi viene in mente che magari il caffè l’ha gettato in spiaggia un poliziotto della pattuglia che è arrivata da Modica, che sta ad una ventina di chilometri verso Ragusa.

Torniamo indietro, mi vado a sdraiare vicino all’asciugamano vuoto di Paola che ora sta nuotando. Quando torna le racconto velocemente cosa ho fatto, anche per ricordarmi i dettagli, frugo nel sacco e trovo un’agenda, segno qualcosa. Ho trovato anche una macchina digitale mangiata dal mare e dal sale, a qualche decina di metri dalla barca. Ma non c’entra nulla, non può essersi ridotta in quello stato questa notte. Ma per scrupolo con uno stuzzicadenti tiro fuori la scheda e la metto in borsa. Non ho ancora cercato di guardarci dentro. Vado in acqua faccio qualche bracciata e con Paola risaliamo, decidiamo di andare, la spiaggia adesso è invasa, siamo stanchi per la notte in bianco. Paola parte verso la macchina e io l’aspetto alla capanna di Pino con le borse e tutto il resto. E Pino mi dice chiedi a lui, indicandomi un signore appollaiato su uno sgabello, – è della protezione civile. I suoi numeri sono 241 sbarcati, 20 fermati, quattro egiziani scafisti arrestati, già in prigione, ci tiene a sottolineare. Erano Eritrei. Penso che forse il ragazzo nero che mi ha sorriso questa notte non era eritreo, ma che se sono eritrei in questo periodo hanno qualche possibilità di fare domanda d’asilo. Scambiamo ancora qualche parola, e mi sembra particolarmente disinvolto nel raccontare ad uno sconosciuto vacanziere alcuni dettagli. Ma quante volte deve essergli successo, ripenso alle parole di Pino questa mattina. Dice che adesso sono al vecchio magazzino del pesce a Portopalo.
Arriva Paola che saluta Pino, ci mettiamo in macchina, le chiedo di farmi passare dal magazzino, scendiamo verso il porto dove alcune pattuglie di polizia stazionano circospette. Troviamo il magazzino, recintato e sorvegliato all’ingresso. Non ho le forze e non ho idea di come poterci entrare, appena sarò a casa cercherò informazioni per continuare a seguire la vicenda, per “sapere come è andata a finire”. Mi sento debole e impotente, non saprei cosa fare di più lì questa mattina, come muovermi. Non ho voglia di inventarmi una storia ed una falsa affiliazione per provare ad avvicinare il magazzino, non riconosco sulla banchina nessuno che possa essere della croce rossa o della protezione civile, non ho la testa, non ho la pazienza, non ho il coraggio, andiamocene, dico. So che ci sono associazioni qui che a quest’ora si saranno già mobilizzate, mi dico per mettermi la coscienza in pace.

Lungo il viaggio di ritorno Paola mi fa parlare d’altro, ci fermiamo a mangiare un panino in autostrada, ho bisogno di lavarmi, di dormire qualche ora. E arrivato a casa mi lavo, cerco qualche notizia su internet, prendo il tempo di raccontare in una mail di poche righe alla mia compagna a Parigi quello che è successo. Ci ripenso e mi tremano un po’ le mani, chissà se ci crederà, a me sembra tutto assurdo adesso, penso che sono arrivati, è una buona notizia, penso che non li hanno arrestati e ricacciati indietro, altra buona notizia. Ma poi tutto si rimescola di nuovo, dove vanno a finire adesso? Davvero tutti clandestini a raccogliere pomodori, la mafia, lo sfruttamento del lavoro nero, Rosarno, le domande d’asilo e un altro dopo che non riesco a distinguere, sono stanco, mi butto a letto, domani siamo di nuovo in carcere. Non ho ancora scaricato le foto.

Immigrati, sbarco a Porto Palo
fermati nelle campagne 18 clandestini
Prima in barca e poi a piedi. Finisce nei campi la fuga degli extracomunitari sbarcati nella notte.
Nella barca documenti e soldi libici. Arrestati quattro scafisti”

Da un barcone avvistato questa notte a largo di Porto Palo (Siracusa) sono sbarcati e rintracciati, dagli uomini delle Capitanerie di Porto siciliane, 18 immigrati nelle campagne vicine. Poco distante, in località Isola delle correnti, sono stati trovati anche quattro uomini di nazionalità libica impegnati a disincagliare un barcone di 12-14 metri, presumibilmente quello che ha portato in Italia gli immigrati. Sulla barca sono stati trovati documenti e soldi libici, telefoni cellulari e satellitari e anche armi da taglio, tra cui un machete.
La polizia ha arrestato i quattro uomini con l’accusa di essere gli scafisti del trasporto che, secondo le testimonianze degli immigrati fermati, avrebbe portato sulle coste italiane 246 persone. Le motovedette della Guardia costiera perlustrano ora il tratto di mare antistante Porto Palo alla ricerca di altri barconi.
(11 luglio 2010, La Repubblica, Palermo).