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Ventimiglia, la città dei mille confini

di Alessandra Governa e Francesco Ferri

Fotografie di Stamp

Dentro e fuori Ventimiglia

È un’altra estate calda a Ventimiglia. La terza, se come punto zero utilizziamo, in un immaginario calendario sociale e politico, il tempo segnato dal flusso di migranti in transito per la cittadina ligure. Può essere utile, per scandagliare le stratificate dinamiche che attraversano il territorio, osservare in prospettiva e da fuori, per un lungo istante, questo specifico paesaggio di confine. Con i piedi e la testa costantemente immersi in un contesto così complesso, infatti, è spesso difficile cogliere la portata multilivello del fenomeno e mantenere gli sguardi aperti e curiosi. In tanti – attivisti, operatori, giornalisti e non solo – anche quest’estate hanno deciso di mettersi in gioco proprio qui, in questo frammento di territorio che segna il confine chiuso eppur poroso tra l’Italia e il resto d’Europa. La presenza, il punto di vista e gli sguardi altri offerti da chi attraversa il territorio può essere un’occasione per ripensare Ventimiglia.

È nella specifica densità di questa città che è possibile assorbire le sue mille sfumature emotive e politiche, di questa città spesso definita allo stremo, invasa, sotto pressione o tenuta sotto scacco dal passaggio e dalla permanenza, seppur temporanea, di diverse centinaia di persone, per lo più dislocate lungo il greto del fiume. Non si tratta di un’invisibilità totale, almeno non dal punto di vista fisico. I neri scendono dai treni, si muovono per lo più lungo via Tenda, stazionano davanti ai luoghi informali di ritrovo: la piazza della stazione, il piazzale davanti alla chiesa di Sant’Antonio nel quartiere delle Gianchette, il parcheggio poco oltre, dove la sera avviene la grande distribuzione di cibo, dove si consumano i pochi momenti di socialità pubblica – si canta, si balla, si gioca a calcio – e dove trovano giaciglio i tanti che passeranno la notte a Ventimiglia.

Si tratta di un’invisibilità parziale. Anche i luoghi del transito sono solo parzialmente invisibili. È più che altro una marcia silenziosa, che assomiglia alla recita di un rosario. I sentieri più impervi, le strade carrozzabili per la frontiera alta, gli scogli, la ferrovia e l’autostrada sono scanditi dall’attraversamento oltreconfine e, nella maggior parte dei casi, un chicco dopo l’altro, un nero dopo l’altro, seguendo la traccia di inquietante, rodata meccanica, si viene riportati al di qua della frontiera, ancora a Ventimiglia.

È necessario, dunque, tuffarsi nella caotiche dinamiche che attraversano la città, per cogliere tutta la violenza sistemica messa in scena dagli attori del confine. Ma è opportuno, allo stesso tempo, non dimenticarsi di osservare il contesto in prospettiva e tenere insieme, con un sol sguardo, quello che accade in molti altri luoghi: negli hotspot del sud, lungo le traiettorie del transito, oltreconfine. Una prospettiva di questo tipo – un po’ dentro, un po’ fuori – può mettere al riparto dal rischio di cogliere soltanto una parte dello spettacolo. Con il naso puntato unicamente sui dettagli, infatti, rischiamo di rimanere confinati in ragionamenti e ruoli irrimediabilmente parziali e insufficienti.

Confine o frontiera?

Che fare, quindi, una volta assunta questa prospettiva? Può essere utile, innanzi tutto, interrogarsi sulla portata del sostantivo più utilizzato a Ventimiglia – frontiera – e sull’universo simbolico che accompagna questa scelta. La città ligure è terra di frontiera? Un certo gergo, molto diffuso anche tra gli attivisti, sembra prediligere proprio il termine frontiera, utilizzato soprattutto per descrivere quel che succede in frontiera alta, luogo simbolico e materiale intorno al quale va in scena, tra le due caserme contigue della polizia italiana e francese, la prassi ormai consolidata dei trasferimenti coatti verso il sud Italia dei migranti intercettati in Francia come strumento informale di deterrenza.

Il termine frontiera sembra richiamare un certo immaginario romantico, che poco corrisponde alla configurazione attuale di Ventimiglia. La frontiera rimanda a terre inesplorate, a possibilità ancora inespresse, a imprese e progetti di ampia portata, potenzialmente vittoriosi. Frontiera non restituisce a dovere la violenza della chiusura, dell’arbitraria selezione, del confinamento, della discrezionalità.

Viceversa, la parola confine sembra più indicata per restituire le complessità che attraversano la cittadina ligure. Il confine – e l’attività di confinamento – segnano la storia e la geografia attuale di Ventimiglia, delineando il suo volto contemporaneo. In fin dei conti a Ventimiglia ci sono i migranti – e anche gli attivisti – perché c’è un confine che blocca, separa, divide.

Dov’è situato il confine? Abbiamo, da questo punto di vista, una certezza e molte domande. C’è un confine visibile, addirittura ostentato, esteticamente riconoscibile, a suo modo imponente. È il confine segnato dai materiali – caserme, sbarre, mezzi delle polizie, transenne – e dagli attori del confine che lo presidiano. È una presenza talmente significativa da funzionare come monito. Allo stesso tempo è possibile, allenando gli sguardi e assumendo quello sguardo di prospettiva che si richiamava all’inizio scoprire l’esistenza e il funzionamento di altri confini, meno visibili ma ugualmente vigenti. Osservando le strade della città ligure, attraversando i suoi bar e la sua stazione, soffermandosi sulle dinamiche che si instaurano tra migranti, cittadini, attivisti, ONG, è possibile scorgere una pluralità di confini, tra di loro intrecciati e interdipendenti.

Dentro e contro i confini

Con queste nuove lenti, dunque, Ventimiglia non appare più città di frontiera, e neanche di confine. La cittadina è, a tutti gli effetti, la città dei confini. Non si tratta di un cruccio lessicale, ma di una scelta politica. È sufficiente, ad esempio, seguire un immaginario tracciato che attraversa i Balzi Rossi, Ponte San Luigi, quello la Val Roja, cogliendo la materialità e i simbolismi che caratterizzano il territorio, per cogliere la portata dei confini – eterogenei, molteplici e plurali – che circondano e attraversano il territorio.

Pensiamo, ad esempio, ai confini giuridici che definiscono gli status delle persone in transito. Se il desiderio di passare al di là della frontiera è tendenzialmente trasversale tra le persone presenti a Ventimiglia, la possibilità di farlo nell’ambito delle procedure legali è appannaggio di una percentuale ristretta di persone che, alla luce della normativa europea, ha il diritto – alla luce della specifica posizione soggettiva davanti all’autorità degli stati – di attraversare regolarmente il confine. Da questo punto di vista, il confinamento giuridico all’interno di categorie escluse da tale diritto segna la qualità della vita, quando i confini visibili.

Pensiamo, inoltre, ai confini etnici che attraversano l’insieme, solo apparentemente omogeneo, dei migranti in transito. Nella retorica dominante, infatti, soltanto alcuni gruppi nazionali avrebbero diritto alla protezione internazionale. Si tratta di un confinamento tanto arbitrario quanto vigente: nonostante, com’è noto, chiunque ha diritto di chiedere asilo, l’idea che esistano migranti economici in quanto provenienti da specifici contesti – si pensi, a titolo di esempio, al Maghreb – ha contribuito a definire informali ed impietose gerarchie, segnando un differente indice di accettabilità sociale delle migrazioni, che divide i migranti accettabili dagli inaccettabili.

Un ulteriore confine invisibile segna la divisione tra categorie tendenzialmente considerate come vulnerabili – minori, donne, persone con particolari esigenze fisiche o psichiche per esempio – e la restante parte dei migranti in transito. Il confine tra queste due categorie evidenziata, ad esempio, l’esistenza di servizi dedicati dalle ONG e da luoghi differenziati, anche solo in apparenza. Questo tipo di approccio da un lato è assolutamente comprensibile: predisporre livelli di assistenza diversi per categorie portatrici di specifiche esigenze è un dovere etico. Viceversa, un approccio di questo tipo – protettivo nei confronti dei vulnerabili e implicitamente escludente nei confronti di tutti gli altri – rafforza l’idea, sulla scia di un’evidente carica emotiva ed empatica che la migrazione di soggetti in difficoltà provoca – che esista un diritto di accoglienza differenziato a favore di alcuni soggetti.

È necessario tener costantemente presente che la maggior parte dei migranti di passaggio e in permanenza a Ventimiglia sono uomini sub-sahariani di età compresa tra i 17 e i 30 anni. La peggior specie. Quelli a cui poco è concesso in termini di pietas o di esercizio dei diritti. Non donne, bambini, vulnerabili. Ma migranti, neri, in alcuni casi musulmani, africani: nella scala della tolleranza sono all’ultimo posto.

C’è un ulteriore confine, ancora meno visibile degli altri, che scandisce la differenza tra soggettività migranti in maniera ancora più sottile. Per osservare come opera bisogna prestare attenzione: ci sono tempi e luoghi specifici nei quali questo confine diventa impietosamente visibile. La nostra occasione per coglierne la portata è legata ad un episodio specifico. Abbiamo partecipato, con altre e altri attivisti, alla distribuzione di sacchi a pelo, di notte, nel grande parcheggio non lontano dalla Chiesa di Sant’Antonio. Con le luci della cittadina ormai lontane, e i corpi che si distendono in attesa dell’alba, è possibile rendersi conto delle gerarchie estemporanee, fluide eppur vigenti, che confinano alcune persone, relegandole in angoli ancora più nascosti, in condizioni di vita ancora più drammatiche, in un isolamento delle informazioni, dal contesto e, quindi, dalle possibilità di attraversamento del confine. Difficile definire quali linee invisibili producano questo ulteriore confinamento. È l’esclusione da un network efficace? È legato a difficoltà relazionali? È definito soltanto dalla circostanze e dal caso? In ogni caso, anche qui – tra gli ultimi e i penultimi – il confine definisce la qualità della vita e la portata delle future possibilità.

I confini e gli attivisti

A cosa può essere utile allenarsi a cogliere questi e mille altri confini che attraversano Ventimiglia e ogni contesto sovrapponibile? Non è un semplice esercizio di stile, e neanche la bozza di una ricerca etnografica. Al contrario, è un atto di cura nei confronti dell’energie che impieghiamo e del tempo che dedichiamo all’attivismo: affinare gli sguardi ci serve, innanzi tutto, per provare a limitare l’inevitabile arbitrio che accompagna le nostre scelte politiche e relazionali. Può essere utile, inoltre, per indirizzare i nostri sforzi e il nostro impegno non più genericamente rivolti contro la frontiera, ma che mirano a riconoscere e contrastare ogni singola attività di confinamento, anche quelle esteticamente poco in linea con il nostro immaginario consolidato.

In ultimo, tenere ben a mente i mille confini che attraversano anche Ventimiglia può essere davvero utile per congedarci, una volta per tutte, dall’idea che il dispiegamento dei confini sia un’attività oggettiva e nella quale in qualche modo non siamo coinvolti. Al contrario, proprio poiché ne sentiamo addosso tutta l’arbitrarietà, la natura politica, di parte, e finanche grottesca, abbiamo l’occasione di iscrivere le nostre singole azioni – anche quelle in apparenza più piccole, marginali, estemporanee – in un immaginario e in una prospettiva di ampia portata, per una Ventimiglia e un mondo sempre più disposto a riconoscerli e a superarli.

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